Quando la politica è guidata dal principio del piacere o da inconfessabili ascendenze culturali

Il passaggio dall’opinione alla scienza, dalla doxa all’episteme, è regolato in modo ferreo, e non potrebbe essere altrimenti, pena la perdita di senso dell’episteme. Il modello al quale comunemente ci si riferisce è la matematica, della quale il detto popolare recita: non è un’opinione. Gli antichi ne hanno cercato una base smaterializzata, anteriore ad ogni contenuto e l’hanno trovata in due direzioni diverse: nella sillogistica aristotelica e nella dialettica stoica. Un formalismo che spiaceva a Bacone, che alla certezza vuota e astratta della logica preferiva la certezza psicologica di un esperimento riuscito.

Due approcci diversi ma non inconciliabili, come dimostra la storia della scienza moderna da Galilei a Newton passando attraverso Cartesio. E tutta la nostra civiltà, la nostra cultura e la nostra stessa idea di scuola si basa sul presupposto che le costruzioni teoriche, anche le più convincenti, sono tentativi di ampliare l’orizzonte della conoscenza in attesa che l’evidenza fattuale le confermi, le corregga o le rigetti; ma sul terreno solido delle acquisizioni c’è solo da apprendere, impadronirsene, farle proprie nello stesso modo in cui si impara a leggere, a scrivere o a far di conto. Dubbi, opinioni, atteggiamenti sono giustificati quando poggiano su quel terreno solido, quando poggiando sul dato di fatto, il noto e condiviso, si cerca di guardare oltre, ci si affaccia sull’ignoto e si sceglie il verosimile, quello che a noi sembra vero e ad altri no, nel dominio in cui verità diverse coesistono. Se questi due piani vengono confusi saltano le regole della comunicazione, non c’è più possibilità di dialogo e di confronto. In estrema sintesi: con un baro non si gioca e non si discute con chi nega l’evidenza fattuale.

Galilei, Newton, Cartesio

Putin è il presidente della federazione russa uscito da una competizione elettorale regolata da norme compatibili con quelle di tutti i Paesi cosiddetti democratici e con la partecipazione di forze politiche di orientamento diverso, compresi i nostalgici del regime sovietico. Questo è un fatto, a partire dal quale è legittimo esprimere pareri diversi sulla solidità della sua maggioranza parlamentare, sulla sua capacità di controllo degli apparati dello Stato, sulla sua relazione con i magnati dell’economia russa, sul consenso di cui gode, sulla bontà della sua azione di governo, solo nominalmente affidata al primo ministro (come accade in Francia). Ma con chi parte dalla convinzione che Putin è un tiranno, un dittatore, il nuovo Stalin o il neozar non ci può essere dialogo, si è fuori dal campo della dialettica. La dialettica e il confronto fra le idee si esercitano sul terreno solido dei fatti e sono regolati dal principio di realtà: quando il principio di realtà è sostituito da quello del piacere la cosa più saggia che si può fare è lasciar perdere. Nel dipanarsi degli avvenimenti che costituiscono la Storia la prospettiva, la punteggiatura, l’interpolazione e il completamento delle lacune conducono a narrazioni diverse della stessa traccia come un tessuto che viene piegato secondo i gusti e la sensibilità di chi lo maneggia ma non può alterarne l’ordito e la trama se non vuole strapparlo. C’è la Storia e ci sono le favole per bambini.

© Sputnik. PUTIN

E la storia ci restituisce l’immagine del pupillo di Eltsin intenzionato a mantenere la Russia saldamente incastonata in Europa non solo per ragioni culturali ma in forza di una tradizione storico-politica che lo stesso comunismo aveva alterato ma non stravolto. Su questa base è plausibile ipotizzare vocazioni geopolitiche diverse per la Russia post sovietica, con un baricentro fluttuante e la tentazione di un’alternativa all’Europa occidentale – non all’Europa, si badi bene -, una sorta di ritorno alla contrapposizione dei due imperi o delle due chiese. E non mi stupirei se una parte dei gruppi dirigenti russi, militari, politici o finanziari, per interesse o per sciovinismo fosse contraria alla linea europea che era stata di Eltsin e poi di Putin – su Medvedev non mi pronuncio – e smaniasse per una politica più aggressiva nei confronti della Nato e dell’Occidente.

