Se la storia è una cattiva fotocopiatrice

e si ripetono aggravati gli stessi errori

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A distanza di  oltre un secolo credo che si possa tranquillamente riconoscere che la Grande Guerra fu per l’Italia una follia sotto ogni punto di vista e causa di un’inutile strage, come ebbe a scrivere Benedetto XVI. Una follia senza senso e giustificazione alcuna, tantomeno quella del patriottismo irredentista perché l’Austria prima o poi si sarebbe ritirata da Trieste  e sarebbe stata il nostro migliore sostegno contro le rivendicazioni slave. Seicentomila giovani italiani  furono mandati al macello per nulla: nessuno ci aveva minacciati e  se vi erano stati ostacoli per affermare la presenza politica ed economica dell’Italia nel mediterraneo erano venuti  proprio dai Paesi a fianco dei quali ci saremmo imbarcati, la Francia e l’Inghilterra; avremmo potuto gestire con accortezza la nostra neutralità e riprenderci senza colpo ferire l’altra sponda dell’Adriatico e, con una Francia ridotta allo stremo, la Corsica, che di francese non aveva nulla. Insomma se l’Italia, uscita vittoriosa pochi anni prima  dal conflitto con l’impero ottomano, fosse rimasta alla finestra mentre le potenze dell’Intesa e gli imperi centrali si distruggevano a vicenda si sarebbe affermata come potenza egemone in Europa e nel mondo.

Abbiamo pagato le velleità belliciste del re, i deliri degli intellettuali (la guerra igiene del mondo, la razza italica si deve rigenerare col sangue, il compimento del risorgimento…), le contraddizioni dei partiti popolari e sicuramente anche la corruzione di molti politici. Agli smemorati ricordo che lo stesso Mussolini era contrario alla guerra anche se ostile ad un neutralismo passivo e ideologico e dalle colonne dell’Avanti sosteneva la necessità di una politica estera attiva dell’Italia e insieme una profonda riforma della società italiana; poi finì  per preferire alla staticità di governi e movimenti politici, in primis proprio dei socialisti, lo scossone di un’avventura militare. Un calcolo sbagliato  e un colpo durissimo per il Paese che, nonostante la retorica, da quell’avventura uscì lacerato.  Negli anni successivi  per una serie di congiunture favorevoli  e, piaccia o no, grazie allo stesso Mussolini, Italia seppe riprendersi e negli anni Trenta imporre il suo primato in  ambito scientifico artistico letterario  riducendo  nel contempo con crescente rapidità il gap con le grandi economie mondiali fino a minacciare consolidati equilibri di potere. Le sanzioni del 1936 volute da Francia e Inghilterra non fecero altro che confermare la solidità del Paese, che si dimostrò l’unica diga in grado di bloccare il revanscismo tedesco. Ma ahimè qualche volta la storia si ripete e venticinque anni dopo lo sciagurato intervento in una guerra che non ci riguardava lo stesso errore venne ripetuto, aggravato dall’improvvisazione, dalla rivalità fra la monarchia e il regime, dall’esaurimento delle risorse nelle due guerre di Etiopia e di Spagna.

