Una considerazione riguardo il Paradiso

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Paradiso. Terrestre o Celeste? Entrambi.
Nel senso di una breve considerazione per l’uno e per l’altro.

Cominciamo da quello Terrestre.
Ebbene, è chiaro a tutti che il giardino felice di cui si parla nella Genesi, è il luogo metaforico in cui si svolge una parimenti metaforica vicenda.
Ma l’obiezione che si sta per muovere non appartiene al campo della metafore, bensì a quello della logica, perché nel racconto si ravvisa qualcosa che proprio logicamente non tiene: Adamo ed Eva erano eterni, la morte non li riguardava. Dimoravano sereni in Eden, e se fossero stati più ubbidienti, avrebbero continuato a dimorarvi. Ma disubbidirono, e persero la loro felicità.
Relativa, però… Perché, appunto, quella assoluta è di avere la visione di Dio nell’altro Paradiso, quello Celeste:

In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa.
[Par. XXXI 1-3]

Un giardino che per quanto amabile, confortevole e spensierato, resta Terrestre, non è sede della Candida Rosa dantesca, laddove la beatitudine è massima.
Da lì il paradosso: ubbidendo a Dio, non commettendo il peccato di mordere il frutto proibito, Adamo ed Eva godono di una felicità relativa, mentre disubbidendo si condannano a morte, ma nello stesso tempo si aprono alla possibilità ( certo, subordinata alla conduzione di una vita vissuta secondo rettitudine, giustizia e carità ), della felicità assoluta che solo il trovarsi al cospetto di Dio permette.
Dobbiamo dedurne che allora i progenitori abbiano tratto convenienza, contro Patristica, Scolastica e magistero Post-Tridentino, a cogliere il frutto dell’albero della conoscenza?

 

Rivolgiamo ora l’attenzione al Paradiso Celeste, e per associazione di idee ( che spesso, non scordiamocelo, si associano per contrasto ) chiamiamo in causa l’Inferno.
Non quello di Satana e dello stridore di denti, sul quale si sono spesi profluvi di parole, ma quello che qualcuno vede nel nulla, quasi che l’uno e l’altro si identificassero.
Infatti vi è chi del nulla ha un orrore tale da percepirlo come una condanna equiparabile alle fiamme eterne di una metafisica Geenna.
Per superare una così infantile visione, bisognerebbe pensare invece al nulla come ad un’ àncora salvifica. E di fronte alle tenaglie roventi dell’inquisitore, chissà quanti avranno infatti sperato nella salvezza che il nulla avrebbe loro concesso.
Una considerazione talmente evidente da non meritare quasi di essere evidenziata.
Invece lo merita il fatto, per lo più sottaciuto o proprio non acquisito, in virtù del quale il nulla può essere liberatorio perché non comporta la disperazione del dover rinunciare alla sublime visione di Dio. 
Il nulla infatti in realtà non “perde”, dal punto di vista eudemonico, rispetto a quello che può dare Dio.
L’estasi non può essere qualitativamente superiore e perciò maggiormente appetibile dell’assenza di essere dell’ente, il quale pensandosi futuro nulla, non può sentirsi deprivato di nulla. Da cui deriva che non conseguire il Paradiso se si è convinti nihilisti non assume nessuna importanza e non comporta nessun rammarico, nessun lutto.
Ovvero: qualsiasi felicità raggiunga nell’aldilà un beato, un santo, un angelo, un cherubino…, non potrà mai risultare un gap per chi quei gradi di beatitudine sa che non gli competeranno e che non gli importerà che non gli competeranno.
Il nulla non ha da perdere nulla, e perciò non ha nulla da perdere. Neanche Dio. Neanche il Paradiso che Dio destina a chi lo merita.
Col diventare nulla ( il filosofo Emanuele Severino inorridirebbe per questa espressione, ma stiamo seguendo un ragionamento basato sul “facciamo finta che” delle dimostrazioni per assurdo che in matematica sono in definitiva le più affidabili ) il binomio che si instaura di “essere-nulla”, o ancor meglio di “Dio-Nulla”, non va a cortocircuitare il binomio “Paradiso-Inferno”, il quale se si basa su un richiamo di differenza fondamentale, di contrasto di sostanza, si gioca però tutto all’interno della sfera ontologica.
Quello del Dio-Nulla, invece, sta su un piano esterno all’ontologia; la definisce senza farne parte, e proprio perché non ne fa parte.
Insomma, un inquisitore che volesse redimere un’anima sulla via della perdizione, avrebbe molte più probabilità di guadagnarla al Paradiso se si trovasse ad inquisire un eretico piuttosto che un ateo.

Fulvio Baldoino

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