Su Mosè come persona e Mosè come eponimia (quarta parte)

Con la morte, con la fatica quotidiana del lavoro e con la sofferenza del parto, l’essere umano sconta il suo peccato di superbia.Egli non si rende chiaramente conto da cosa dipenda tale peccato; evidentemente però lo “sente” se prova vergogna per il suo corpo nudo e per tutto ciò che concerne il sesso.
Ma, in generale, dove c’è più vergogna per il sesso? Presso quei popoli in cui, spesso per l’influsso dovuto alla lettura e alla predicazione dei libri sacri, esso è visto esclusivamente come mezzo riproduttivo.
Presso i popoli in cui invece la sessualità non crea un eguale scandalo, si ha una concezione del sesso che non è esclusivamente riproduttiva.
Per stornare la latente consapevolezza da questa realtà viene attuata (i vari Mosè attuano) un’operazione psicologica di “spostamento”, consistente nell’attribuire la colpa al mezzo, il sesso, e non al fine che attraverso il sesso viene perseguito: la procreazione. Ovvero, in prospettiva particolarissima dettata da un desiderio che è quasi un istinto, l’indiamento.

A livello sociale si assiste ad una collaudata tecnica psicologica: colpevolizzare gli innocenti (nello specifico coloro che vivono il sesso fine a se stesso) per decolpevolizzare i colpevoli (nello specifico coloro che vivono il sesso finalizzato alla riproduzione, cioè come indiamento).

A questo punto si evidenzia come Dio abbia bisogno del Diavolo. Come l’indiamento sia in realtà anche un indiavolamento.
Il peccato della procreazione risulta indispensabile alla sostituzione progressiva del fantasma di Dio (cioè del Dio pensato trascendente e presente) con Dio stesso.
La procreazione è atto peccaminoso nei confronti del fantasma di Dio, e santo nei confronti del Dio che sarà.

Che nella società puritana del potente impero inglese del secondo Ottocento, uno dei più vasti che la storia ricordi, le contraddizioni sessuali fossero insanabili, non ci deve stupire. Società di questo tipo sono società i cui membri sentono più vicino l’avvento del regno di Dio (constatano che la costruzione della Torre di Babele procede positivamente), e quindi vogliono continuare nella storia fino alla fine della storia.
Sono società le quali credono che la storia o finirà con loro o non finirà. Sono perciò le società che hanno più bisogno di nascondere a se stesse le proprie intenzioni, il loro sacrilego peccato; e allora più di altre deviano la colpa e la vergogna sul sesso non generativo.

Regina Vittoria del Regno Unito

“Moltiplicherò i tuoi travagli e le doglie delle tue gravidanze” (Genesi 3, 16): uno stratagemma geniale che Mosè ha escogitato per avere la certezza che il suo popolo si sarebbe moltiplicato e che, facendolo, mai avrebbe sospettato di essere strumento di un progetto anziché oggetto di una maledizione. Stava solamente ubbidendo!…
Rivisitate le cose in questa ottica, il frutto colto da Eva dall’albero della conoscenza del bene e del male, rappresenta la tentazione (che comunque mira anche ad altro, come si vedrà) alla quale ella cede, di avere un figlio. Adamo cede a sua volta, tentato da Eva. Attraverso i figli, Adamo ed Eva proseguono nella loro scellerata, disperata e comica, e perciò grottesca, scalata a Dio.

