Su Mosè come persona e Mosè come eponimia (terza parte)

N.B.
Questo articolo, e alcuni altri che lo seguiranno, riprende idealmente quelli pubblicati su “Trucioli savonesi” dal 2 settembre 2021 al 23 ottobre 2021. Là si era giunti a parlare di Mosè, e ora si cercherà di completare il discorso su di lui, prima di passare ad un discorso più ampio che, comunque, lo presuppone. 
Di Mosè, è estremamente importante rimarcarlo, per rendere un poco più concreto un discorso di per sé molto astratto, si parla come fosse una persona, ma in realtà lo si riconosce l’incarnazione di un’ideologia. 

 

Mosè con le Tavole della Legge


Dio che punisce, che ordina, che giudica… Se ne parla come se esistesse. 

Allora è opportuno sottolineare che il Dio predicato dall’autore sacro (ovvero, fuor di antonomasia, dalla serie di capi politici, di profeti, di intellettuali e di sacerdoti portatori e propagatori dell’ideologia espressa nel Pentateuco e volutamente ricondotta all’unico personaggio, dai contorni in bilico tra storia e mito, di Mosè) il Dio onnipotente ed eterno, l’autore sacro stesso sa che non esiste. 
Egli pensa che forse esisterà, ma sa che non esiste. 
Perché possa esistere in un futuro, per quanto inimmaginabilmente lontano, egli deve far credere che esiste già al presente. E non può, se vuole che il suo orizzonte profetico non si chiuda su se stesso, agire diversamente.

Poiché è una problematica aperta quella della legittimità logica riguardo un’entità che diventa eterna (per cui dovrebbe non avere fine pur avendo avuto inizio) e che si trova (essa legittimità) dinnanzi allo stravolgente concetto di Dio, non ci pronunciamo sull’avvento di un siffatto regno, appunto, di Dio. 
Individuiamo invece nel Nulla il vero Dio di Mosè e in Mosè il padrone di questo Nulla, colui che socialmente lo gestisce.
Un Nulla che deve essere scritto con la lettera iniziale maiuscola perché, ovviamente senza volerlo e senza saperlo (e come potrebbe trattandosi del Nulla avere un pensiero?), riesce a muovere i fili della storia ebraica (e poi occidentale). A condizione però che qualcuno gli dia un nome diverso dal suo; che qualcuno, nominandolo, lo faccia esistere.

Una buca non esiste finché non le costruiamo un’esistenza dandole un nome; quello, appunto, di buca.
Di per sé la buca è un nulla, in quanto essa è data solo da ciò che la limita: le pareti della buca, in realtà, non sono della buca, ma del terreno. Noi possiamo, per esempio, prendere un bicchiere ed alzarlo; ma come potremmo prendere una buca ed alzarla? Una buca c’è solo in quanto le manca la sostanza per essere. 
Una buca non è qualcosa che è: è qualcosa che manca. Della buca tuttavia riusciamo a parlare come se esistesse, come se il nulla che essa è fosse qualcosa. 
Addirittura chi avesse la sventura di finire con un piede in una buca, e ne subisse una qualche conseguenza fisica, avrebbe difficoltà a non provare un reale, per quanto assurdo e infantile, astio verso di essa, fornendole virtualmente quell’essere che non ha. 
Allo stesso modo Mosè (ancora una volta, poiché è uno snodo importantissimo, ricordiamo che qui di Mosè si parla come di una persona ma la si intende come un’ideologia) parla del Nulla come se esistesse. 
La sua non è una vera e propria menzogna, perché è accaduto davvero che qualche Uomo tra gli Uomini, raggiunto un certo grado di autocoscienza, sia stato ridotto a timore e tremore proprio dalla scoperta di un tremendo, totale, agghiacciante Nulla. 
E’ accaduto davvero che per sfuggire a questo Nulla, abbia cercato di riempire la sua vita e di negare la sua morte mirando attraverso la scienza all’onnipotenza, e mediante la procreazione all’eternità.

In effetti il Nulla, che come tale è meno dell’Uomo, anzi, meno dell’ultima molecola dell’ultima pietra (ma dire che è “meno” ha senso solo in quanto figura retorica, perché il Nulla non è comparabile), è immensamente più potente di lui. 
Il Pentateuco dà un nome a questo Nulla, e lo chiama YHWH. 
Nessuno più di Mosè sa che Dio non esiste; nessuno più di lui sa quanto sia importante che il popolo non se ne accorga. Se se ne accorgesse, egli non riuscirebbe più a farsi ubbidire e a farsi seguire verso la Terra Promessa.

