LETTURA DI UN’IMMAGINE: Orfeo Di Gustave Moreau, olio su tavola (1865)

Orfeo Di Gustave Moreau. Olio su tavola (1865)
Museo d’Orsay – Parigi

“Puote Orfeo co’l dolce suono / Arrestar d’augelli il volo / E fermar di belve il pié” (Dalla Cantata per soprano e basso continuo Hendel, non può mia Musa. Testo del cardinale e librettista Benedetto Pamphilij, musica di Georg Friedrick Handel). Il mito di Orfeo ha ispirato artisti d’ogni arte e d’ogni epoca e soprattutto poeti e musicisti, oltre a pittori e scultori, coreografi e registi; si pensi solo a Le sang d’un poète (1930), a Orphée (1949) e a  Le Testament d’Orphée, ou ne me demandez pas pourquoi (1956) di Jean Coctau. In letteratura incontriamo  Orfeo nelle Argonautiche di Apollonio Rodio; nel libro IV delle Georgiche virgiliane e anche nel libro VI dell’ Eneide. Il mito è ampiamente narrato nei libri X e XI delle Metamorfosi di Ovidio e poi nel Medioevo, nel De consolatione philosophiae di Severino Boezio e, via via, con variazioni, nel Filocolo del Boccaccio, nel Trionfo d’amore del Petrarca, mentre il Poliziano, nella Fabula di Orfeo lo riprende nella sua forma originaria. Del 1620 è l’idillio Orfeo di Giovan Battista Marino. A testimoniare la perennità  letteraria  del mito tracio nel Novecento provvedono i Canti orfici (1914) di Dino Campana e i Sonetti a Orfeo (1922) di Rainer Maria Rilke. Ritroviamo Orfeo nei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, nel dialogo “L’inconsolabile”. Il mito orfico viene rivisitato e reinterpretato anche nelle Cosmicomiche  di Italo Calvino, nel racconto fantastico “Il cielo di pietra”.  Ma è nella storia della musica che il citaredo Orfeo, figlio di Calliope (la musa “dalla dolce voce”) e fondatore dell’orfismo, è di casa; basti ricordare, oltre alla Cantata di Handel  sopra citata, il melodramma Orfeo di Claudio Monteverdi (1607); l’opera musicale Orfeo dolente  di Domenico Belli (1616); l’ Orfeo ed Euridice di Gluck (1762); L’anima del filosofo ossia Orfeo ed Euridice di Franz Joeph Haydn (1791); l’operetta Orfeo all’inferno di Jacques Offenbach (1858); il balletto Orpheus di Igor Stravinskij (1947); e in ultimo, ma non l’ultimo, l’ Orfeo a Fumetti di Filippo del Corno (2001). Nelle arti figurative il mito di Orfeo viene rappresentato fin dal V secolo a. C in un bassorilievo fidiaco e in alcuni vasi e “crateri” (coppe) in ceramica dipinta. Il tema sarà ripreso dal Tintoretto, da Rubens; da Nicolas Poussin e, appunto, da Gustave Moreau (Parigi, 6 aprile 1826 – Parigi, 18 aprile 1898). L’artista parigino, ispiratore della corrente simbolista della pittura francese, la cui poetica era in netto contrasto non solo con quella realista o naturalista, ma anche con quella degli impressionisti, interpreta scene e figure mitologiche collocandole in uno spazio  e in un tempo completamente inventati, quasi si trattasse di apparizioni miracolose o di sogni tra estetismo decadente ed erotismo onirico. Sintomatico, sotto questo aspetto, è il dipinto Edipo e la sfinge (1864).

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L’ Orfeo (il cui titolo completo è Ragazza tracia con la testa di Orfeo ) viene realizzato nell’anno successivo; in questa opera Moreau reinterpreta il mito orfico con l’aggiunta di una vicenda successiva alla morte di Orfeo, fatto letteralmente a brani (secondo il rito dionisiaco dello “sparagmos” consistente nel dilaniare a mani nude un animale o una vittima umana per poi mangiarne le carni crude in onore del dio, che fu a sua volta dilaniato da bambino per poi rinascere e salire in cielo accanto a Zeus) dalle Menadi infuriate per il rifiuto delle loro profferte amorose da parte del vedovo e sconsolato Orfeo, rimasto fedele alla sua Euridice anche dopo la sua perdita definitiva. Sennonché i pezzi del corpo di Orfeo, gettati dalle Menadi ebbre nelle acque del fiume Ebro insieme alla sua favolosa  lyra , non andarono del tutto disperse, tanto che la testa di Orfeo continuò a galleggiare come la lyra che, da parte sua, come canta Ovidio, “flebile si lamenta, la lingua esanime mormora un flebile lamento, le rive flebili rispondono”. Come dire che non basta fare a pezzi il corpo di un poeta per uccidere anche la sua poesia (mi viene in mente per analogia la sorte toccata al poeta Pier Paolo Pasolini). E qui finisce il racconto di Ovidio. Moreau immagina che i pezzi del corpo smembrato dalle Menadi vengano scorti da una ragazza tracia, la quale, mossa a pietà, raccolse la testa del poeta e la depose sulla sua lyra. E qui scatta l’originale intuizione poetica del pittore che pone in relazione lo sguardo pietoso e triste  della ragazza viva con quello ormai morto che tuttavia sembra corrisponderle misticamente. La scena si svolge in un paesaggio di fantasia che richiama certi sfondi fluviali leonardeschi a testimoniare l’amore di Moreau per l’arte italiana del Rinascimento, così come il volto di Orfeo modellato su quello dello  Schiavo morente di Michelangelo   conservato al Louvre. Il significato di fondo di questo dipinto è quello già accennato dell’immortalità dell’arte in generale e della poesia e della musica in particolare; ne fanno fede oltre alla lyra salvata dalle acque, la corona di alloro che cinge la testa di Orfeo, la tre figurette musicanti in cima al roccione contro il quale si stagliano le figure della fanciulla leggiadramente vestita e la testa incoronata di Orfeo e anche le due tartarughe che si scorgono nell’angolo in basso sulla destra per chi guarda. Dal guscio di una tartaruga, infatti, Hermes ricavò lo strumento musicale della lyra, cara ad Apollo e a Orfeo. Nell’insieme, questo dipinto, pur  trattando di morte e di amore perduto, riesce a infondere in chi lo contempla un senso di dolce malinconia che sembra preludere a un più sereno dì.

Fulvio Sguerso

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3 thoughts on “LETTURA DI UN’IMMAGINE: Orfeo Di Gustave Moreau, olio su tavola (1865)”

  1. Grazie Fulvio, anche perché so che non fai complimenti (come del resto nemmeno io). A presto, caro amico!

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