Grande Liguria

È comunque un fatto incontrovertibile che almeno fino al 2014, non un secolo fa, il cancelliere tedesco, il presidente francese, tutti i leader politici italiani, Prodi in testa, invidiavano il rapporto speciale fra Putin e Berlusconi e facevano a gara per entrare nelle grazie dell’inquilino del Cremlino e tutti si compiacevano del nuovo corso democratico e tradizionalista della Russia cristiana. Sul perché le cose sono cambiate è legittimo avere opinioni diverse ma non è legittimo trasformare Putin in un dittatore o, seguendo la propaganda dei nazisti ucraini che sono specializzati nell’impiego dei meccanismi di negazione e di proiezione, in un tiranno sanguinario. Né è legittimo affermare, come fa Mattarella ogni volta che gli si presenta l’occasione, che “la federazione russa ha scatenato una guerra sciagurata arrogandosi un inaccettabile diritto di aggressione”; peggio di Hitler, ci sarebbe da dire, che qualche buon motivo per attaccare la Polonia ce l’aveva. Stupido e cattivo, questo Putin; peccato che sia lo stesso omaggiato sei anni fa dallo stesso funereo custode della nostra costituzione Io, forse per mestiere, eviterei giudizi tanto perentori quanto arbitrari e mi atterrei al leibniziano principio di ragion sufficiente e, anche se sono convinto che il bandolo della matassa della crisi vada cercato nella politica interna americana, trovo ragionevole che altri insistano su una reazione all’espansionismo economico cinese o attribuiscano un ruolo decisivo al nazionalismo dei Paesi baltici, al revanscismo polacco e al filo che unisce le destre europee all’Ucraina (quelle destre che hanno espresso Anders Breiwik o l’idiota svedese che ha bruciato il Corano, vecchio vizio quello di dare fuoco ai libri ), o che altri ancora ci ricordino che non solo in Crimea o nel Donbass ma in tutta l’Ucraina la maggioranza della popolazione si sente russa, è russa e preme per tornare a quella che è la propria casa. E tutti, tutti quelli che conoscono i fatti, qualunque tesi abbraccino sanno che la guerra in Ucraina risale al 2014, molto prima dell’”operazione militare speciale.”
Poi c’è il problema della leadership ucraina e anche su questo prima di esprimere giudizi o esibire convinzioni prive di fondamento bisogna fare un passo indietro. Storicamente Ucraina – la piccola Russia – e Russia – la grande Russia – sono indistinguibili: chi non lo sa, almeno che non finga, è semplicemente uno sprovveduto che negli anni della scuola dormiva o guardava fuori della finestra; andrebbe preso per un orecchio e costretto a studiare. Ciò non toglie che ci siano stati nel passato remoto e recente gruppi minoritari che hanno enfatizzato le peculiarità linguistiche e artistico-letterarie e insistito sull’esistenza di una nazione ucraina alternativa a quella russa, gruppi rinforzati dall’avversione nei confronti del comunismo sovietico, presente per altro in modo sotterraneo in tutta la Russia subito dopo il colpo di mano bolscevico. Durante la guerra questi gruppi hanno trovato una sponda nella Germania nazista, molti hanno addirittura combattuto contro l’armata rossa inquadrati nelle SS e si sono distinti nella caccia agli ebrei. Il loro esponente più illustre è stato Stepan Bandera, che l’attuale regime considera un eroe nazionale, il più oltranzista del nazionalisti ucraini filotedeschi, un fanatico teorico della pulizia etnica considerato con sospetto dagli stessi tedeschi. La pulizia etnica non fu solo una farneticazione ideologica ma un progetto politico preparato dai pogrom di Leopoli dell’estate del 1941 ai quali partecipò attivamente una parte della popolazione sotto gli occhi, è difficile dire se compiaciuti o disgustati, dei militari tedeschi. Quando le truppe sovietiche liberarono la città dei duecentomila ebrei di Leopoli ne rimanevano poche centinaia: e anche questo è un fatto di cui tener conto prima di esprimere qualsiasi opinione.

