Il fattore “g”. De profundis per Matteo Salvini (e per la Lega)

Qualche anno fa mi è capitato di trovarmi faccia a faccia con Salvini e di scambiare con lui due parole. E devo dire che l’uomo, oltre che il politico, mi fece un’ottima impressione. Diretto, concreto e, così mi era parso, affidabile; non un’aquila ma, si sa, in un buon leader deve potersi rispecchiare la media del gruppo: un pochino sopra, non troppo, altrimenti rischia una brutta fine. Poi come ministro fece un buon lavoro, non solo nel contrasto all’immigrazione clandestina ma anche sul tema della legittima difesa e della sicurezza.

Qualche perplessità, e lo scrissi anche su questi Trucioli, mi creò l’aver avallato la montatura del Papeete, dando a intendere di essersi dimesso dal governo per scelta propria causandone la caduta quando era evidente che era stato malamente buttato fuori, come icasticamente dimostra la sua testa china dinanzi alla dura requisitoria di Conte (Conte!). Però, pensai, sarà il bravo ragazzo che è in lui, che, se lo rende simpatico, comporta anche qualche inconveniente. E la Lega, diventata nazionale, mi era sembrata l’unica alternativa credibile a un regime plutocratico asservito all’Europa, dove per Europa s’intende di volta in volta la Germania, la Francia o l’asse franco-tedesco. Poi ho dovuto assistere all’inconsistenza della Lega nel governo Draghi, allo spettacolo dei “governatori” leghisti chiusi a riccio nel loro feudo e al riaffiorare del nordismo  bossista,  nel silenzio di tomba del Capitano sugli sbarchi di clandestini compensato, si fa per dire, dall’ annuncio trionfalistico di una ridicola riforma dell’Irpef, che, se non le peggiora, lascia le cose come prima.

Probabilmente l’oggettiva pochezza politica di Giorgia Meloni, l’allieva caciarona del compassato mister Turriani, e quella corte dei miracoli che è il suo partito mi hanno fatto credere che la Lega e Salvini restassero comunque  l’unica speranza per un futuro migliore di fronte a una sinistra che odia la nazione e la patria tanto da bandirne perfino i nomi e allo sfacelo dei grillini rimasti nelle mani di uno del quale la cosa più benevola che si possa dire è “sotto il vestito niente” e di un altro (Di Maio, per intenderci) che non ha nemmeno quello.
Che il centrodestra politicamente non esisteva era una palmare evidenza e gli incontri, i baci e gli abbracci nonché le reiterate dichiarazioni di unità non convincevano nessuno. Si poteva pensare che Matteo, più sveglio di quanto non desse a divedere, ribadendo l’unità dei tre – o quattro – alleati intendesse forzarli a non tradirla ma ogni volta le sue dichiarazioni suonavano come una moneta falsa.  Abbiamo assistito alla disinvoltura con cui Toti confessava candidamente di essersi servito dei voti di destra per migrare verso il centro, battipista della pattuglia di Forza Italia da tempo impegnata a confabulare  con quella volpe senza scrupoli che è Matteo Renzi: un centro che poi non è altro che il baricentro del regime, lo stesso regime che gli elettori di Berlusconi, della Lega, della Meloni (quella che voleva Draghi al Quirinale in cambio della promessa del voto subito) e, last but not least, dei Cinquestelle volevano abbattere.

E  se, giustamente, contro  i parlamentari pentastellati si è levato il crucifige da parte di tutti i massmediologi: sono disposti a tutto pur di arrivare alla fine della legislatura – e volesse il cielo si potesse prolungarla! – pur di non perdere altri dodici  mesi di laute prebende, la stessa accusa si può tranquillamente rivolgere a tutto il parlamento con l’eccezione dei Fratelli d’Italia che sanno  – o si illudono – di poter essere rieletti nonostante  quella suprema idiozia che è stato il taglio  del numero di senatori e deputati. Tutti a recitare il mantra della stabilità in nome dell’emergenza sanitaria, alla quale ora aggiungono quella economica – ma non era in atto la ripresa? – e quella sociale  – ma quando mai si sono preoccupati di quel che accade nella società? -, quando l’unica stabilità a cui tengono è quella del loro conto corrente: non sono spiccioli ma altri duecentomila euro per scrollarsi di dosso definitivamente la miseria dalla quale la maggior parte di loro  proviene e che ora aborriscono come la peste.  Sotto questo aspetto chapeau a Conte che non ci costa un soldo (almeno direttamente) e un lavoro ce l’ha.