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Un osservatore spassionato fatica a capire come si sia potuto giocare con la vita delle persone con tanta stupida leggerezza. Non è il mio stucchevole pacifismo: so bene che la guerra non è solo parte integrante della storia dei popoli ma è inscritta nel dna dei singoli  ed è un formidabile collante delle comunità  ma a patto che corrisponda all’interesse o addirittura alla sopravvivenza dei popoli non a calcoli  e interessi  privati. Ma l’avvento delle cosiddette democrazie – fra le quali includo anche i regimi autoritari che poggiano su un consenso popolare –  ha significato il potere nelle mani di élite  che pretendono di rappresentare le nazioni ma agiscono solo per il loro tornaconto e,  nell’ambito di dinamiche estranee alla società civile, hanno trasformato le guerre in un tragico gioco.
La domanda è semplice e apparentemente banale: perché gli italiani avrebbero dovuto odiare o difendersi dai francesi piuttosto che dai tedeschi o dai russi? quale minaccia veniva per loro dalla Francia, dall’Inghilterra o dalla Germania o da quale altro Paese? Al massimo si poteva parlare di concorrenza commerciale e industriale o di rivalità  coloniali  che di per sé non avrebbero portato ad un conflitto diretto anche perché disposte nel contesto di relazioni complesse e mutevoli. La pressione della grande industria, le ambizioni e i calcoli sbagliati di singoli personaggi, l’inspiegabile voltafaccia del Duce, la presenza di gruppi di nazionalisti guerrafondai minoritari ma rumorosi e influenti portarono di nuovo l’Italia a partecipare a un conflitto che non la riguardava e dal quale non aveva niente da guadagnare. Poi, dopo il disastro, a mettere a bada gli incauti e spesso sprovveduti timonieri frutto della partitocrazia ci pensò l’infamia di Hiroshima e Nagasaki:  la nuova micidiale arma per la sua stessa capacità distruttiva doveva impedire un conflitto fra chi ne era in possesso e ci si illuse che soprattutto in occidente avesse fatto maturare una consapevolezza collettiva capace di condizionare i governanti. E in effetti anche l’imperialismo americano, frutto avvelenato del secondo conflitto mondiale,  per decenni si è dovuto limitare a guerre periferiche o per procura. Quando queste hanno finito per lambire l’Europa e nel contempo si è venuta definendo la possibilità di un nuovo ordine mondiale, al Pentagono, ai vertici della Nato, e alla Casa bianca hanno perso letteralmente la testa, grazie anche al vuoto politico dell’Ue.  “Se cade l’Ucraina credo che la Nato dovrà combattere con la Russia” non è una frase pescata nel calderone della rete ma una dichiarazione rivolta al Congresso americano da Lloyd Austin, il segretario della difesa Usa.  Di fronte ad una affermazione di tale sconsiderata gravità, che il caudillo Zelensky si è affrettato a considerare un impegno inderogabile soprattutto per l’Italia, memori dei picchetti alle basi americane, del blocco dei porti per impedire il traffico di armi, dei cortei  e delle mobilitazioni sindacali, ci si poteva  aspettare un’immediata rabbiosa reazione del’opinione pubblica, un tripudio di bandiere arcobaleno, piazze stracolme, un’ondata di scioperi generali, infuocati dibattiti in parlamento, una ferma presa di distanza da Washington se non della Meloni quanto meno dei ministri della Lega e, ovviamente, delle opposizioni.

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Niente di tutto questo: i ragazzi sobillati dai loro docenti manifestano per la Palestina, gli antagonisti e la canaglia dei centri sociali danno addosso ai poliziotti e invadono le strade con addosso la kefiah al posto del cappuccio per marcare la vicinanza con i martiri di Hamas mentre la stampa e i telegiornali ci bombardano ossessivamente con le notizie dalla striscia di Gaza, tanto per incitare all’odio contro Israele e gli ebrei. Non è mia intenzione contestare il diritto ad esprimere la propria vicinanza a popolazioni  colpite da tragedie collettive anche se non ci toccano direttamente. Ma a chi guarda lontano si chiede innanzitutto di vedere quello che succede intorno a lui, altrimenti è legittimo sospettare che voglia solo distogliere l’attenzione. E in una scala di importanza tarata sull’interesse nostro e sul futuro dei nostri figli viene prima il rischio a cui ci espongono la Meloni, Tajani, Crosetto, ciechi davanti a ciò che gli americani più illuminati hanno ben chiaro: la patologia bellicista se non della loro società sicuramente dei loro governi; ciechi o folli perché non si preoccupano nemmeno di garantire al nostro Paese una posizione un po’ più cauta o almeno meno esposta alle inevitabili ritorsioni di Mosca. I deliri di Stoltenberg, di Austin e delle badanti di Biden rimbalzano da noi senza filtri, diventano i nostri deliri, i deliri del nostro governo; e il nostro popolo come e più di ogni altro popolo europeo si trova esposto ad una catastrofe che metterebbe a repentaglio l’intera compagine sociale. Sgomenta l’apatia collettiva, il fatalismo incosciente dell’uomo della strada ma più di tutto il silenzio non solo dei pacifisti ma anche dei difensori dell’ambiente, da quelli che guardano in alto ai cambiamenti climatici a quelli più terra terra  che combattono lo smog, la cementificazione, il rischio di estinzione  della lucciola. Non c’è un fattore di inquinamento e di devastazione dell’ambiente peggiore della guerra; in Vietnam gli americani hanno sistematicamente distrutto le foreste per stanare i Viet Cong, dopo ottanta anni nell’atollo di Bikini non ci cresce più erba: e se questi sono casi eccezionali  la norma sono l’uranio impoverito delle munizioni, i campi devastati dal passaggio dei mezzi corrazzati e dalle artiglierie, lo scempio sistematico della flora e della fauna.

