FILOSOFI E SOFISTI IV

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Ma non è tutto. Il nostro sofista negazionista – incurante del fatto che lo stesso Critone alla fine si rassegna e desiste dai suoi tentativi di salvarlo dalla morte, persuaso e ammirato di fronte alle ragioni ideali del maestro rimasto coerente al suo insegnamento e a tutta la sua vita di filosofo intenta solo a rendere testimonianza della verità   – cita il Libro V dell’ Etica Nicomachea di Aristotele, che tratta della giustizia e dell’ingiustizia, in cui  qualcuno (chi? Bencivenga non lo dice) ha voluto scorgere una velata critica a Socrate, in quanto ha preferito bere la cicuta piuttosto che tradire se stesso e i suoi valori. Ora si dà il caso che il Libro V sia uno dei più  interpolati e controversi della Nicomachea dal momento che consiste nella trascrizione di una serie di appunti non sempre ben collegati tra loro, tanto che molte frasi e passaggi del testo hanno dato filo da torcere agli specialisti e adito a interpretazioni diverse, ragione per cui sarebbe stato opportuno che il nostro sofista indicasse su quali passi in particolare si basasse l’illazione critica riguardo alla scelta di  Socrate, ma evidentemente non si può chiedere a un sofista lo stesso amore per la verità che caratterizza  i veri filosofi.

Lo strano è che se Bencivenga voleva marcare una differenza tra il comportamento di Aristotele e quello di Socrate di fronte a una accusa infondata e pretestuosa in base alla quale  si può essere condannati a morte,  non aveva che da far riferimento al fatto che lo Stagirita, quando, dopo la morte di Alessandro Magno nel 323 a. C. , il partito antimacedone prevalse ad Atene e i suoi avversari politici lo accusarono di empietà, si guardò bene dal seguire l’esempio di Socrate e fuggì a Calcide in Eubea dove morì un anno dopo; forse a causa di un tumore allo stomaco. Anche i disobbedienti più irriducibili non possono tuttavia non sottoscrivere la risposta di  Cacciari alla domanda relativa alla responsabilità del filosofo quando le sue parole “piovono sulla città” (Michele Serra), “Come dire, quando parla lei  è tutta acqua al mulino dei no vax” postagli da Federico Novella proprio su La Verità: “Sì, peccato che adesso i no vax mi sparano addosso. Serra , e quelli come lui si interroghino: avete consapevolezza dei danni culturali e psicologici di questa gestione sanitaria? Apprezzate una politica che va avanti a colpi di fiducia e decreti? Se questa eccezionalità si prolunga per una sola generazione, muterà la forma di governo e andrà a ramengo ogni forma di democrazia. Se ne rendono conto, o sono perfettamente ciechi?”. E questo dovrebbe bastare a rassicurare i disobbedienti riguardo alla presunta defezione di Cacciari  Ma lasciamo ora filosofi e sofisti alla loro disputatio senza fine  intorno al green pass e ai vaccini, e vediamo piuttosto di non lasciar cadere la questione fondamentale del rapporto tra la libertà dei singoli cittadini e  le leggi dello Stato; a questo riguardo è d’obbligo richiamarsi al maggior teorico dello Stato nell’età moderna, cioè a Thomas Hobbes; qual è il principio giuridico sul quale si basa il potere dello Stato sovrano delineato nel Leviatano ? E’ il principio dell’autonomia dell’autorità statale da qualsiasi altra autorità, principio sintetizzato nella formula Auctoritas non veritas facit legem : le leggi dello Stato dipendono solo dal sovrano (di qui l’espressione “Stato sovrano”), che non necessariamente coincide con una sola persona ma può benissimo essere un’assemblea alla quale è stato conferito il potere di legiferare.

Ermanno Bencivenga

Le leggi emanate dalla Stato sovrano, il quale comprende così  il potere civile come quello religioso – su questo punto Hobbes torna con significativa insistenza –  non mirano alla verità ma alla pace dei sudditi, ponendo dei limiti alla loro libertà, presupponendo che, per natura, preferiscano rinunciare alla libertà illimitata di cui godevano (si fa per dire) fuori da ogni contesto politico, in cui però l’unica legge è quella del più forte e l’uomo è un lupo per l’altro uomo, in cambio della sicurezza di poter vivere in pace. In questo consiste il “contratto” tra gli uomini liberi nello stato di natura ma indifesi di fronte ai nemici e agli altri uomini, con lo Stato sovrano, chiamato Leviatano –  con riferimento al mitico animale marino evocato nel Libro di Giobbe (Gb 40, 24-32),  o  “La materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile” (1651), che possiede il monopolio della forza. Nella seconda parte del volume leggiamo nel capitolo ventunesimo, intitolato “La libertà dei sudditi” la definizione  di  uomo libero: “ un uomo libero è colui che nelle cose che è capace di fare con la propria forza e il proprio ingegno, non è impedito di fare ciò che ha la volontà di fare”; questa definizione tuttavia vale solo per la libertà nello stato di natura che, come sappiamo, è una continua guerra di tutti contro tutti, ed è per questa ragione che “gli uomini, per raggiungere la pace e, con ciò, la propria conservazione, hanno costruito un uomo artificiale che chiamiamo Stato; e così hanno costruito anche catene artificiali che, chiamate leggi civili, che essi medesimi,  con patti reciproci, hanno fissato , per una estremità, alle labbra di quell’uomo, o di quell’assemblea, cui hanno conferito il potere sovrano e, per l’altra, alle proprie orecchie. Questi legami, ancorché deboli per loro natura, possono nondimeno essere resi resistenti dal pericolo…” .

