Quella coppia strana ma non troppo. Una strada che prima o poi dovrà essere imboccata

Appeso come un quarto di bue al distributore di benzina di piazzale Loreto in quel vergognoso 28 aprile di settantotto anni fa c’era anche lui, Nicolò Bombacci, fondatore del PCd’Italia, comunista forse più comunista di Gramsci e sicuramente di Togliatti. C’era anche lui accanto al Duce ammazzato qualche ora prima a Giulino di Mezzegra,  lui che l’aveva seguito nel tragico epilogo della Repubblica sociale. Memore di questo, ma anche dei cento volti del fascismo e dell’antifascismo (quello vero, non la fetida retorica che se ne è impadronito dal dopoguerra ad oggi) figuriamoci se mi scandalizza il patto politico stretto – salvo ripensamenti – fra Rizzo e Alemanno.

Gianni Alemanno, Marco Rizzo

Uso malvolentieri le categorie destra e sinistra, le giudico anacronistiche e fuorvianti ma se proprio vi devo per comodità ricorrere, qualunque cosa si intende per destra non ha assolutamente nulla a che fare con questa maggioranza e questo governo, e qualunque cosa si intenda per sinistra urta con la personalità e le idee professate dalla Schlein o da Fratoianni. Sono specchio, l’una e l’altra, della malattia mortale della politica, che non è più la voce degli interessi e delle aspirazioni che si levano dal Paese ma una greppia alla quale aspirano a foraggiarsi bande rivali di lobbisti e rubagalline. Se Rizzo, che si rifà nel linguaggio e nella lettura della realtà alla tradizione marxiana e leninista, e Alemanno, missino di scuola rautiana, ostile all’atlantismo e allo strapotere della finanza riescono a tradurre in un progetto politico organico credibile e realizzabile la loro avversione al regime che ci sta soffocando c’è solo da rallegrarsi. Il problema è che finora a superare gli steccati di parte non c’è riuscito nessuno  e non mi pare che la loro statura culturale e politica prometta di riuscire dove altri hanno fallito.

Ovviamente se dovessi sbagliare sarei il primo a rallegrarmene. Sta il fatto che Rizzo dà il meglio di sé in un contesto conversevole, in una chiacchierata al bar o al più in un salotto televisivo. A mano a mano che l’uditorio si allarga nelle due direzioni materiale – la piazza – e virtuale – la pagina – la proposta politica  invece di diventare più convinta, più precisa e più coerente si inceppa, si sfuma o degrada nei luoghi comuni. Di Alemanno, che pure è giornalista, non ho letto una sola frase, conosco solo la non felicissima prestazione a capo del comune di Roma. Nessuno dei due è un trascinatore o ha il carisma del leader.