Nel VII e VI secolo a.C. quando presumibilmente venne scritta la maggior parte del Pentateuco, salvo poi antedatarlo al XIII secolo a.C. per poterlo attribuire a Mosè, eroe eponimo e in gran parte leggendario ma utile ad offrire una figura concreta e coagulante per le diverse tribù che costituirono Israele e avevano bisogno di un eroe fondatore cui fare riferimento, erano vari i motivi per cui soprattutto alla donna si attribuiva il desiderio della procreazione.
Ci limitiamo, per evitare lo sconfinamento in analisi sociologiche, ad indicarne uno: il riscatto sociale possibile solo attraverso la maternità. Per contro l’uomo aveva anche altri modi oltre la paternità (che tuttavia resta importante) per realizzarsi: il potere politico, il potere economico, l’arte della guerra, ecc.
E’ Eva dunque che tenta Adamo; e non fa fatica a convincerlo. Perciò la proposta del serpente di procedere nel processo conoscitivo-manipolatorio del mondo con i loro figli, Adamo ed Eva la accettano di buon grado. Caino ed Abele allora vengono a rappresentare il frutto (proibito) della tentazione.

In altre parole il Diavolo, la tentazione strisciante, invita l’uomo e la donna a usare il sesso volutamente a fini procreativi. Prima, il primo uomo e la prima donna dell’allegoria della Genesi, hanno rappresentato l’umanità ancora completamente estranea all’idea di potersi indiare, che simbolicamente ha il suo topos nel Paradiso Terrestre dove l’Uomo non pensa a cambiare la propria condizione.
Quando Adamo ed Eva cominciano ad essere ammaliati dall’idea dell’indiamento, e perciò inziano ad affidarsi alla procreazione per attuarlo, l’Eden finisce ed inizia la loro pena, la loro lotta contro la morte.

Proprio quando la sessualità non è più vissuta come sessualità in sé e per sé, ma, finalizzata alla procreazione, si configura come peccato, tentativo di insidiare Dio, superbia, si rende necessario nascondere tutto ciò, e per riuscirci Mosè procede ad un rovesciamento, e maternità e paternità vengono benedette!

Il protopeccato (vogliamo ancora una volta ricordarlo: protopeccato perché nella Bibbia di peccato originale non si parla mai) è l’ostacolo che nella edificazione di Dio, l’Uomo oppone a questa sua stessa edificazione, perché comincia a comprendere (anziché restarne ignaro) di esserne il soggetto e l’oggetto.
Concetto farneticante quant’altri mai, questo; ma legittimo in quanto si pone sullo stesso piano di credibilità di quell’altro concetto, accettato per secoli con naturalezza e candore, di un Uomo che occupando esattamente il centro di un universo di miliardi di stelle ricomprese all’interno di miliardi di galassie, a loro volta miliardi di miliardi di volte più estese del nostro sistema solare di cui la terra è un’infinitesima parte, lo dominerebbe.

Via Lattea

Questo del protopeccato sarebbe un pensiero pericolosamente chiaro se Mosè non intervenisse appositamente a renderlo problematico.
D’altra parte quest’ultimo sa che l’Uomo se scoprisse di costruire Dio, scoprirebbe simultaneamente anche che non esiste il Dio trascendente e presente.
Si incarica dunque di impedire questa scoperta. Farla significherebbe la totale resa di fronte all’impresa ardua oltre ogni immaginazione, di fronte al “folle volo” dell’Ulisse dantesco, di diventare Dio; per cui l’Uomo potrebbe rinunciarvi,vanificando così il senso di una delle possibili definizioni (le altre due permesse dall’interpretazione e traduzione dall’ebraico sono “Io sono colui che é” e “Io sono colui che sono”) che Dio si dà nella rivelazione che Mosè sostiene (e poiché abbiamo per convenzione, non per convinzione, deciso di considerare il Pentateuco così com’è, fingiamo di dargli credito) di aver ascoltato da Dio stesso: “Io sono colui che sarò”.