La linea dell’autore sacro ha successo però non solo a causa della sua abilità, ma soprattutto perché è insito in ogni uomo, da quello che vive nel più desolato dei deserti a quello che abita nel centro di una megalopoli, il desiderio di diventare Dio. Anche nell’uomo al quale se glielo si rivelasse, reagirebbe negando con risolutezza e sincerità di averlo mai avuto. 
La grandezza stategica del Pentateuco è consistita nel creare un messaggio che tra blandizie e minacce, tra gioia e paura, tra premio e castigo, aderisse all’animo umano.

Tornando con un inciso all’ermeneutica in generale del racconto mitico, bisogna dire che alcuni punti servono da raccordo e non sono interpretabili metaforicamente, in quanto il loro compito non sta nell’esprimere un significato recondito, ma nel collegare adeguatamente due o più significati reconditi tra loro, affinché il racconto stesso si svolga senza soluzione di continuità.
Ci sono pure altri punti, però, non inscrivibili in un contesto coerente né di interpretazione metaforica, né di raccordo tra le metafore, e sono i punti in cui l’autore non riesce più a portare avanti un parallelismo tra il messaggio che vuole comunicare e il racconto con cui vuole esprimerlo. Allora egli esce allo scoperto e scrive cose non decodificabili con la cifra di tutte le altre, perché sono espressione figurata diretta del suo pensiero, irriducibile ad un tassello della storia mitica scelta per l’esemplificazione.

La mappa della Terra di Canaan

Bisogna anche rilevare che il mito copre, oltre a vari altri spazi, anche lo spazio semantico dell’esempio; perciò, come per gli esempi, si trova dinnanzi al problema dell’adeguamento: il mito calza solo se e fino a che il campo del reale a cui esso vuole riferirsi non viene esteso troppo oltre l’oggetto che lo rappresenta. Se è molto più difficile costruire un mito che un esempio, è anche perché il primo presuppone un maggior numero di corrispondenze tra realtà e simboli di quanto ne presupponga il secondo, limitato all’estensione di una frase o poco più.

E’ raro, quindi, trovare miti che riescano a ricalcare in tutto e per tutto il senso di una ideologia, di una filosofia, di una mentalità. L’autore (ma in genere gli autori) è costretto a lasciare dei varchi nel suo racconto, oppure ad introdurre episodi e figure incongrue con l’impostazione fino a quel momento seguita.
Ovviamente resta ferma anche l’eventualità che di varchi o incongruenze non ce ne siano, ma che sia colui che cerca di interpretare il racconto mitico a non saper decodificare quel certo episodio o quella certa figura, o addirittura abbia inquadrato l’intero racconto mitico in una prospettiva errata, la quale solo casualmente aveva offerto corrispondenze plausibili fino a quel determinato punto. Consapevoli di questo, diventa un atto dovuto evitare di individuare comunque corrispondenze per indirizzarle forzatamente. Corretto è solo andare laddove il ragionamento e i fatti ci portano, fosse anche un territorio ostico o sconosciuto.

A proposito di questa ultima considerazione e per mettere a frutto sùbito questo inciso di ordine strutturale, vorremmo evidenziare rifacendoci proprio ad un episodio della Genesi che ci pare emblematico, il tipo di aporie che qualsiasi racconto mitico costituzionalmente solleva, essendo per il suo autore (ma più spesso per la collettività dei suoi autori) inevitabile incorrervi. 
Il riferimento è alla discendenza di Caino.
Di per sé il discorso è così semplice e chiaro che non sarebbe neanche il caso di sottolinearlo. Senonché le cose troppo evidenti, proprio a causa della loro stessa evidenza, spesso non vengono colte. E la loro finisce per essere la medesima sorte delle parole scritte su un foglio che teniamo troppo vicino agli occhi, che risultano illeggibili.
Ebbene, Caino ha dei figli. Con chi? La Bibbia si limita a dirci che ha rapporti sessuali con una donna, sorvolando sul fatto che quella donna, secondo la nostra normale logica, altri non poteva essere che sua madre o, al limite, una sua ipotetica sorella. Certo non si intendeva dire questo, sicché noi dobbiamo avere la capacità di seguire le vere intenzioni del racconto. Resta vero però che certe incongruenze devono essere opposte a chi crede di poter prendere tutto alla lettera, visto che sono smagliature interne ad un approccio letterale.
Resta altresì vero che colui il quale cercando di decodificare un mito si trova davanti a siffatte incongruenze, se ha il dovere di fare certe concessioni, ha anche il diritto che certe concessioni gli vengano fatte, perché non si può pretendere che si renda tutto razionale, anche quelle parti che sono irrazionali alla fonte.