Ecco spiegata l’origine del Leviatano di Hobbes, rappresentato sulla copertina della prima edizione come un gigante con la testa coronata e il corpo ricoperto da tanti minuscoli individui come fossero squame. Il gigante si erge dalla cintola in su all’orizzonte di un paesaggio montuoso in cui si scorgono costruzioni umane; regge nella destra una spada, simbolo del potere civile e nella sinistra un pastorale, simbolo del potere religioso. Lo Stato hobbesiano assume quindi tutto il potere (a proposito, chi è che recentemente in Italia ha chiesto, per fortuna invano, i pieni poteri?) e non riconosce nessun’altra autorità al di fuori di sé, ragione per cui si potrebbe dire Nulla salus extra legem come, in ambito teologico, si dice Extra ecclesiam nulla salus. Questo per dire anche quanta teologia sia ancora presente nello Stato sovrano “laico” di Hobbes. Nel secolo successivo, chiamato “dei Lumi”, in contrasto ai secoli considerati bui dell’età di mezzo, o anche delle grandi  rivoluzioni, quella americana e, soprattutto, quella francese, tutto (o quasi ) cambia. Nella Dichiarazione d’Indipendenza americana del 4 luglio 1776, redatta dal giovane avvocato e intellettuale, nonché possidente terriero e architetto, Thomas Jefferson,  leggiamo: “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini siano creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra questi vi siano la Vita, la Libertà e il perseguimento della felicità.

Che per assicurare questi diritti sono istituiti tra gli uomini i Governi, che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati. Che quando una qualsiasi forma di Governo diventa distruttiva di questi fini, è Diritto del popolo di alterarla o di abolirla, e di istituire un nuovo Governo, ponendo il suo  fondamento su questi principi e organizzando i suoi poteri in una forma tale che sembri ad esso la più adeguata per garantire la sua sicurezza e la sua felicità”. In questa celebre Dichiarazione , oltre alla novità assoluta di riconoscere tra i diritti naturali “inalienabili” non solo quello di vivere (questo diritto lo tutelava anche il Leviatano) ma pure quello a una vita felice,   assistiamo al capovolgimento dello Stato sovrano di Hobbes, in quanto è evidente che qui la sovranità non è più dello Stato ma del popolo che può revocargli il consenso qualora non corrisponda più  al suo mandato. Non solo, ma qui si prende in seria considerazione che sussista la possibilità, impensabile nello Stato sovrano di Hobbes, che il popolo debba difendersi proprio dallo Stato medesimo diventato suo nemico (ed è esattamente la situazione dei coloni americani rispetto alla monarchia inglese di cui erano ancora formalmente sudditi). Sennonché qui il popolo non è più composto da sudditi tenuti all’obbedienza ma da liberi cittadini in grado di decidere quale sia la forma più adatta alle loro esigenze e necessità, dunque più giusta, del loro governo. Thomas Jefferson era culturalmente figlio dell’Illuminismo inglese e francese, oltre ad essersi formato sui classici greci e latini ammirava John Locke, Francesco Bacone ed Isaac Newton ma aveva letto anche  De l’esprit des lois del Montesqieu.

Come è noto, il filosofo e giurista francese, nella sua monumentale opera in due volumi e trentadue libri, pubblicata anonima a Ginevra nel 1748,  teorizza la distinzione e separazione dei poteri che leggiamo nel libro XI, che comprende la distinzione fra governi moderati e immoderati. La tendenza naturale degli Stati è quella di progredire ed evolvere. Perché gl Stati conservino una forma moderata e impediscano l’insana tendenza dei potenti ad abusare del loro potere, è necessario che “il potere freni il potere”. Di qui deriva la necessità della separazione del potere legislativo da quello esecutivo e questo dal giudiziario in modo tale che  questi poteri si bilancino e si limitino reciprocamente, in quanto “non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo”; questo è il solo modo con il quale si può  salvaguardare la libertà politica e “impedire che un cittadino possa temere un altro cittadino”. Naturalmente un conto è la teoria, un altro la pratica, Montesquieu ne era ben consapevole, infatti così conclude il libro XI del suo capolavoro che getta le fondamenta di tutte le Costituzioni degli Stati liberaldemocratici contemporanei: “Siccome tutte la cose umane hanno una fine, lo Stato di cui parliamo perderà la sua libertà, perirà.  Roma, Sparta e Cartagine sono pur perite. Perirà quando il potere legislativo sarà più corrotto di quello esecutivo. Non sta a me esaminare se gli Inglesi godano attualmente di questa libertà  o no. Mi basta dire che essa è stabilita dalle loro leggi, e non chiedo di più. Non pretendo con ciò di avvilire gli altri governi, né dichiarare che questa libertà politica estrema debba mortificare quelli che ne hanno soltanto una moderata. Come potrei dirlo io, che credo non sia sempre desiderabile nemmeno l’eccesso della ragione, e che gli uomini si adattino quasi sempre meglio alle istituzioni di mezzo che a quelle estreme?” E qui faccio punto, lasciando ai maturi estremisti che scrivono su questa stessa rivista online eventuali integrazioni e obiezioni. (Fine)


Fulvio Sguerso

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