Navalny e Assange: due casi agli antipodi ma per motivi opposti a quelli addotti dal mainstream
Un po’ per formazione un po’ per carattere sono alieno dal tifo sportivo. Nei miei anni giovanili parteggiavo per Coppi contro Bartali, poi, con qualche anno di più, per l’Inter e per la squadra di casa ma lo facevo per non apparire diverso e in cuor mio non capivo per quali morivi o per quale vincolo affettivo dovessi provare una speciale simpatia per il capofila della Bianchi o per i giocatori con la maglia nerazzurra. Alla fine ho buttato giù la maschera, ho confessato il mio distacco e la mia indifferenza. Dirò di più: non solo sono stato uno spettatore freddino di contese sportive, freddino e incapace di investimento emotivo ma anche da adulto e per mestiere osservatore di eventi internazionali e studioso di storia mi sono fatto sì delle opinioni, ho maturato sì delle convinzioni personali ma sempre sul piano della razionalità, non dei sentimenti; nessuna passione insomma se non per ciò che mi tocca direttamente e a cui il caso o la nascita mi hanno legato. Insomma nella Bisanzio divisa fra verdi azzurri e rossi non avrei saputo da che parte stare e di quale fosse il cavallo più veloce non me ne sarebbe importato nulla. Il tifoso, l’uomo di parte e, più in generale, le persone che hanno bisogno di sicurezza, temono l’isolamento, cercano nel gruppo la propria identità, hanno sempre un nemico da odiare e sanno sempre dove sono il bene e la verità. Ma l’alternativa non è bianco-nero o uomo-animale ma bianco-non bianco, uomo-non uomo, dove non bianco sono tutti i colori diversi dal bianco e non uomo è qualunque cosa che non sia uomo.
Di fronte al conflitto russo-ucraino qualunque partigianeria mi sembra stupida e pericolosa, intendendo per partigianeria l’immotivata simpatia per l’una o l’altra parte e il pregiudizio manicheo per il quale da una parte sta il bene e dall’altra il male. Altra cosa è il giudizio sulla base dei fatti, che implica la conoscenza dei fatti, che non è alla portata di tutti, meno che mai di chi si rifiuta di informarsi perché convinto di saperne abbastanza o teme di essere smentito e di dover confessare a se stesso che la sua posizione è motivata dall’interesse, dal calcolo, dalla cadrega.
A sentirli, gli italiani – quelli di cui si fa sentire la voce – si sono commossi per la morte di Navalny e indignati contro il tiranno sanguinario che, ne sono arcisicuri, lo avrebbe assassinato. E di Navalny hanno fatto il simbolo della libertà di pensiero, dei valori su cui poggia la civiltà occidentale e della democrazia un tanto al chilo. Gli italiani, si sa, sono un po’ precipitosi, sono un popolo generoso che va dove lo porta il cuore e s’innamora facilmente. Ormai è stabilito che Putin è cattivo e pericoloso, tant’è che per un capriccio ha invaso un Paese mite, laborioso, e ovviamente democratico; quindi, se Navalny era un fiero oppositore di Putin vuol dire che Navalny era un fiero difensore dei diritti e un amico dell’occidente e così come si deve stare dalla parte dell’Ucraina si sta dalla parte di Navalny. Se poi c’è un bastian contrario che ricorda che Navalny e il governo ucraino non si potevano vedere si fa finta di nulla e si fa finta di nulla se lo stesso bastian contrario, carte alla mano, ricorda che Navalny esordì come oppositore di Putin da un posizione di destra ultranazionalista, impegnata al ritorno della Grande Russia ai suoi sacri confini, ostile alle minoranze e sfrenatamente islamofoba; ma contro il bastian contrario si leva dalla radio di Confindustria una vocina femminile che protesta: “ma poi ha cambiato idea, è diventato un altro, si è accorto che l’occidente è buono e generoso e ne è diventato l’alfiere!”. Il bastian contrario è preso in contropiede: non sapeva che lo stesso oppositore si può opporre da posizioni diametralmente opposte purché il bersaglio rimanga lo stesso. Giuseppe Conte ha ancora molto da imparare. Io però mi chiedo se i suoi seguaci e simpatizzanti abbiano subito anche loro la stessa metamorfosi e qual è o di chi è il tocco magico che l’ha provocata. Detto questo, silenzio e rispetto dinanzi alla morte. Silenzio che è mancato nelle sale del potere europeo e occidentale e palazzo Chigi non ha voluto rimanere indietro. La signora Meloni si è alzata sui tacchi e guardando minacciosamente verso est ha imperiosamente dichiarato che pretende verità e giustizia per Navalny mentre Tajani, che come allievo di Berlusconi lascia un po’ a desiderare, si è affrettato a convocare l’ambasciatore russo per chiedergli spiegazioni. E, con l’occasione, è partita una carica contro Salvini, che non può che ringraziare perché gli viene così restituita una parte del peso politico che ha dissipato.