L’assetto socio-politico e giuridico-religioso che Mosè dà al popolo di Israele, è sostenuto da una concezione storica di ampio respiro, in cui il piano attuativo non riguarda, sia chiaro o meno al suo stesso artefice, soltanto il presente o il prossimo futuro, ma anche il futuro più remoto. 
Mosè infatti crea una mentalità che durerà per più di tremila anni, cioè fino ai giorni nostri. Per essa il popolo di Israele è speciale; non nel senso di necessariamente essere il migliore, ma in quell’altro di essere il prescelto. A tal proposito nella Bibbia si legge: “Ora, se darai ascolto alla voce del Signore, tuo Dio, osservando ed eseguendo tutti i suoi ordini che oggi io ti do, il Signore, tuo Dio, ti eleverà sopra tutte le nazioni della terra” (Deuteronomio 28, 1).

Per sintetizzare: Mosè certamente vuole la Terra di Canaan, e per donarla al suo popolo si serve della religione, che deve avere una funzione propulsiva e coesiva. Ma ciò che è funzione prende il sopravvento, tanto da riuscire a indirizzare verso un altro traguardo (che, tuttavia, non esclude obiettivi intermedi). Un traguardo che dunque Mosè propizia, ma che gli risulta presumibilmente abbastanza indistinto. Egli intuitivamente lo percepisce, ma è troppo “oltre” il dicibile, troppo diverso da qualsiasi altro progetto immaginabile e troppo blasfemo per poter essere confessato ad altri e a sé: la legittimazione alla scalata, sia pure utopica all’ennesima potenza, di tutti i gradini che separano la terra dal cielo, di tutti i gradini della Torre di Babele.  

Ci pare quindi che Mosè abbia aperto la strada ad una progressione la quale si fonda su una vera e propria bestemmia agli occhi degli ebrei. E pronunciata da chi? Dalla guida di Israele, dal suo primo e più grande profeta!
D’altra parte come, se non una bestemmia, si potrebbe considerare ciò che, sfrondato dalle apparenze, altro non è che l’incitamento ad equipararsi a Dio? O meglio, a quell’immagine di Dio che gli Uomini hanno sempre sostituito al Nulla che Dio è?

Mosè bambino trovato in una cesta sul Nilo

Di Mosè abbiamo (a volte, non sempre) parlato come se, scrivendo il Pentateuco, le estreme conseguenze del suo pensiero le avesse avute presenti. Per praticità di esposizione capiterà ancora di parlarne in questi termini che, ci rendiamo conto, possono essere piuttosto iconici.
Per far fronte a questo si rende necessario ribadire che ciò che interessa il nostro discorso non è il personaggio storico Mosè. Dovremmo altrimenti fermarci ad indagare questioni relative, per esempio, alla parte di leggenda e alla parte di realtà contenute nel racconto della sua esposizione sul Nilo; oppure relative a ciò che esattamente accadde nella rivolta di Cades-Barnea. 
Invece, pur avvertiti dell’importanza del dato storico, siamo convinti che non sia questo il luogo per indagarlo.
Ciò che piuttosto dobbiamo fare è tentare di capire, considerando il testo biblico così com’è, a chi veramente (in prospettiva utopico-escatologica) è indirizzato il messaggio mosaico; e a chi e a che cosa può portare, dopo che abbiamo scoperto che va oltre, così come va oltre una freccia se fora il bersaglio cui è indirizzata, non seguendo più il tracciato e il target idealmente assegnatole dall’arciere..

Ecco, noi abbiamo trattato Mosè alla stregua di un arciere su cui ricade la responsabilità per la scelta fatta di colpire il bersaglio mirando ad una certa altezza e tendendo la corda dell’arco sino a farle raggiungere una determinata tensione.
Producendo una minor tensione e mirando diversamente, la freccia non avrebbe forato il bersaglio andando oltre, e non sarebbe andata in quella direzione.
Attribuire a Mosè, come abbiamo fatto, certe strategie metafisiche, e farlo addirittura dopo aver più volte puntualizzato che egli non ne era (o non ne era del tutto) consapevole, non invalida il discorso, e nemmeno lo rende contraddittorio. E’ presumibilmente un falso storico, ma non un falso ideologico. Osiamo anzi dire che consegniamo Mosè a Mosè, cioè mettiamo un secondo bersaglio nel punto in cui la sua freccia giunge dopo aver forato il primo.