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E non è detto che possano giovarsi della pochezza – ma direi nullità – di quanti in questo infelice ventunesimo secolo si sono aggirati  nei dintorni dei palazzi del potere; semmai accade il contrario: per contrapporsi con successo ai mediocri è necessario stagliarsi nettamente sul fondo grigio della mediocrità, non bastano per distinguersene   le doti richieste in tempi “normali”, ci vuole qualcosa di più. Detto questo aspetto la prova delle elezioni europei, pronto a rimangiarmi tutto quello che ho scritto. In ogni caso Rizzo e Alemanno appartengono al contingente, ad una cronaca che può diventare storia o perdersi nello scorrere del tempo.
La storia, che comporta il riallinearsi con le grandi esperienze del passato, è anche avvicendamento di soggetti politici collettivi e di temperie culturali; in tempi relativamente recenti sono passate prima le borghesie colte imbevute di cultura romantica  protagoniste dei moti risorgimentali e della nascita dello stato unitario, poi le élite della nuova Italia carducciana sospesa fra monarchia e repubblica seguite infine  dal giovanilismo irruento futurista e dannunziano delle classi sociali emergenti nel primo Novecento. A ciascuno di questi passaggi corrispose l’ampliamento  della platea dell’istruzione e della coscienza storica nonché della base elettorale, la formazione di nuovi gruppi sociali e un progressivo affrancamento da vincoli e pregiudizi legati alla Chiesa e al potere dell’economia agraria e protoindustriale. Oggi, in apparenza, ci sono tutte le condizioni  per riannodare il filo con quel passato e riprendere il cammino ma non si vede chi è in grado di tracciarlo e con quale protagonista sociale. Quello che addolora è la constatazione che la strada esiste e basterebbe sgomberare un po’ di detriti per renderla percorribile ma i viandanti sono pecore allo sbando e i pastori sembra che abbiano paura di esserne travolti.  Ma la strada, tenuto conto dello scontento diffuso, della crisi delle ideologie e dell’attesa  messianica e puntualmente delusa in un salvatore che ha premiato prima Renzi, poi Salvini e infine i Cinquestelle, è già bella e pronta e ci vuole solo il coraggio per imboccarla e la capacità di guidarvi un popolo di ciechi. La precondizione è la liberazione dal paraocchi degli slogan, dalla partigianeria, da ciò che resta delle cosiddette ideologie, al cui interno c’è tutto fuorché idee. Il primo pregiudizio da cui la cultura italiana, la scuola italiana, i media italiani debbono liberarsi o essere liberati  è l’antifascismo e, con l’antifascismo, la demonizzazione del Duce. E questo non solo per il merito ma anche, se non soprattutto, perché in una autentica democrazia liberale non ci sono tabù, non ci sono aree of limits. La libertà è funzione della cultura e dell’intelligenza, si esprime non, come dicono ipocritamente i compagni, nel rispetto delle opinioni altrui, alle quali è legittimo controbattere e che possono essere anche irrise,  ma nell’accettare il principio che qualunque opinione possa essere espressa, anche quella aberrante: le eresie, le bestemmie vanno lasciate all’intolleranza e alla stupidità delle religioni, di quella cristiana in particolare, e ogni uomo libero deve impegnarsi  per fronteggiare le religioni laiche e le nuove teologie.

Quello che disorienta gli storici “di sinistra” che si sono avventurati  sulla vicenda di Mussolini è non riuscire a rintracciarvi niente che giustifichi la vulgata antifascista o le ragioni del suo assassinio. Niente nella sua vita, prima o dopo la sua ascesa al potere, niente nei suoi scritti o nei suoi discorsi. Niente che somigli anche lontanamente alle farneticazioni di Hitler. E allora concludono che Mussolini poteva cavalcare qualunque idea, che non era guidato da un pensiero forte e coerente, che il suo era pragmatismo opportunista e puro esercizio del potere. Ma il pensiero forte e coerente di Mussolini e la continuità della sua azione di governo sta tutta  nello sradicamento della mafia, nella grandiosità delle opere pubbliche, nell’aver  liberato il colonialismo italiano dalle sabbie mobili in cui era finito, nell’aver  promosso in tutti i campi, dalla tecnica alla scienza, il genio italiano e nell’aver creato dal nulla uno stato sociale dopo ave fatto della scuola italiana la migliore del mondo. Tutto questo non richiede “ideologie” ma visione politica, capacità di mettere le persone giuste al posto giusto e il coraggio della solitudine. Ciò che disorienta lo storico “di sinistra”  è proprio il titolo di merito non solo dell’uomo Mussolini ma, al di là della coreografia, del ventennio da lui incarnato: nessuna cornice dottrinaria, nessun Libro Sacro ma volontà di fare e capacità di fare e di fare per il bene della Nazione, non per l’interesse di pochi o per allevare il proprio elettorato.  Per uno scherzo beffardo della storia è stato proprio il successo di questa visione politica che ha compattato la società italiana, l’ha riconciliata con se stessa e con la propria storia, le ha dato il vigore e l’idealità che ha incoraggiato il duce  a rispettare un  patto del quale avvertiva i rischi. Già aveva dovuto, d’accordo col re, introdurre seppure in forma attenuata, le leggi di discriminazione degli ebrei volute dall’alleato germanico e accolte con favore  – nessuno lo dice benché sia un’evidenza palmare – dal mondo cattolico e, ahimè, dall’opinione pubblica, lui che non era sospettabile neppure lontanamente di antisemitismo, lui che aveva un’ebrea come amante e biografa ufficiale; ora  la massa fremeva e premeva per menare le mani,  perché non si indugiasse oltre, per non fare come la Svizzera  dei banchieri o come la Spagna uscita  malconcia  dalla guerra intestina.