Prigozhin e Putin

Nonostante i goffi tentativi di negare, scaricare le colpe sulle vittime, addossarle ai vecchi alleati o alzare polverone costruendo prove di violenze compiute dai comunisti, rimangono le immagini e i filmati che attestano la ferocia di quei gruppi e non del solo Bandera e gli inviti documentati rivolti alla popolazione di stanare e uccidere russi, ebrei, polacchi e ungheresi. Un copione che si è ripetuto col battaglione Azov, coerente con l’assassinio dei prigionieri e che accentua l’opacità della strage di Bucha.
Ma ridurre il popolo ucraino all’odio etnico scatenato a Leopoli o in altre sacche in cui la convivenza sociale e culturale ha generato intolleranza e imbarbarimento significherebbe ignorare che le prime vittime del nazionalismo ucraino, quello che pretende di estrarre dalla massa di una popolazione sostanzialmente russa una componente pura-ucraina, sono gli stessi ucraini, che hanno subito e stanno subendo una versione esasperata del culto germanico della razza. Quanto meno, nel loro delirio, gli antropologi tedeschi non si sono spinti fino al punto di andare oltre la teorizzazione di un tipo tedesco – ariano, dicevano, confondendo lingua e etnia – puro. Del resto, se l’avessero fatto la prima vittima sarebbe stato lo stesso Hitler.
Ci voleva l’intemerata di Prigozhin per scoprire che Putin non è un dittatore, non è il padrone della Russia ma semplicemente un Capo di Stato, con maggiore carisma di un Macron o di un Mattarella ma in buona sostanza con poteri definiti dalle leggi e legittimati dal voto popolare. Ma se Putin non si è comportato come presumibilmente si sarebbero comportati Hitler, Franco o Mussolini per le grandi firme del nostro giornalismo significa che il suo potere vacilla, che il tiranno è un’anatra zoppa. Non passa per la testa a questi geni della tastiera che la reazione composta, pacata e il quasi-perdono dei ribelli sono una prova di forza, non di debolezza e che non è semplicemente la forza di un uomo ma quella delle istituzioni e della società. Non abbiamo elementi sufficienti per esprimere valutazioni attendibili sul capo e fondatore della Wagner,  sulle ragioni e gli obbiettivi del suo gesto, o sul perché del ricorso a milizie mercenarie. L’unico dato certo è che la vicenda personale di Prigozhin è la conferma che il capitalismo aurorale consente in Russia il formarsi di rapide fortune e consente a un soggetto senza scrupoli e inaffidabile di avvicinarsi pericolosamente al centro del potere; per il resto possiamo constatare che la nuova Russia è orientata da un lato al recupero dei suoi valori tradizionali dall’altro al conseguimento di un benessere con scoperte venature edonistiche connotato da un patriottismo pacioso, mille miglia lontano dalla retorica militarista. E questo spiegherebbe bene la sobrietà di Putin, la riluttanza a impiegare militari di leva, il ricorso a una milizia privata o a truppe cecene e la ricerca di volontari col miraggio di un vantaggio economico.

Putin, Meloni e Prigozhin

E se la Meloni e i suoi compari seguiti dal codazzo dei media guardavano speranzosi alla caduta del presunto zar i più accorti osservatori europei e americani per qualche ora hanno tremato di fronte alla prospettiva del collasso politico russo, che avrebbe spianato la strada a individui del calibro dell’ex ristoratore di San Pietroburgo, consapevoli che il crollo di un sistema democratico non porta mai a nulla di buono e che quello che sarebbe crollato – un’eventualità che a cose fatte si può tranquillamente riconoscere che non è mai esistita – non era una dittatura la cui fine avrebbe aperto la strada alla libertà e alla democrazia ma esattamente il contrario, con conseguenze tragiche per l’umanità intera. Le vicende della Germania di Weimar, della Spagna e della stessa Italia (e lo dico da giudice molto benevolo nei confronti del Duce) dovrebbero avere insegnato qualcosa.
Ed è veramente criminale l’insistenza di tanti commentatori nostrani sulle crepe della catena di comando moscovita, sulle difficoltà dell’economia russa, sui cedimenti del fronte e i successi della controffensiva ucraina e su un Putin disperato. Sono bufale sfacciate ma il solo spacciarle per vere e l’augurarsi che si avverino dimostra l’abisso di stupidità in cui è precipitato il sistema politico italiano che dà loro credito o addirittura le ispira. Se fossero anche minimamente vere ci sarebbe da aspettarsi un rabbioso voltafaccia di Putin o, prospettiva anche più spaventosa, un colpo di palazzo che metterebbe la Russia in mano ai signori della guerra, altro che la carnevalata dello chef.
Pierfranco Lisorini

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