Infine, considerare il testo biblico del Pentateuco secondo una prospettiva utopico-escatologica, significa poter capire le cose non come andarono, ma come Mosè, questo emblema dell’Occidente, nel fondo più profondo di sé desiderava che andassero. 
Per lui il Pentateuco, assai più di una cronaca, è una guida esemplificativo-edificatoria. Portare avanti dunque una lettura impostata in tal senso, ci consente non tanto di conoscere Mosè, quanto di sapere cos’è il mosaismo. E poiché i primi cinque libri della Bibbia sono ritenuti dagli ebrei i libri decisamente più importanti, che cos’è essenzialmente.
Se pensiamo agli stretti legami tra religione ebraica e cristianesimo, la fede che da 1600 anni domina l’Occidente (l’Editto di Teodosio con il quale il cristianesimo è decretato religione di Stato è del 380), ci rendiamo conto dell’interesse per noi occidentali di una lettura siffatta. Continueremo perciò ad addossare (non abbiamo timore di usare un termine così “pesante”) a Mosè pensieri che in senso stretto presumiamo non gli appartengano.
Ma ora approfondiamo e dilatiamo alcune affermazioni che già sono state fatte e che in seguito ancora riprenderemo, anche se ciò potrà dare l’impressione di deviare troppo dal discorso, visto che “saltiamo” addirittura ad Eva ed Adamo che mangiano del frutto proibito, cioè generando tentano di diventare con la loro progenie come Dio.
Di che si servirà questa progenie per raggiungere ciò che essi avevano in mente? Della scienza e, come i suoi primi intenzionali, quelli cioè non più allo stato ferino, genitori, della procreazione. Ecco allora che le due interpretazioni del protopeccato come peccato sessuale e come peccato di superbia, non sono più in contrasto. 
Ogni atto sessuale, se finalizzato alla procreazione, è nello stesso tempo necessario a Dio e condannato da Dio. Necessario al Dio futuro, perché senza la procreazione non si può costruire Dio; condannato dal fantasma del Dio presente, perché con la procreazione si vuole dare “corpo” a chi lo sostituirà. Necessario, dunque, all’umanità, e condannato dal Nulla.

Adamo ed Eva che mangiano la mela tentati dal serpente

Come si vede, trattiamo il Nulla alla stregua di chi avesse capacità di pensiero e d’azione; così facendo diamo una ragione del comportamento dell’umanità che appunto dal Nulla è condizionata. Se è il Nulla che crea la dinamica del pensiero (poiché quest’ultimo si attiva non appena il Nulla viene scoperto per negarlo, per esorcizzarlo ed infine per eliminarlo), allora è consentito affermare che in certo qual modo quel pensiero (e le azioni ad esso conseguenti) gli appartengono. Ecco da dove deriva la nostra tecnica di far pensare e agire il Nulla. Esso non ha voluto e non ha deciso; non ha richiesto e non ha comandato. Ma è come se l’avesse fatto.

Quanto detto fin qui ci permette la seguente affermazione: Il Dio di Mosè è un Dio a venire che deve essere pensato come già presente perché abbia una sua pur infima possibilità, prima o poi, di presentarsi; non pensare come presente l’assente, “condanna” l’assente a restare tale per sempre.
Potremmo azzardare che questo è anche un modo per decodificare l’idea di fede, differenziandola dalla maniera più consueta e canonica  di intenderla, che consiste nel credere al di là della giustificabilità razionale. 
Secondo questa idea di fede, invece, si crede in Dio per quel tanto che si crede di poterlo costruire.

L’umanità deve progredre per farsi Dio, quindi deve poter continuare; e per poter continuare c’è bisogno, è persino lapalissiano, che l’Uomo si riproduca, che metta al mondo altri individui che come lui contribuiscano al progresso del mondo stesso. “Non entri nell’assemblea del Signore chi abbia i testicoli pesti o chi abbia il membro virile tagliato” (Deuteronomio 23, 2).

Il protopeccato, perciò, si ripete ad ogni concepimento che sia cercato. La natura cerca con la propria volontà inconscia di costruire Dio, ma il protopeccato può essere commesso solo dagli Uomini che scientemente cercano di riprodursi.
Il protopeccato è il peccato che l’umanità più evoluta sul versante della coscienza, ovvero una piccola parte di una piccola parte della natura, compie perché vuole che il volere di dio in fieri di diventare Dio, si realizzi.
Il fatto che sia un volere il quale da una consistente porzione (la più vasta e la meno accorta) di essa umanità non viene riconosciuto, non giustifica questa porzione di umanità. Infatti non si tratta di puro incoercibile istinto, ma di desiderio intimamente coltivato con una cura e un’attenzione tali da impedirgli, tramite una sofisticata ignoranza, di affacciarsi. Ecco allora che Dio è anche Diavolo, il quale sotto forma di serpente, offre il frutto ad Eva. E’ da quel momento che l’umanità cerca di creare Dio servendosi di quel Nulla che il fantasma di Dio è, anche se per farlo incorre nella condanna di quello stesso Dio, di quello stesso Nulla.

