Proliferano i partiti ma non c’è traccia della politica

Il distacco fra la politica, intesa come l’insieme dei partiti politici, e i cittadini è un’evidenza unanimemente riconosciuta e alla quale gli italiani sono ormai assuefatti. Ma la vera malattia, e malattia mortale, delle istituzioni, non dico della democrazia, della quale nel nostro Paese c’è solo la caricatura, è l’assenza di correlazione fra la politica, intesa come l’insieme dei problemi e delle possibili soluzioni che riguardano la cosa pubblica, e natura e comportamenti dei partiti. In questo momento in Italia sono sul tappeto questioni cruciali che richiedono scelte precise: la posizione nell’Ue, la permanenza nella Nato, le sanzioni contro la Russia con la quale si è perso il partenariato commerciale, la gestione del welfare, il contrasto all’immigrazione illegale, lo sfruttamento delle risorse energetiche, la tutela dell’ambiente e, sullo sfondo, i grandi temi del rapporto fra capitale pubblico e privato, l’alternativa fra decentramento e centralizzazione, la distribuzione del reddito e l’imposizione fiscale.

Bene: mentre l’opinione pubblica, espressione di legittimi interessi e aspirazioni della società civile, si divide sulle strade da prendere, vale a dire sulle possibili scelte politiche, non c’è un partito che giustifichi la sua esistenza sulla base di tali scelte, il che significa che non c’è un partito degno del ruolo di soggetto politico. E questa è un’anomalia tutta italiana, un’anomalia che nasce con la Costituente e che è soprattutto imputabile al Pci e alla sua appendice sindacale. Nella mia personale esperienza sono impressi eventi che attestano al di là di ogni dubbio il peccato originale di una partitocrazia fondata a parole sull’odio di classe – che sarebbe già una pessima cosa ma avrebbe comunque un fondamento socioeconomico – ma nella realtà poggiante sulla partigianeria, il bisogno di appartenenza, le spinte emotive. Caroselli della Celere sotto i portici di via Grande, spari, barricate e cariche in quella piazza della Repubblica calcata dieci anni prima da centomila livornesi in delirio per il Duce, alla notizia dell’attentato a Togliatti: doveva essere il via all’insurrezione, bloccata dal compagno Stalin fedele agli accordi di Yalta. All’inizio degli anni Cinquanta la folla oceanica che riempiva piazza della Vittoria e tutte le strade adiacenti, tutti col pugno chiuso levato in alto – retaggio modificato del saluto romano – per rendere omaggio al capo partigiano morto in un incidente stradale; una decina d’anni dopo la stessa folla ancora più compatta, questa volta inferocita e accecata dall’odio perché nella stessa piazza avrebbe dovuto parlare Almirante.

E, poco dopo, altri caroselli, spari e devastazioni per la presenza della brigata Folgore. Dov’era la politica in tutto questo? Odio, caccia al missino, agguati ai soldati in divisa e, di riscontro, tutti intruppati, una sola anima, inorgogliti, commossi e uniti in un orgasmo collettivo come alla grande marcia della pace conclusa con l’apoteosi in piazza Venti Settembre con le parole di Pasolini, docile strumento dei compagni, immemore della fine del fratello. Cosa c’è di politica in tutto questo? C’è fede, partecipazione, stare insieme, sentire insieme, identificarsi, odiare soprattutto ma di sicuro non c’è la politica. E se il Pci era questo, gli altri agitavano la mozione degli affetti e della memoria: il risorgimento, l’epopea garibaldina, il mito di un’Italia liberale mai esistita, la nostalgia inconfessabile del regime, la rivincita della Chiesa.  Ma la politica non era lì: la politica era ed è nelle scelte che orientano la società, l’economia, il lavoro e di quelle i partiti italiani non si sono mai occupati o preoccupati. Ma i tempi sono cambiati, si dirà, ed è vero: per fortuna in nessuna città italiana i compagni – che cambiano nome ma sono sempre gli stessi – sono in grado di riempire le piazze, tantomeno di scatenarle; ma l’odio, l’intolleranza, il cieco fanatismo e, mi si lasci dire, la stupidità rimangono come rimane il ricorso alla violenza.