Ma dove vogliono arrivare l’Europa e, con l’Europa, la Meloni e il suo governo, i centristi, i postcomunisti? sognano la morte di Putin o il suo rovesciamento, pregano per una Russia diversa e sono pronti a giustificare qualunque manovra tesa a destabilizzare dall’esterno la società russa e il suo sistema politico. La circostanza che Putin sia stato votato da una maggioranza schiacciante nel corso di elezioni prive di ombre a differenza di quanto è accaduto negli Usa con Biden è irrilevante e se nella società russa non ci sono segni di inquietudine questa, si dice, è solo rassegnazione e apatia. Osservatori un po’ strabici, se attribuiscono ai russi quel clima di apatia e di rassegnazione che pesa come una lastra di piombo sul nostro Paese. Dico sul nostro Paese perché altrove nella stessa Europa qualcosa si muove, eccome.
Che la morte improvvisa di Navalny, un uomo di quarantasette anni a quanto si sa senza gravi patologie, susciti oltre che rammarico sorpresa e perplessità lo do per scontato. Ma la sicurezza apodittica con la quale si decide che non è morto di morte naturale ma è stato assassinato e che è stato assassinato su ordine di Putin, proprio alla vigilia di uno scambio di detenuti che gli avrebbe ridato la libertà, grida vendetta prima che alla verità al buonsenso. Putin non è né la vispa Teresa né madre Teresa di Calcutta e non mi meraviglierei che dentro il suo entourage si ricorresse anche a metodi poco ortodossi. E che a Mosca come a Washington o a Londra gli apparati dello Stato possano ricorrere all’eliminazione fisica di individui scomodi approfittando di quella sorta di diplomazia parallela che agisce all’ombra delle ambasciate o della solerzia di agenzie che sfuggono a qualsiasi organo di controllo è acclarato; ma nel caso di omicidi commissionati direttamente dal potere esecutivo bisogna che ci sia un motivo politico plausibile. E quale motivo plausibile avrebbe avuto Putin per eliminare Navalny? Politicamente Navalny, checché ne dicano le comari della carta stampata e accademici addomesticati, aveva in patria un peso pari a zero, soprattutto dopo la sua giravolta atlantista. Le accuse di corruzione e malversazioni che rivolgeva a Putin e al suo partito, che erano il precipitato residuo della suo programma politico e propagandistico, non avevano avuto alcuna eco significativa nella società russa, nella quale semmai il presidente continua ad essere percepito come uno scudo contro il capitalismo selvaggio e senza scrupoli che ha preso il posto dell’apparato di potere sovietico. Né, di converso, risulta che le accuse di frode e malversazioni che la magistratura russa aveva contestato allo stesso Navalny e al fratello fossero prive di fondamento. Non solo: se Putin, scavalcando la magistratura, lo avesse graziato o, come pare stesse avvenendo, lo avesse scambiato con un agente russo nelle mani degli inglesi, ne avrebbe avuto un ottimo ritorno d’immagine; se fosse morto durante la detenzione sarebbe stata prevedibile l’esecrazione mondiale (id est dell’occidente) contro di lui. com’è puntualmente avvenuto. Di Putin si può dire tutto ma non che sia un uomo impulsivo, imprevidente o sprovveduto: è un calcolatore freddo, un ottimo giocatore di scacchi che può anche sbagliare una mossa ma non per un capriccio o per una reazione emotiva. Se mi dovessero dimostrare che il capo della Wagner non è morto per una fatalità ne prenderei atto e – al di là del giudizio morale – ne comprenderei la ratio: impedire che si creasse un precedente. Ma Navalny? Dalla sua morte Putin non aveva niente da guadagnare e forse qualcosa da perdere mentre da Navalny vivo, libero o in carcere, non aveva nulla da temere. Questo è un fatto incontrovertibile.
