Perché la guerra non è più un’opzione praticabile e si deve puntare alla pace, senza se e senza ma

Homo homini lupus, scriveva Hobbes ed è difficile dargli torto. Il rapporto con l’altro è sempre problematico perché implica il superamento di una barriera che non può essere annullata, quantomeno nelle relazioni adattive. Il suo annullamento infatti porta alla perdita della autonomia o addirittura dell’identità personale, sia nel caso della fusione – come nella folie à deux – sia nel caso di una dipendenza che tende a diventare possesso. I rapporti interpersonali, da quelli più superficiali e occasionali a quelli durevoli e più emotivamente coinvolgenti, sono però resi possibili da un abbassamento anche se parziale e temporaneo di quella barriera, vale a dire dalla fiducia, che altro non è che mostrarsi scoperto e vulnerabile. Perché la struttura psicologica dell’essere umano – che in questo non si distingue dall’animale – è l’armatura e il suo repertorio istintuale di base rinvia alla difesa, all’attacco, alla fuga che, ai livelli superiori corticalizzati, corrispondono alla diffidenza, alla valutazione del rischio, all’anticipazione delle mosse e all’interpretazione delle intenzioni di chi ci sta di fronte. Esperienze personali, stili di allevamento, struttura fisica modulano queste risposte e fanno apparire alcuni più scostanti e altri più aperti, alcuni accomodanti e altri intransigenti, alcuni aggressivi altri arrendevoli.  però innegabile che il conflitto o, nel suo significato più ampio, la guerra comunque declinata, appartiene al patrimonio genetico dell’umanità, alla natura insomma. Per questo è così difficile imparare – o insegnare – a gestire le emozioni, a vivere serenamente un rapporto di coppia, a rispettare l’alterità. La cultura o, se si preferisce, il processo di civilizzazione, “purifica” le pulsioni trasformandole in sentimenti e dà loro una valenza che trascende l’individuo, le sposta in una dimensione sociale e le trasforma in valori.  La brutalità dell’aggressione dà in questo modo senso e contenuto emozionale al coraggio, all’eroismo, allo sprezzo del pericolo, al patriottismo.  L’insieme dei riferimenti valoriali che la retorica militarista alimenta ha la propria base e ragion d’essere nel patrimonio istintuale. Ed è per questo motivo che non mi pento a riconoscere che l’uomo non è per nulla buono per natura, né mite né amichevole: è la cultura che lo rende tale e non sempre ci riesce.

 La guerra è una delle cose più naturali che si possano immaginare: l’uomo è naturalmente guerriero ed è forzatamente pacifico.  Sono altresì consapevole che per quanti sforzi si facciano l’educazione può solo riuscire a limitare gli effetti della natura sulle relazioni sociali, ne può sublimare, reprimere o dislocare le manifestazioni ma non la può annullare. Lo sport, in generale la competizione e, com’è più augurabile, la competizione con se stessi sono modi efficaci per scaricare questa energia aggressiva, che per altro continua inevitabilmente a esprimersi in modi più o meno diretti, soprattutto in condizioni di stress, quando viene innescata dalla paura o  dalla frustrazione. Insomma la guerra, intesa in senso lato, psicologico e sociale ma non necessariamente politico, è ineliminabile perché inerisce alla natura dell’uomo.  Per ciò che invece attiene  all’aspetto politico della guerra, vale a dire alla guerra stricto sensu, la guerra fra popoli o Stati, non mi spingo fino a dire che sia, o sia stata, l’ “igiene dell’umanità” o che sia un modo meno elegante per intrattenere rapporti diplomatici ma riconosco che i tempi della storia sono stati scanditi dalle guerre e le grandi rivoluzioni scientifiche e tecnologiche  sono funzione diretta  della guerra: l’età del ferro, che  nella sua essenza è  il possesso di armi  di acciaio, più efficaci e di minor costo  rispetto a quelle di bronzo, segnò l’avvento della civiltà ellenica come la polvere da sparo applicata  all’artiglieria determinò il tramonto degli eserciti  – e degli Stati – medioevali: in ogni epoca la spinta decisiva al sapere viene da esigenze militari, dalle impressionanti acquisizioni dall’ingegneria  romana agli sviluppi della trigonometria al servizio della balistica.