Borghezio cacciato da Livorno

 Per non muovermi da Livorno, nessuno lo dice ma la Lega non può muovere foglia che non si mobiliti su commissione dei compagni qualche centinaio di psicopatici esaltati come quelli che costrinsero Borghezio a rinunciare a tenere il suo comizio per salvare la pelle. Lo stesso Salvini, è storia di pochi anni fa, per incontrare i suoi elettori dové ricorrere all’ospitalità di un parroco e alla protezione di un esercito di poliziotti in assetto antisommossa. Fece meno chiasso la Meloni, presa a sputi in piazza Garibaldi da una ventina di comari sotto lo sguardo indifferente di nordafricani, nigeriani, congolesi che si sono installati nel cuore della città vecchia. E questa è politica? Del resto l’antifascismo è la cifra dell’assenza di programmi, di raziocinio, di approccio alla realtà, un modo per evitare il confronto non tanto col l’altro quanto con le cose, con le responsabilità e, vivaddio, con la propria incapacità. Questa non è la politica. Vorrei sapere quanti elettori di FdI sono schiacciati sull’atlantismo e sulla Casa Bianca – soprattutto da quando ospita Biden – come lo sono Giorgia Meloni e i suoi accoliti. E vorrei sapere che cosa pensano i milioni di italiani, la grande maggioranza degli elettori, che nel 2018 votarono per la Lega o per i Cinquestelle del livore draghiano verso la Russia condiviso proprio da Lega e Cinquestelle.

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Quale partito rappresenta gli italiani che considerano delittuosa la cobelligeranza italiana in un conflitto che, comunque lo si giudichi, assolutamente non ci riguarda e per i quali le affermazioni di Draghi – condivise dalla sua maggioranza – sul pericolo che correrebbero la nostra libertà e la nostra democrazia messe a repentaglio dal diabolico Putin sono farneticazioni? Per semplicità ho preso in esame solo la questione più scottante e più gravida di conseguenze ma potrei aggiungerne altre squisitamente politiche, perché attengono al modo di amministrare la cosa pubblica. Vado a caso: si parla tanto di autonomia energetica ed è l’occasione per infierire sui Cinquestelle che avrebbero osteggiato tanto il nucleare quanto il carbone e impedito le trivellazioni e sarebbero responsabili della dipendenza dalla Russia; ma, in generale, chi ha detto che uno Stato, nel mondo moderno, debba essere autosufficiente? Da quando in qua l’autarchia è un valore? e, nello specifico, è più conveniente bucherellare il suolo, devastare il paesaggio, ricavare gas o petrolio che a malapena compensa la spesa sostenuta per estrarlo o comprarlo a un prezzo stracciato da chi lo produce in abbondanza? e, dovendo comprare gas è più saggio comprarlo dove costa meno o dove costa di più (senza contare il passaggio dei rigassificatori)?  Ma, si obietta, non è etico foraggiare una dittatura. A parte il fatto che se la Russia di Putin è una dittatura l’America di Biden è un’orrenda tirannide (e sull’Italia stendiamo un velo pietoso) e sul tasso di democrazia degli emirati arabi o dell’Algeria avrei qualche riserva, da quando in qua gli affari e la politica internazionale sono guidati da criteri morali? Il vecchio Hobbes sosteneva, e vorrei vedere chi gli dà torto, che i rapporti fra Stati sono regolati dalle leggi di natura o da accordi formali, ognuno per sé e dio per tutti. La verità è che il nostro governo non persegue gli interessi nazionali ma quelli degli Stati Uniti e del capitalismo globale; la circostanza che lo facciano altri Paesi europei non è un’attenuante, semmai è un’aggravante, tanto più che i nostri partner europei, e mi riferisco in particolare alla Francia e alla Germania, filtrano il loro atlantismo con i propri interessi, cercano di minimizzare  gli effetti dell’attuale congiuntura, si pongono con preoccupazione il tema delle sanzioni e cominciano a guardare all’Ucraina e a Zelensky con una certa diffidenza.  Noi no, il nostro governo no, la maggioranza su cui poggia no, il maggiore partito di opposizione meno che mai e Draghi può continuare a testa bassa senza trovare ostacoli. E quegli stessi partner europei, al pari degli spagnoli, considerano l’immigrazione un pericolo, una minaccia da fronteggiare, una calamità; provi una delle nostre anime belle a convincere i socialisti di Sanchez che gli assalitori di Melilla sono una risorsa.

