Note a margine degli Xenia più brevi di Eugenio Montale

Premessa generale

Satura è la quarta raccolta poetica di Montale. Contiene liriche relative agli anni dal 1962 al 1970. E’ divisa in 5 sezioni: Il tu; Xenia I; Xenia II; Satura I; Satura II.
Nel presente, e in altri successivi articoli, ci si limiterà a commentare solo le composizioni più brevi, mai superiori ai 6 versi, dei due Xenia.
Nel titolo assegnato da Montale, Satura si rifà al genere letterario latino, caratterizzato da una meditazione morale sul quotidiano e da un tono spesso satirico.
Nelle due sezioni di Xenia, ovvero i doni che, sempre secondo la tradizione latina, venivano offerti all’ospite, prevale però la malinconia e il sentimento del lutto per la perdita nel ’63 (cioè a un solo anno dal matrimonio ma a 24 dall’inizio della convivenza) di Drusilla Tanzi, di 11 anni più anziana, chiamata affettuosamente “Mosca”, per i suoi occhiali spessi a mitigare una quasi-cecità, che appunto a una mosca la facevano vagamente rassomigliare.
Data la brevità delle poesie commentate, verrà di conseguenza enfatizzato più che l’aspetto formale-metrico-filologico, quello interpretativo-evocativo, e con notazioni anch’esse improntate a notevole brevità.

Xenia I,4

Avevamo studiato per l’aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.

“Xenia”. Dunque i doni che il poeta offre alla moglie. Il riconoscimento per quello che a sua volta lei gli ha dato; costantemente, con abnegazione.
“Avevamo”, così l’incipit, sta per “io e te”. E per tutti coloro i quali elaborano un lutto contrattando tacitamente con l’interlocutore scomparso quanto prendere seriamente la conversazione, cioè fino a che punto credere, insieme, alla più sincera delle finzioni.
“Io e te” sta per Montale e Drusilla Tanzi, la moglie morta con cui intreccia un dialogo muto e così tanto desiderato, ma in cui constata drammaticamente di non poter derogare dalle leggi della fisica che separano per sempre chi va e chi resta. Sembrerebbe persino accettare di essere tra questi ultimi e di nuovo, perciò, nella dimensione di comunanza per poterle parlare.
E’ come se il poeta dicesse che sarebbe meglio la morte se permettesse una nuova prossimità con chi ama, piuttosto che la vita.
Ma per questo bisogna attendere.
A meno che (e qui compare l’ironia) non si sia tutti già morti, e l’al di qua sia solo l’apparenza, il velo di Maya, la superficie seccata dell’esistere.

Al buio, o nella luce più accecante; tra gli sguardi disorientati degli ultimi traghettati e delle ombre che si alzano sulle punte per meglio mostrarsi agitando in alto mani ansiose verso chi attende e scruta sulla riva, nella confusione. Ecco, per quello, per evitarlo, avevano, lui e lei, concordato dopo averlo studiato insieme, un fischio che avrebbe permesso di ritrovarsi subito, senza impedimenti e incertezze, nell’al di là.
L’illusione, o la salvezza, o l’inganno, o la saggezza di pensare che, tranciato, un refe possa ricomporsi opponendosi all’oltraggio delle Parche con un fischio, provato un giorno o più probabilmente una notte in un momento faceto e triste nello stesso tempo, per riabbracciarsi tra la folla delle anime non paghe foss’anche del Paradiso finché, dolce e turbatore come i nidi delle cimase, esso non si completi con l’imperfezione degli affetti terreni.
Ma appunto, bisogna attendere.
E allora l’altra astuzia, propria dell’amore che s’arrovella, che sfida la disperazione e diviene stratagemma fino a fare finalmente incontrovertibile la logica della speranza:
se si fosse già morti, sarebbe di certo senza saperlo.
Il fischio non sarebbe più respinto dal muro d’ombra che separa i vivi e i morti, tra i quali in fondo non c’è più differenza se si ottiene l’unica cosa che conta: fischiare ciascuno le note create insieme e sentirle tornare indietro come in una eco benevola, nella risposta tanto agognata.

FULVIO BALDOINO

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