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E non dimentichiamo che il nostro essere italiani non è frutto di un accordo stipulato durante un pranzo di gala ma di una spedizione militare, diciamo pure dell’aggressione a uno Stato sovrano, che  oltre al tributo di sangue comportò l’arretramento economico sociale e culturale di intere regioni del nostro mezzogiorno.  Insomma, lo dico a chiare lettere, non sono un irenista e mi guarderei bene dal bandire la guerra dalla tradizione letteraria, consapevole che non ci resterebbe pressoché nulla: da Omero a Virgilio, da Ariosto a Tasso  fino  a Carducci, Pascoli, D’Annunzio e prima di loro al giovane Leopardi e allo stesso mite e introverso don Lisander la guerra è un valore positivo;   lo stesso Petrarca mentre invoca accoratamente la pace subito dopo si inorgoglisce per le armi romane che colorarono l’Arbia col rosso del sangue dei barbari. Non sono un irenista anche se della guerra, qualunque guerra, avverto l’orrore e i paradossi: da liceale i versi di Tirteo mi gonfiavano il petto ma dovevo cacciare il sospetto che nei corpi fatti a pezzi e nel fetore di morte del campo di battaglia ci fosse poco di esaltante e che l’impeto contro il nemico fosse in realtà rivolto contro la comune umanità che è in ognuno di noi. E con gli anni ho imparato  che nelle guerre, come nelle liti per strada, non si fronteggiano mai il torto e la ragione, perché tutti hanno ragione  (non dico che hanno tutti torto perché sarebbe una stupidaggine da anime belle), tutti combattono per una causa nobile e giusta. Che però, appena si cambia prospettiva, perde di senso.  Per concludere, se guardo alla mia esperienza personale, mi è capitato di essermi esaltato per la Patria in armi e di aver sofferto per le vite spezzate sull’altare  di una cieca irrazionalità o  degli interessi di pochi ma, libero da coinvolgimenti emotivo, ho maturato per vie diverse la convinzione dell’inevitabilità del conflitto nei rapporti fra uomini e della guerra che ne è l’espressione più cruenta.  Insomma, non sono un pacifista. Non sono pertanto mosso da spirito francescano se dico con tutta la forza di cui sono capace che con l’evoluzione delle istituzioni da uno stato primitivo di instabilità e anomia all’equilibrio di un ordine nel quale tutti si riconoscono oltre i particolarismi delle culture locali la guerra non ha più senso. È accaduto con la pax romana, che sarebbe stata definitiva se l’impero avesse coinciso con l’ecumene; ci si è avvicinati con la respublica christianorum, nel modo imperfetto determinato dalla concorrenza di due poteri e due forme organizzative, ma adesso si impone come un processo obbligato e irreversibile, solo che si riesca a liquidare i residui delle ideologie novecentesche e il veleno della religione. Le rivalità commerciali di per sé non generano guerre: le facilitano, indubbiamente, ma non sono loro a provocarle. A scatenarle è il senso dell’alterità, la paura del diverso, dell’estraneo,  alimentati ad arte dall’ambizione e dalla demagogia dei governanti, come capita ora con la falsa, infondata, ridicola contrapposizione fra democrazie liberali e autocrazie, che arriva fino alla spudoratezza di  far credere che ci sia una  Russia  dispotica opposta ad una Ucraina  libera e democratica. Non c’è alcuna differenza sostanziale fra lo stile di vita e il modo di percepire le istituzioni di russi, americani,  tedeschi o giapponesi; e, se non vi si frappongono ostacoli o interferenze esterne (americane),  la Cina e gli altri grandi Paesi asiatici, con le loro peculiarità, finiranno per osmosi nel confluire in una comune e più ricca civiltà umana. Lo faranno attraverso un reciproco riconoscimento, che è altra cosa rispetto alla occidentalizzazione, all’appiattimento culturale, alla omogeneizzazione. In questo quadro la guerra non ha più motivo di essere, fatto salvo il conflitto destinato a restare all’interno dei singoli individui e della società civile a meno di un’improbabile rivoluzione antropologica. La compenetrazione culturale che si realizza con gli scambi commerciali, il turismo, la familiarizzazione resa possibile dal cinema, dalla televisione, dalla rete e l’adozione dei rispettivi costumi, la condivisione dell’arte in tutte le sue espressioni definiscono un nuovo ordine mondiale, una civitas universalis, la nuova pax romana, che questa volta coincide con l’ecumene. Questa è la ragione profonda che fa della guerra un assurdo anacronismo. Poi, non casuale complemento, quasi un suggello imposto da una razionalità interna alle cose, l’arma atomica combinata con vettori impossibili da intercettare, che spariglia i calcoli sul potenziale militare e i rapporti di forza fra le grandi potenze. In due secondi un missile teleguidato con testata nucleare che procede ad una velocità superiore cinque volte a quella del suono disintegra una portaerei a 400 Km di distanza: non è fantascienza né un progetto futuribile ma una concreta realizzazione della tecnologia militare russa. Che, d’altro canto, non sarebbe in grado di impedire un attacco nucleare su Mosca o qualsiasi altra città della federazione: una tragica, breve, partita a ping pong senza vincitori. Insomma la seconda guerra mondiale è stata anche l’ultima, con buona pace dei falchi del pentagono e dei lugubri – e stupidi- guerrafondai di casa nostra che da destra a sinistra dileggiano il pacifismo e insinuano che dietro la marcia romana per la pace ci sia la longa manus di Putin.