Il Ministro  Luciana Lamorgese e Matteo Salvini

A parte i compagni, che si sa di che panni vestono, noi abbiamo Salvini, che via via balbetta che i confini vanno difesi ma intanto sta comodamente al governo con la Lamorgese e si guarda bene dallo sfiduciarla (del resto quando era ministro assicurava: le donne e i minori vanno fatti entrare, ci mancherebbe!); al di là delle Alpi agli invasori si spara addosso (e lo stesso Biden non ci pensa nemmeno a smantellare i muri eretti da Trump). Perché lo fanno? per non compromettere la sicurezza nazionale e il bilancio dello Stato, perché le periferie scoppiano ed è criminale aggravare una situazione già compromessa. Lo fanno perché, con tutti i loro limiti e le loro contraddizioni i governanti – democrazie liberali vere o farlocche, regimi autoritari, dittature – perseguono gli interessi nazionali, il benessere dei loro popoli o quantomeno non sono nemici del loro popolo (anche perché farebbero una brutta fine). Salvini ha candidamente dichiarato che da ora in avanti appoggerà solo provvedimenti nell’interesse dell’Italia, ammettendo così la sua complicità in provvedimenti dannosi per il Paese. Ma con leader di questo livello come si fa a prendersela con Conte? (e con questo non intendo certo prenderne le difese: dopo aver inghiottito il rospo della guerra alla Russia, il disastro delle sanzioni, le centrali a carbone e i rigassificatori tira su la testina per la spazzatura romana).

Il distacco dei partiti dalla politica – e, ovviamente, dai cittadini – mette allo scoperto un regime oligarchico che non ha riscontri in altre parti del mondo, se non forse in qualche repubblichetta dell’Africa tropicale. L’assenza della politica, quella vera, mette a nudo senza pudore un sistema parassitario che mi ripugna definire oligarchico perché le oligarchie di solito hanno un loro decoro. Un sistema parassitario che non si limita a deridere e disprezzare la povertà ma intende rimuoverla, come fa Mughini – uno che ha fatto la sua fortuna con Lotta Continua che gli ha aperto le stanze dorate della televisione di Stato -, che si vanta di essere ricco e guai a chi glielo rinfaccia perché lui con le tasse che paga tiene su tutta la baracca. Ovviamente non gli passa per la testa che la ricchezza sana è quella di chi crea lavoro non quella di chi si nutre delle risorse comuni dando in cambio il suo narcisismo né gli passa per la testa che la baracca la reggono i servitori dello Stato e i fornitori di beni e servizi pubblici. Un’altra ospite fissa di talk show ingrassata col denaro pubblico, tanto per non fare nomi Maria Giovanna Maglie – che non si confonda per carità con la purtroppo scomparsa Ida Magli – nella medesima circostanza in cui Mughini sbroccava se n’è uscita senza arrossire con la sentenza che i ricchi sono il sale della democrazia. Ora sostenere che gli ultimi sono il sale della terra potrà, secondo chi lo dice, puzzare di ipocrisia ma avere l’impudenza di rovesciare pubblicamente nel suo contrario quella che resta un’indiscutibile verità, se non altro perché coglie l’essenza fragile e miserabile della natura umana, non è solo segno di stupidità personale ma di una totale assenza di controllo civile e morale.

Pierfranco Lisorini

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