Il Dio mosaico ha bisogno dell’umanità e dei suoi progressi, ma condanna la conoscenza perché l’umanità stessa non deve saperlo. Non deve sapere che è soprattutto attraverso di lei e in lei che si attua il processo dell’indiamento.

Il protopeccato è il peccato con il quale veniamo originati, non perché sia un peccato relativo al sesso in quanto sesso, ma perché è attraverso il sesso, ancora prima che con la scienza (il racconto del protopeccato precede nella Bibbia quello della Torre di Babele), che l’umanità mette in atto il suo desiderio di indiarsi, e perciò  di avvicinarsi di generazione in generazione allo svelamento del più grande di tutti i tabù: il volere dell’umanità stessa di essere il Dio futuro; ma anche il suo non volere, nel frattempo, restare senza Dio, sicché alla fede è demandato il compito di fare presente Dio agli Uomini.

La torre di Babele

Mosè cerca però di garantirsi affinché i motivi che sottendono alla sua strategia non vengano scoperti, affinché essa possa persistere e condizionare nel senso di una continua divinizzazione il suo popolo e poi, più in generale, l’umanità. Pertanto maledice il desiderio di conoscenza (quello che porterebbe a scoprire inesistente il Dio trascendente e presente) come peccato così grave da ridurre per sempre l’uomo a schiavo del lavoro e la donna a soffrire (e spesso a morire) per il parto. 
Ma il fatto che da Mosè siano decretate come punizioni proprio il lavoro (il progresso dell’Uomo) e il parto (la perpetuazione della specie), non fa trapelare agli occhi dei più attenti che la punizione per il peccato in realtà è il peccato stesso, cioè quello che Mosè, al di là dell’apparenza, maggiormente desidera?
Non si vede proprio in ciò un’alleanza per una teogonia tra scienza e fede?

Nel Pentateuco si assiste al fenomeno per cui la maledizione di Dio di Genesi 3, 16: “Moltiplicherò i tuoi travagli e le doglie delle tue gravidanze, nella sofferenza partorirai figliuoli”, in altri passi di esso che trattano dello stesso tema della nascita, è intesa come benedizione, sicché viene esaltato il moltiplicarsi delle gravidanze. E’ come se non tutti i Mosè del Pentateuco fossero riusciti ad entrare in sintonia col sofisticato paradigma che fonda la prospettiva ideologica del primo dei tanti Mosè che vengono identificati con Mosè, e perciò a tratti si muovessero fuori dalla sua logica. A tal proposito ci limiteremo ad esemplificare citando spezzoni di un brano (tra i tanti possibili):
– [Lia] concepì ancora ed ebbe un altro figlio, e disse: “Questa volta loderò il Signore”. Perciò gli mise nome Giuda. Quindi cessò di avere figli. Ora Rachele vide che non poteva partorire figli a Giacobbe, perciò Rachele divenne gelosa di sua sorella e disse a Giacobbe: “Dammi dei figli, altrimenti muoio”- (Genesi 29, 35 e 30, 1) . E 
– Allora Lia, vedendo che aveva cessato di avere figli, prese Zilpa sua serva e la diede in moglie a Giacobbe. E Zilpa, serva di Lia, partorì un figlio a Giacobbe. E Lia disse: “Per fortuna”. E gli pose nome Gad. Poi Zilpa, serva di Lia, partorì a Giacobbe un secondo figlio. Lia disse: “Per mia felicià, perché le donne si feliciteranno con me”- (Genesi 30, 9-13). E 
– Allora Lia esclamò: “Dio mi ha fatto un bel regalo; questa notte mio marito starà con me, perché gli ho dato sei figli” – (Genesi 30, 20). E
– Allora Dio si ricordò anche di Rachele, Dio la esaudì e la rese feconda. Essa concepì e partorì un figlio e disse: “Dio mi ha tolto il disonore”. E lo chiamò Giuseppe dicendo: “Mi aggiunga il Signore un altro figlio” – (Genesi 30, 22-24). 
Continua

FULVIO BALDOINO

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