Mosè davanti al roveto ardente

Bisogna adesso aggiungere qualche cenno alla questione precedentemente affrontata solo di scorcio, inerente alla parte della natura relativa agli enti non umani.
Ebbene, esclusi i minerali, che non ne hanno la possibilità, i vegetali e gli animali si riproducono. Al che la questione che ovviamente si impone sebbene appaia forse caricaturale e bizzarra, è se anch’essi tentino di costruire Dio.
Domanda retorica che presuporrebbe la negazione più drastica se non si considerasse l’eventualità di un automatismo di tipo schopenhaueriano. Gli immensi sforzi che essi compiono pur di proliferare e proteggere ciò che generano, sono finalizzati a questo. Non si sa da cosa nasca tale automatismo; possiamo però constatare che esso si depotenzia passando dai vegetali agli animali (certi animali in cattività, in particolare, spesso non si lasciano governare dall’automatismo alla riproduzione e, forse guidati da un automatismo opposto, non prolificano, sicché si avviano all’estinzione della loro stessa specie).
Ancor di più si depotenzia passando dagli animali non umani agli Uomini, che possono decidere, e a volte in effetti decidono, di non generare, perché sono in grado di superare l’automatismo dell’istinto con la cultura.

Arthur Schopenhauer

L’idea è che la natura si comporti come un’enorme massa d’acqua che cerca uno sbocco per arrivare al mare dell’autocoscienza. Da cinque miliardi e mezzo di anni a questa parte (consideriamo soltanto la terra non per un peccato di geocentrismo, ma perché non abbiamo i dati per sapere se esiste la vita in altri luoghi dell’Universo) questa massa d’acqua dinnanzi agli ostacoli delle montagne, si è divisa in tanti fiumi quante sono le valli, e poi per ogni altro spartiacque trovato percorrendo ciascuna valle, in altri bracci, come per affluenti che scorressero a ritroso.
La corsa di alcuni di essi non ha avuto esito, per cui la loro storia è stata un seguito di divisioni successive nella spasmodica ricerca della prima onda, finché sono restati solo rigagnoli assorbiti dal suolo o pozze d’acqua stagnante.
La corsa degli altri (di tutto ciò che ancora esiste perché la selezione naturale finora lo ha considerato adatto) è un processo che non si sa se e chi porterà alla completa autocoscienza.
Ad ora il vantaggio è dell’Uomo, che infatti ha barlumi, appunto, di autocoscienza.

Considerato ciò, è quantomeno probabile che se l’autocoscienza ha da essere, la si raggiungerà con una conquista guidata proprio dall’Uomo. Quando (e se) da autocoscienza relativa diverrà autocoscienza assoluta, cioè Autocoscienza, possiamo pensare che sarà sinonimo sostanziale di Dio.
Tuttavia, già l’autocoscienza (molto) relativa di cui attualmente l’Uomo dispone, gli consente di essere l’unico animale consapevole che è attraverso il rapporto sessuale con l’altro sesso che si può dare la vita. Anche altri animali hanno rapporti sessuali, ma non sanno che potrebbero portare alla generazione di prole.

Stando così le cose, l’Uomo, in quanto animale più avanti nella scala evolutiva, dovrebbe essere responsabile della sua scelta di procreare. Può darsi (tralasciamo di considerare l’eventualità di qualche catastrofe naturale o artificiale) che tra qualche centinaia di migliaia o tra qualche milione di anni, vi saranno altre specie animali che raggiungeranno l’autocoscienza, e allora anch’esse saranno responsabili della scelta di riprodursi o meno. Fino ad ora non hanno potuto disporre di una tale responsabilità, ma hanno seguito l’istinto. L’importanza del quale, in generale, certo qui non si vuole negare.
Ma non tutto ciò che dipende dall’istinto può essere approvato dall’Uomo, altrimenti l’Uomo perché sarebbe Uomo? Vi può essere infatti, e noi crediamo che vi sia, per l’Uomo una particolare situazione per la quale natura istintuale e cultura si scontrano-incontrano, senza che la prima sia la negazione della seconda. Come risultato della loro dialettica, si ha che l’Uomo è un animale culturale.Se in lui dovesse prevalere sempre la natura non sarebbe più Uomo, così come se dovesse prevalere sempre la cultura non sarebbe più animale.