Questi Draghi,  Meloni, Calenda o, che dio ce ne scampi, Crosetto,  per dire i primi che mi vengono in mente, che considerano possibile o addirittura auspicabile un’alternativa alla pace meriterebbero di essere esposti al pubblico ludibrio o di essere sottoposti a un trattamento sanitario obbligatorio, e  lo sarebbero se solo  venissero presi sul serio e se le loro parole avessero un peso reale. Quelle del papa e delle poche altre voci sensate che passano il filtro dei media non sono opinioni da trattare  insieme ad opinioni di segno diverso: sono espressione  di un’ovvietà incontrovertibile, di fronte alla quale qualunque distinguo, obiezione, precisazione è pura follia. Lo ripeto: la seconda guerra mondiale è anche l’ultima, deve essere l’ultima, e il solo metterlo in dubbio merita una sollevazione assolutamente non pacifica  di tutti i popoli della terra. So bene che resta da dipanare la matassa dei conflitti locali, compresi quelli determinati dalla persecuzione delle minoranze etniche, linguistiche e religiose e dalla loro lotta per la libertà e l’indipendenza, ma l’unico modo per venirne a capo è quello di non approfittarne per i propri interessi politici ed economici, come da sempre fanno gli Stati Uniti, e di costringere le organizzazioni internazionali a svolgere le funzioni  di mediazione per le quali sono state istituite.

Noterella  in apparenza fuori tema

Il governo di destra che attendevamo – mi ci metto anch’io – da oltre settant’anni,  ha partorito la sua prima, e mi auguro ultima manovra, anzi manovrina, a immagine e somiglianza di quella di Draghi. Per ruscolare  qualche spicciolo e potersi permettere due o tre mancette identitarie hanno inventato la categoria degli “occupabili”, persone che il lavoro non ce l’hanno ma, se ci fosse, lo potrebbero avere, per togliergli quel reddito di cittadinanza che andava riformato – e riservato ai cittadini italiani -, non tagliato;  poi rosicchiano il parziale adeguamento delle pensioni non fosse mai che con duemila euro al mese gli anziani si dessero a spese folli. Sta il fatto che delle due vere emergenze che stanno mandando in malora l’Italia, l’Ucraina e l’invasione, questo governo non ha fiatato. L’appoggio incondizionato a Kiev, non giustificato da alcun trattato internazionale, ci costa accoglienza e mantenimento di profughi ucraini (più o meno quanto il governo Meloni medita di ricavare dal furto ai pensionati)  mentre della fornitura di armi all’esercito di Zelensky non ci è dato di conoscere il costo: ma sono soldi europei, si risponde da dritta e da manca, come se l’Italia non fosse uno dei principali contribuenti dei fondi europei. Ma, per quanto si tratti di miliardi di euro, non sono nulla in confronto al crollo della nostra economia, che si stava riprendendo dopo la mazzata del Covid – dei provvedimenti contro il Covid, in primis il lockdown,  e si è trovata a perdere uno dei migliori partner commerciali e il maggiore fornitore di energia. Quanto all’invasione inarrestata – non dico inarrestabile – e al peso sulla società italiana e sul bilancio dello Stato dei milioni di stranieri entrati illegalmente nel nostro Paese,  se si prova a fare due conti c’e da farsi rizzare i capelli in testa. Ma i nostri partiti di governo – Lega compresa – hanno altre preoccupazioni e votano in Europa una risoluzione che bolla la Russia come Stato terrorista (poi modificata in “Stato sponsor del terrorismo”: non è che a Strasburgo  hanno confuso la Russia con gli Usa?): ottimo modo per favorire la pace!  In compenso il nostro governo, così attento ai diritti umani e al rispetto di vere o presunte norme internazionali, fra le quali mi pare ci sia  anche la Convenzione di Ginevra, resta in rigoroso silenzio sul bestiale assassinio di prigionieri di guerra russi commesso dai soldati ucraini. Simmetria perfetta con i nostri telegiornali che ci informano quotidianamente di bombardamenti intorno alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, con tutti i rischi di una nuova Chernobyl -, omettendo pudicamente di dire che a bombardare sono gli ucraini.

Pierfranco Lisorini

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