Sul concetto di nichilismo (seconda e ultima parte)
Si è detto nella prima parte di questo articolo pubblicata su “Trucioli Savonesi” la volta scorsa, che in relazione al nichilismo vi è un autore contemporaneo, Emanuele Severino, il quale si è speso in tutta la sua monumentale opera a dimostrare che la civiltà occidentale, essendo dal punto di vista filosofico figlia del pensiero greco, è, sospendendo il giudizio sui presocratici dei cui testi sono rimasti solo dei frammenti, tutta improntata al nichilismo, il quale viene inteso nel senso di quel modo di pensare per cui l’essere a un certo punto diventa non essere, ossia nulla.
Per un occidentale non è uno scandalo. Anzi, è cosa normale e naturale che gli enti, prima o poi, diventino nulla.
Per Severino, invece, è proprio questo l’inammissibile: che qualcosa o qualcuno possa avere un inizio e una fine ontologicamente intesi.
Per lui nulla nasce e nulla muore, e tutto è da sempre e per sempre.
Si potrebbe rilevare che una siffatta concezione è quella di Parmenide, e che perciò la proposta severiniana sia in realtà una riproposta, come d’altra parte farebbe intendere il titolo del suo saggio più conosciuto: “Ritornare a Parmenide”.
Allora bisogna dire che se è vero che egli invita a ritornare alla concezione dell’essere di Parmenide, lo fa apportando una fondamentale correzione.
Entrambi i filosofi assumono che “l’essere è e il non essere non è”, con l’implicazione che non può esistere il divenire sotto qualsivoglia forma (se qualcosa mutasse, questo qualcosa non sarebbe più quello che era) per cui l’essere deve essere immobile, immutabile ed eterno.
Per Parmenide i fenomeni del mondo che sembrano attestare il divenire, sono illusioni (e sarà Zenone ad incaricarsi di dimostrarlo attraverso i suoi argomenti contro la molteplicità e il moto, di cui ci limitiamo a indicare quello secondo il quale Achille Pié Veloce non potrebbe mai raggiungere la tartaruga in una ipotetica gara podistica in cui la tartaruga partisse davanti a lui, perché essendo l’argomento più famoso, è anche quello più facilmente reperibile per un eventuale approfondimento).
Per Severino invece i fenomeni, da quelli più concreti a quelli più astratti, sono reali.
In altre parole egli rifiuta la “normalità” di vedere il mondo in preda al divenire così come lo ha giustificato Platone, il quale sosteneva che sì, l’essere è ed è eterno, ma non quello del mondo fenomenico, bensì quello iperuranico delle Idee, di cui i fenomeni sono copie, talché, per riportare il solito esempio delle antologie, l’idea di cavallo non muta ed è esente dal tempo, mentre nel mondo concreto, fenomenico, i cavalli sono di tante razze, dimensioni e manto, e nascono, crescono, invecchiano e muoiono e, insomma, cambiano. Per cui non se ne può trovare uno identico ad un altro, anche perché non potrebbero occupare lo stesso spazio (come avrà poi a precisare meglio Leibnitz).
In questo modo Platone ritiene di aver “salvato il mondo”, nel senso di aver dato conto del divenire che i fenomeni testimoniano ai nostri sensi.
Ebbene, la critica che gli muove Severino sta proprio in questo, ovvero nel fatto che per lui anche i fenomeni sono eterni, né più né meno di come sono eterne le Idee.
Ovvio come la prima cosa che viene da obiettare sia che i sensi, appunto, smentiscono una tale affermazione.
E’ evidente a tutti che se si avvicina la fiamma alla carta, la carta inizia a bruciare e si trasforma in cenere, e quindi non è più carta.
Come può allora Severino contrastare una simile ovvietà? Come può ritornare a Parmenide andando addirittura oltre Parmenide? Come può radicalizzarlo dicendo che non solo l’essere metafisico ma anche quello fisico è sempre e per sempre, e la carta resta carta senza diventare altro da sé nella cenere, anche dopo che l’abbiamo vista bruciare?
Ecco, può dirlo perché secondo lui le cose non nascono e non muoiono, ma semplicemente appaiono e scompaiono. E, affinché la sua non sia presa come una presunzione soggettiva, imposta tutto un discorso che a suo vedere incontrovertibilmente lo dimostrerebbe.
A noi qui basti esemplificare brevemente come Severino intende questo apparire e scomparire su cui pesa l’onere di sostituire il nascere e il morire degli enti.
Per farlo, immaginiamo il nostro pianeta nel suo movimento di rotazione. Ebbene, dal punto di vista ontologico noi siamo intellettualmente infantili come lo si era dal punto di vista astronomico prima di Copernico.
E’ come se continuassimo a credere che una zona geografica della terra, poniamo l’Europa, che vedessimo proiettata sullo schermo del televisore, a un certo punto della rotazione terrestre finisse nel nulla solo perché scompare al comparire dell’Australia che sta dalla parte opposta del pianeta, mentre è sempre essente e presente; o ancora come se finisse nel nulla un’immagine di un film nel momento in cui la scena cambia, mentre il fotogramma dell’immagine resta nella bobina ed è sempre essente e presente, non diversamente da quella che l’ha seguito, sicché volendo si potrebbe perfino vedere il film al contrario, nel qual caso si vedrebbe prima quello che in precedenza si era visto dopo.E’ chiaro che la questione, posta in questi termini (ci rendiamo conto, del tutto insufficienti per delineare adeguatamente l’ontologia severiniana, ma sufficienti forse per indirizzare ad un approfondimento) ha per conseguenza che il nichilismo non venga inteso soltanto come un modo (declinato politicamente, socialmente, esistenzialmente…) di esistere sotto il preponderante condizionamento dato dall’idea del non essere, e perciò individuabile in determinati momenti storici e in determinate espressioni culturali, ma coinvolga l’intero Occidente, perché è l’intero Occidente che da Platone ai giorni nostri ha continuato a credere che l’essere delle cose del mondo possa tradire se stesso e consegnarsi al nulla.