Lo stillicidio dell’immigrazione illegale fra colpevoli silenzi e tardivi pentimenti

Non ci voleva molto a capire che l’innesto nella nostra società di portatori di una cultura alternativa consolidata da secoli e resa immodificabile dalla fede religiosa oltre all’insopportabile peso finanziario  avrebbe prodotto effetti rovinosi a medio e lungo termine.  Lo spaccio di droga, le rapine, gli stupri – è di pochi giorni fa la notizia di una violenza consumata all’interno di un ascensore – sono solo le avvisaglie di un’incompatibilità sociale e culturale destinata a cristallizzarsi e a organizzarsi anche sotto l’aspetto territoriale.

L’Islam è una religione in cui si fondono politica cultura costume ed è soprattutto una religione rigida aggressiva e intollerante. Sono tratti condivisi col cristianesimo delle origini, nel quale però attraverso i secoli sono stati attenuati e contrastati dal fiume carsico della civiltà classica, emerso prepotentemente in superficie prima col rinascimento poi con l’illuminismo, fino al punto che nella politica, nell’arte, nello stile di vita l’Occidente si è completamente liberato dall’ipoteca della religione.  Fatto sta che l’Occidente colonialista e postcolonialista si è giovato del’immobilismo islamico e della rivalità fra le sue contrapposte ortodossie e non solo non ha fatto nulla per incoraggiare il processo di laicizzazione dei popoli arabi o arabizzati ma lo ha attivamente ostacolato e combattuto.

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Un caso esemplare è quello dell’Afghanistan dove negli anni venti gli inglesi misero i bastoni fra le ruote del tentativo della monarchia di modernizzare il Paese e ottanta anni dopo gli americani per strapparlo dall’area di influenza russa hanno armato i talebani. Ogni volta che gli equilibri geopolitici e gli interessi americani inglesi o francesi sono apparsi a repentaglio dal consolidarsi di strutture statali nazionali si è incoraggiata la formazione di frange conservatrici e oltranziste a vocazione ecumenica. I talebani, gli stessi che avevano combattuto contro i russi e che si sono impadroniti dell’Afghanistan dopo l’indecoroso ritiro americano, sono stati e sono additati come artefici delle peggiori nefandezze per aver azzerato il percorso di affrancamento delle donne e quel che era stato acquisito di diritti civili e politici in nome della restaurazione della legge coranica.

Ma ci si guarda bene dal promuovere seriamente un movimento di liberazione dal cappio della religione. Al contrario, quando gli stessi talebani si sono avviati alla normalizzazione sono stati immediatamente bloccati e irrigiditi dalla presenza di gruppi islamisti più radicali di loro e c’è il sospetto fondato che quei gruppi siano una creatura dell’Occidente. Bisogna che l’islamismo si avviti su se stesso, che sia dilaniato da conflitti interni, che il fanatismo prevalga sulla razionalità, che i tentativi di modernizzazione vengano prontamente rintuzzati. In questa prospettiva le contraddizioni della diplomazia occidentale sono solo apparenti: la linea è coerentemente ispirata a mantenere i paese arabi, con il placet del regno saudita e degli emirati, sotto la cappa di piombo della sottomissione a dio e in uno stato di minorità politica. Non c’è spazio per un nuovo Kemal  Atatürk e nemmeno per i suoi modesti epigoni. Gheddafi era un ostacolo per il neocolonialismo francese così come lo era Saddam Hussein per l’imperialismo americano e ora anche i più cauti Al Sisi o Erdogan, che debbono fronteggiare il radicalismo islamico, si trovano a fare i conti col cinismo o la dabbenaggine dei paesi occidentali.