Charles Darwin

Non dimentichiamo che se il leone nel vagare alla ricerca di una femmina ne trova incustoditi i piccoli nella tana, istintivamente li uccide, affinché la leonessa al ritorno dalla ricerca del cibo si occupi di lui (e dei suoi futuri cuccioli) e non di loro.
E’ un istinto di sopravvivenza (del proprio codice genetico) che in noi uomini non giustifica l’assassinio.
Infatti Onan non commette nessun assassinio. Sa che per la legge del levirato è tenuto a sposare la vedova del fratello morto con il quale divideva la casa. Onan continua a tenerla in casa, ma nei rapporti sessuali con lei pratica il coitus interruptus. Infatti sa anche che se Tamar concepisse, il figlio sarebbe considerato per legge figlio di suo fratello.
Poiché Onan vuole che il figlio sia suo a tutti gli effetti, evita che Tamar resti incinta e crei prole, e per questo verrà punito da Dio con la morte.
Il desiderio di un figlio, dunque, come istinto; ma come istinto egoistico.
Onan, come il leone, vuole portare avanti il suo proprio DNA e vuole che questo sia un fatto riconosciuto socialmente; egli vuole la sua propria immortalità.
Una immortalità che tuttavia la società non gli riconosce, perché se egli avesse un figlio, quest’ultimo dalla società verrebbe considerato figlio di suo fratello.

La cultura ha l’onere di far fronte all’egoismo, di palesare che la tendenza a soddisfare ciascuno la propria convenienza, non è incoercibile. La facoltà (ma si potrebbe forse dire l’istinto, se non apparisse come una contraddizione nei termini) dell’Uomo a pensare anche secondo ragione (cioè a fare cultura), lo mette in condizione di comportarsi in maniera differente dagli altri animali.
Solo l’Uomo è potenzialmente in grado di sapere (di mettere a nudo il farneticare della sua logica inconscia) che riprodursi significa voler diventare Dio. Basterebbe che semplicemente si chiedesse qual è il motivo di generare un figlio che morirà.
L’attentato a Dio è stato portato nel momento in cui l’Uomo, avendo scoperto la morte e avendo raggiunta la conoscenza di come l’atto sessuale possa essere funzionale alla riproduzione, ha scelto di non fermare la sua corsa nella storia.
E tutte le femmine e tutti i maschi umani ad agni rapporto sessuale che voglia essere fecondo, reiterando questa scelta si reincarnano in Adamo ed Eva.

Il protopeccato, dunque, non ha avuto mai termine, ma si è ripetuto sempre fino a noi, che nella vergogna davanti a Dio, per paura e non per pentimento (infatti in Genesi 3, 10, vediamo che Adamo alla domanda del Signore Iddio che gli chiede dov’è, risponde: “Ho inteso la tua voce nel giardino, ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto”), se scegliamo di riprodurci, scegliamo di dare la scalata a Dio. Altrimenti bisognerebbe ammettere che ci accontentiamo solamente di un progresso parziale, mentre se l’Uomo vuole continuare ad esistere, intenzionalmente e tendenzialmente lo vuole per esistere sempre, per essere eterno, per essere perfetto. Per essere Dio. E proprio questo ci spinge a fare Mosè col suo input prettamente politico, nel Pentateuco e in particolare nella Genesi.

Chiediamoci chi rappresenta il desiderio dell’Uomo di essere Dio.
Possiamo rispondere subito: il Diavolo. Ovvero l’Uomo agli albori della scienza e agli albori dell’idea di sopravvivere alla sua morte dando vita a una parte di sé che andrà oltre sé.
Il Diavolo è l’anticipazione allegorica del concetto con cui il compiersi di Dio giudicherebbe il suo lontano ed avvilente inizio. Il Diavolo è l’inizio di Dio. Il più completo disprezzo di ciò che egli (Dio) è stato lo porterebbe (ma trattandosi di un’anticipazione, lo porta) al rifiuto e alla contrapposizione totale per quella parte di sé che lo ha preceduto e preparato. Ma se il giudizio sorgesse da un Dio ancora incompleto, debole, da un’umanità non ancora padrona pienemente della sua onnipotenza, allora sarebbe un giudizio che metterebbe in crisi il processo teogonico, scoprendolo come lotta intestina del divenire con l’eterno.
E un compito di tale incommensurabile difficoltà e fatica, fiaccherebbe le gambe finanche al campione del massimo egoismo, e porrebbe fine ad ogni velleità.