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Detto questo so bene che prendersela col popolo che non si ribella non ha molto senso. La massima manzoniana “Il coraggio uno non se lo può dare”  vale anche per le collettività non solo per i singoli individui. La responsabilità è tutta di quelli che lo rappresentano il popolo, al governo come all’opposizione, né viene sminuita dalle chiamate di correo o da presunti vincoli internazionali. Quando la Meloni o Tajani o Crosetto,  ma potrei aggiungere con nome e cognome tutti i parlamentari  che non hanno esplicitamente preso una posizione diversa (non ce n’è stato nemmeno uno), rifiutano l’idea che l’Ucraina possa perdere la guerra – ed è assolutamente certo che l’ha già persa nel momento stesso in cui è iniziata –  è come se dicessero che all’atto della capitolazione  l’Italia, insieme agli altri Paesi dell’alleanza atlantica, entrerà formalmente in guerra contro la Russia. In questo modo Meloni, Tajani , Crosetto, Salvini, la Schlein, lo stesso Conte e i loro seicento complici accettano la possibilità di un’ecatombe nucleare a meno che non ripongano una totale (e ingiustificata) fiducia nel buonsenso di Putin. Se è così questa è un’ulteriore prova non solo della loro ipocrisia ma della loro scarsa capacità di giudizio perché non è detto che Putin possa resistere alle pressioni dei militari, del suo governo, del suo partito e della stessa opinione pubblica russa; e non dico che disastro sarebbe se al suo posto ci dovesse essere un altro meno dotato di autocontrollo. A meno che non credano davvero che nella federazione russa ci sia una significativa presenza di seguaci della vedova di Navalny capace di piazzare al Cremlino un suddito dell’occidente. In questo caso invece di chiedere un test attitudinale per entrare in magistratura sarebbe più urgente filtrare con un test di intelligenza gli aspiranti politici; ma intanto dobbiamo fare i conti con l’idiozia di quelli che abbiamo.

E i media, complici e strumenti della politica, sono impegnati con i distrattori: alle vittime civili di Gaza ora si aggiunge il dossieraggio.

post scriptum

L’inevitabile ricorso al nucleare in un conflitto mondiale ne rende l’ipotesi demenziale. Ma anche prescindendo dal rischio – che peraltro sarebbe una certezza – dell’ecatombe atomica si ripropone il quesito: quale interesse ha l’Italia a scontrarsi con la Russia?

Pierfranco Lisorini

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One thought on “Se la storia è una cattiva fotocopiatrice”

  1. Non posso che convergere su queste mirabili pagine; e insieme mi chiedo come sia possibile che, almeno in apparenza, siamo così in pochi in Italia a pensala come il prof. Lisorini. Eppure, non serpeggia tra noi lo spirito avveniristico e implicitamente bellicistico del futurismo anni ’30; semmai un rincoglionimento collettivo dei giovani, succubi di una politica delle merci e del consumo fine a se stesso. Giovani che seguono l’onda dei sempiterni centri sociali, urlando per le strade slogan ormai logorati dal troppo uso, anziché una ferma posizione contro le genuflessioni di governo e opposizioni ai diktat dei soliti anglo-americani. Orde di tori ciechi, in procinto di immolarsi come buoi

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