Il Presidente della Turchia Erdogan e Putin

La Turchia, fino a ieri sulla soglia dell’Ue, rimane formalmente nella Nato ma è di fatto schierata con Putin e con la Cina. L’Egitto è da anni continuamente bersagliato dall’Italia che agita contro Al Sisi il caso Reggeni, il povero ragazzo finito per caso nella rete intricata di un’opposizione al regime in cui si mescolano curdi, cristiani copti, miliziani del califfato e che lungi dall’avere come obbiettivo uno Stato più laico e avviato verso la democrazia persegue solo la  destabilizzazione,  retaggio della sciagurata primavera araba.  Non contenti, i nostri politici progressisti hanno fatto irruzione negli affari interni di uno Stato  sovrano e dei suoi tribunali come elefanti in una cristalleria sposando  la causa di un oppositore al regime come se fosse una faccenda che tocca i nostri interessi nazionali. Incredibile.  S’intende che del marasma nel mondo islamico tutti se ne giovano – pagando però il prezzo del terrorismo perché quel marasma è il brodo di coltura di una jihad stracciona e rancorosa – ma non l’Italia, ultima ruota del carro europeo e occidentale, i cui governi si sono adoperati attivamente per perdere qualsiasi peso politico ed economico nel mediterraneo.
La mancata evoluzione del mondo arabo (che dovrebbe portare al confinamento della fede religiosa nel privato e alla laicizzazione delle istituzioni) e di conseguenza  il suo stato di perenne ebollizione e inquietudine acutizza il terrorismo endemico in Africa e nel sudest asiatico del quale l’Europa e l’Occidente subiscono per ora solo qualche contraccolpo.

Si tende, infatti, a dimenticare che quelli che in Europa sono episodi sporadici per quanto terribili in quelle aree sono la quotidianità e il bersaglio primario non sono i cristiani ma gli stessi musulmani. Il problema, per noi, è che la loro   pacificazione religiosa  si realizza solo nella guerra santa  contro l’Occidente corrotto. In questa prospettiva la  spinta migratoria non è solo espressione di una rinuncia e di fuga dalle proprie responsabilità ma in modo  inconsapevole o intenzionale contribuisce a creare una formidabile testa di ponte. E c’è da credere che i governanti europei ne siano consapevoli, salvo i nostri che hanno aperto le porte all’invasione sventolando i vessilli dell’accoglienza e dell’integrazione. Accoglienza che copre gli  sono interessi materiali di frange della Chiesa e del cosiddetto terzo settore  (e mi astengo dal tirare in ballo disegni o complotti nazionali e sovranazionali) e integrazione che esiste solo nella mente delle anime, si fa per dire, belle. Deve essere chiaro che i clandestini di seconda generazione (quelli ai quali i compagni smaniano di attribuire  lo ius soli)   sono  più pericolosi di quelli arrivati coi barconi – scortati dalle Ong – e la terza sarà ancora peggio: ostilità e incompatibilità si aggraveranno in modo esponenziale: non c’è bisogno di una speciale lungimiranza né di Nostradamus per esserne persuasi, basta un minimo di buonsenso  e di attenzione per le dinamiche sociali.

L’immigrato, o l’invasore, ha davanti a sé due strade: l’assimilazione, magari con la disponibilità a condividere una parte del proprio patrimonio culturale, o la gelosa ed esclusiva difesa di quel patrimonio e la formazione di una minoranza che può presentarsi come un’enclave o, se si preferisce, un avamposto. La religione, non il presunto razzismo inventato dalle sinistre e sbandierato dai clandestini, sbarra la prima strada. Le banlieus  parigine e le nostre periferie sono un laboratorio nel quale si anticipa quello che sarà il nostro futuro.  I disordini e le violenze seguite alla  vittoria della nazionale senegalese nella coppa d’Africa sono la dimostrazione lampante della africanizzazione di quelle periferie, altro che integrazione. Le prime vittime sono quella minoranza di africani determinati a rompere ogni legame con la propria terra, e la propria cultura, di origine, che sono anche i primi a temere il protrarsi  del flusso  migratorio. Se e quando ci si deciderà a interromperlo sarà ormai troppo tardi come tardiva è la resipiscenza di quanti vagheggiano, e vaneggiano, di rimpatri volontari elaborando un ridicolo programma “circolare” di formazione e reinserimento  che ha trovato spazio anche nella televisione di regime.  Resta comunque da apprezzare  la testimonianza, non importa se autentica o costruita, dell’africano che invita i suoi conterranei  a non mettersi nelle mani dei trafficanti e delle Ong, a diffidare del sogno occidentale e a darsi da fare per costruire un futuro migliore a casa propria, per sé  e per l’Africa. Un invito che  vale per l’africano  come per il pakistano l’afghano  o  il bengalese.
Pierfranco Lisorini

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