Insomma un’ “ideologia fascista” esiste solo nella testa degli antifascisti; per essere più chiaro: il fascismo è stato un movimento che ha portato al potere Mussolini, stop. A rigor  di termini non esiste nemmeno un’ “ideologia comunista”, se ci si riferisce al partito nato da un progetto politico elaborato da Karl Marx proprio in contrapposizione alle ideologie e alle utopie come quella di  Fourier, di Comte o degli anarchici. Per quanto dalle due fintamente opposte sponde si sforzino di negarlo non c’è alcuna pregiudiziale ideologica che impedisca ad un esponente di un partito che si dichiara di ispirarsi  al comunismo di stringere un’alleanza organica con l’esponente di un partito che dichiara di ispirarsi al fascismo; non c’è per il motivo semplice che entrambi si ispirano a ombre evanescenti. Quello che interessa è che entrambi rivendichino l’indipendenza politica e finanziaria dell’Italia, che entrambi non siano teleguidati o strumenti di qualche potere più o meno occulto. Poi, anche se la cosa di Rizzo e Alemanno non andrà in porto, il suo potenziale bacino elettorale rimane, in attesa di qualcuno che ne riprenda il progetto con maggiore convinzione e più visibilità. Chiunque sarà, e quale che sarà la sua provenienza,  spetterà  a lui – per carità lui/lei (per quanto, non mi perito a dirlo, se le donne leader debbano essere Meloni, Schlein, Ursula von der Leyen, Christine Lagarde,  la vice di Biden di cui non ricordo più il nome o la graziosa finnica scomparsa dal radar sarà bene aspettare che le modalità di accesso e di selezione ai piani alti della politica cambino radicalmente) – dare il via ad un radicale revisionismo storico e culturale, sradicare la malerba della sinistra urlata e di quella sussurrata, dei salotti e dei circoli di periferia, delle frasi fatte e dei retro pensieri  e soprattutto liberarci di quell’intellighenzia che è di fatto il regno dell’ignoranza, del sussiego e di un pensiero non filosoficamente ma empiricamente debole. L’Italia finita ai margini dell’Europa, ultima ruota del carro americano, ora che ha toccato il fondo ha davanti a sé questa possibilità irripetibile di tornare ad essere l’ombelico del mondo. Un’imbambolata giornalista mediaset commentando l’esclusione di Roma dall’expo del 2030  ne faceva una questione estetica: “ma vuoi mettere la bellezza celebrata da Tarantino con l’anonima freddezza della capitale araba?”.

No, signorina  quanto sei bella Roma lasciamola agli epigoni di Claudio Villa, non è su quella che una nuova politica deve puntare ma sul recupero della romanità da parte di un popolo infiacchito, disorientato, smemorato; le grandi rivoluzioni non sognano il futuro ma si riappropriano del passato – chiedetelo a Robespierre o a Bonaparte se non volete chiederlo a Mussolini –  e lo sanno bene i giovani iraniani che commemorano Ciro il Grande sotto lo sguardo sospettoso degli ayatollah. Roma non è bella, è il faro di una civiltà perduta  ma non estinta che l’Italia deve riprendersi e si deve meritare.  Un egiziano appena appena istruito si sente figlio di una storia millenaria, la Cina vive con naturalezza la continuità col suo passato nonostante Mao e il libretto rosso, gli americani sono orgogliosi di quel poco che è la loro storia; da noi i compagni hanno inculcato nella testa degli italiani che l’Italia è nata con la resistenza, incoraggiati da quella parte di Europa, Francia in testa, che vorrebbero ridurla ad una espressione geografica  da riempire di cosiddetti migranti e ora, sempre col plauso di quell’Europa, vorrebbero cancellare dalle nostre città, e in particolare da Roma, ogni traccia dell’architettura del Ventennio. L’Italia o è grande -perché grande è la sua storia – o non è.  E se il primo passo deve essere uscire dall’euro, come la strana coppia promette nel suo programma, lo si faccia.

Pierfranco Lisorini

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