La teogonia rinuncerebbe ad ogni agòne per ridursi ad agonia. L’umanità si estinguerebbe, facendo da battistrada a tutte le altre specie che a mano a mano giungessero dopo di lei al livello dell’autocoscienza, al livello in cui non si nasconde più a se stessi che la lotta dell’individuo e della società o è insensata o blasfema. Dopodiché desistere sarebbe la logica conseguenza.

Il Diavolo in generale, è il divenire che si contrappone all’assoluto, ma di cui l’assoluto ha bisogno per divenire (appunto) assoluto.
Dio non deve essere pensato (ma potremmo dire anche pensarsi, poiché l’umanità che lo pensa è il Dio che diviene) come destinato ad essere un parvenu.
Di questo si preoccupa inizialmente Mosè, valutando la situazione sotto il profilo eminentemente politico e riferendola al solo popolo ebraico (il suo target), senza probabilmente ancora accorgersi delle sue implicazioni e dei suoi enormi e straordinari sviluppi religiosi e morali, che geograficamente andranno ben oltre le rive del Giordano e del Mediterraneo.

La preoccupazione di Mosè di nascondere l’identica radice di Dio e del Diavolo, lo porta a creare un’immagine di quest’ultimo che ne segnala l’assoluta alterità. Ad attribuirgli la forma più abietta: quella di un animale che striscia nella polvere. La forma più lontana dall’idea di un essere superiore, il quale, in quanto superiore, domina dall’alto gli uomini e le cose.

Il Dio di Mosè agli occhi del popolo deve essere da sempre e per sempre perfetto, assolutamente opposto al serpente che subisce la terra.
Il popolo non deve sospettare che l’umanità nel suo farsi è il Dio, necessariamente futuro.
Dunque il Diavolo è rifiutato perché è ciò che rischia di svelare all’umanità che il Dio che essa diverrà (che spera inconsciamente e follemente di diventare) con la procreazione e la scienza, ha dovuto subire il tempo.

E’ possibile ritenere che il mondo debba senz’altro andare avanti, senza ammettere che nascostamente vuole diventare Dio?
E’ possibile ritenere che l’uomo della strada al quale si rivelasse come anche lui che da questo pensiero giura di non essere mai stato lontanamente sfiorato e ne ride, o che al solo sentirselo imputare si straccia scandalizzato le vesti perché lo trova blasfemo, non trovando motivo di pensare che il numero delle generazioni debba avere una fine né che la abbia il progredire della conoscenza e della scienza-tecnica, sia invece anch’egli, come tutti, attore di questa arrogante scalata dell’umano verso il sovrumano?
A volte il tentativo, senza forza dialettica alcuna, di evitare una simile ammissione, viene attuato chiamando in causa la necessità che l’Uomo si riproduca affinché la vecchia generazione lasci la sua eredità culturale e scientifica faticosamente accumulata, alla nuova; e quest’ultima faccia altrettanto con quella che seguirà. Affinché, di generazione in generazione, si incrementino le conoscenze e le potenzialità, e si migliori lo status del mondo.
Procreare sarebbe dunque impedire che migliaia di anni di storia vengano vanificati.

Ma andare avanti per arrivare dove?
Nella locuzione “progresso della scienza”, possiamo davvero non intravedere un eufemismo che nella sostanza significa “vivere sempre”?
Se i fautori del progresso avessero la certezza che pur migliorando non si potrà tuttavia arrivare mai a vincere la morte, avrebbero lo stesso afflato di contribure con i loro figli a far sì che la storia continui?
Continua

FULVIO BALDOINO

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