Con tutto ciò è legittimo che un’Europa particolarmente sensibile alle libertà individuali si mobiliti contro la repressione del dissenso e faccia di Navalny una vittima del regime russo. Certo, sorprende che per le migliaia di sconosciute vittime della repressione del dissenso in Ucraina non si avverta la necessità di mobilitarsi o che, tanto per rimanere a casa nostra, che non ci sia una sola anima bella che spenda una parola per Cospito, che non ha ucciso nessuno e non ha fatto saltare per aria nemmeno una cuccia per cani ed è segregato in galera in condizioni disumane in attesa che la morte gli restituisca la libertà…
E con questa encomiabile sensibilità com’è che si lascia passare sotto silenzio la vicenda del giornalista americano torturato e ucciso nelle carceri ucraine? Gonzalo Ángel Quintilio Lira López, giornalista dalla doppia cittadinanza, statunitense e cilena, residente in Ucraina, è morto il 12 gennaio scorso mentre era detenuto, ancora senza processo, con la generica accusa di compiere “attività filo-russe”. Sì, ma quello era una spia, borbottano le nostre comari, come se l’accusa di spionaggio non potesse essere rivolta anche a Navalny; e Cospito, aggiungono, è un terrorista (quando i terroristi veri, quelli dell’album di famiglia del Pci, fanno lezione nelle università). E che dire di Assange? un giornalista d’inchiesta che ha il torto di essere venuto in possesso di documenti del Pentagono che attestato le atrocità compiute dai militari americani in Iraq e in Afghanistan.
Per questo gli americani, incuranti di comitati, prese di posizione di personalità illustri, appelli di ogni genere, si sono intestarditi nel volerlo eliminare e lo inseguono con una condanna a 175 anni da scontare in un carcere di massima sicurezza (ma sono convinto che come l’avranno fra le mani troveranno il modo di risparmiare sul suo mantenimento anche se dovesse durare molto meno). Ora i giudici inglesi che l’hanno in custodia stanno per consegnarlo alla giustizia americana, che significa in pratica eliminarlo. Come si reagisce nei palazzi del potere? silenzio di tomba. Chiediamolo a Tajani, alla Meloni, al Calenda che ha organizzato la fiaccolata per Navalny se per organizzarne una per Assange aspettano che lo trovino impiccato a Guantanamo. Ma intanto Giuliano Ferrara e il coro delle comari del mainstream mettono le mani avanti: perché tirare in ballo Assange? I due casi, Navalny e Assange, non hanno nulla in comune, anzi sono agli antipodi; Navalny un martire della democrazia e della libertà, Assange uno che ha attentato alla sicurezza degli Usa, cioè dell’Occidente.
La spregiata e sfregiata nuda verità è che Assange ha il torto di essere un vero giornalista, impegnato a svelare quello che i governi tengono segreto. E Ferrara (purtroppo non solo lui) non si ricorda più che la funzione del giornalista è proprio quella di scoprire quello che si cerca di tenere coperto perché democrazia è anche se non soprattutto trasparenza; e se a Mosca, a Londra o a Washington si ordiscono trame che il popolo bue non deve vedere sarà compito dello storico di domani portarle alla luce ma è dovere del cronista di oggi fornirgli gli strumenti per farlo.
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