Sui vaccini la politica demenziale di Speranza è stata coperta  dalle contraddizioni di Zaia o di Fedriga e dalle oscillazioni pendolari di Salvini mentre i berluscones e i meloniani facevano a gara nello spingere verso la militarizzazione sanitaria del Paese, il sindaco di Trieste plaudiva agli idranti e alle bastonate contro pacifici e inermi dimostranti, i giornali d’area sollecitavano la fucilazione per i non vaccinati. Ma peggio di tutti proprio Salvini che avrebbe voluto strizzare l’occhio ai cosiddetti no-vax e cercava di farlo senza farsi vedere.
Ma la cartina di tornasole è stata la vicenda Belloni o piuttosto la trappola Belloni tesa dal duo riconciliato Letta-Renzi nella quale Salvini è caduto come un allocco.  La signora Belloni, ignota a tutti (ma non a Conte), è una brillante funzionaria assurta alla direzione dei nostri servizi segreti.  Averne fatto circolare il nome come papabile per la presidenza della repubblica sembrava uno scherzo  o una provocazione peggio di quella dei grandi elettori che nel passato scrivevano Cicciolina sulla scheda e ora hanno votato Trapattoni, che quanto meno è un personaggio conosciuto e gode di un grande prestigio fra quanti seguono il gioco del calcio.

Bene.  Salvini, che il giorno prima aveva solennemente annunciato di avere in serbo una candidatura femminile alla quale la sinistra non poteva opporsi (anche perché, si è saputo dopo, proprio da Letta gli era stata suggerita) e che l’indomani ci sarebbe stato finalmente un capo dello Stato donna,  dopo aver sacrificato la Casellati si è giocato tutto su questa Belloni senza sapere nemmeno chi fosse. E immediatamente Renzi ha fatto scattare la trappola, sostenendo quello  che era ovvio per tutti: una candidatura simile non sarebbe stata concepibile nemmeno in Bolivia.
A questo punto diventava non solo plausibile ma inevitabile la soluzione che grillini incollati alla poltrona, Letta emissario di Macron e la longa manus draghiana di Bruxelles avevano in mente fin dall’inizio: il reincarico a Mattarella in barba all’ordinamento costituzionale, alla volontà popolare e al decoro del parlamento e del Paese. E che Mattarella non fosse della partita, con tutti i commiati e la sceneggiata degli scatoloni, mi pare improbabile. Ma un’altra cosa appare chiara:  il ruolo decisivo del fattore  “g”, quello comune a tutti i test che misurano l’intelligenza e che evidentemente in Matteo non solo non corrisponde a quel pochino in più al quale ho accennato all’inizio ma non rientra neppure nella media perché su cento persone che incontri per la strada non ne trovi nemmeno uno che dal novero delle personalità femminili di alto profilo istituzionale avrebbe escluso la presidente del Senato, purtroppo bruciata su mandato di Berlusconi, o la ministra della giustizia, quella Cartabia che avrebbe scompaginato le carte a Di Maio, a Letta, a Draghi e, ovviamente agli occhietti furbi di Mattarella, e nessuno, dico nessuno, sarebbe caduto nella trappola per topi di una candidatura fuori dal mondo.  Si dirà: ma il nostro era in buona fede. Infatti, è proprio questo che più preoccupa.
Con ciò la Lega è finita, Salvini toglie il disturbo, la Meloni e tutti i suoi accoliti si fregano le mani mentre dal dizionario politico sparisce il centrodestra, che già era un ossimoro;  non ci resta che aspettare tempi migliori. Se ne abbiamo, di tempo.

Post scriptum
Lo scrivo con amarezza e qualche senso di colpa: quello che sembrava strano o inopportuno, le invocazioni alla madonna, i rosari, i santini, il crocefisso attaccato al collo e l’espressione un po’ così ora si spiegano anche troppo bene…

Pierfranco Lisorini

Il nuovo libro di Pierfranco Lisorini  FRA SCEPSI E MATHESIS

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.