La vergognosa assenza di una legge sul fine-vita
Con le ultime forze a disposizione, l’attrice e regista Sibilla Barbieri ha postato un video in cui parla della sua condizione di malata terminale schiacciata da dolori insopportabili. Ma in cui soprattutto denuncia l’accidia e il cinismo dello Stato, da tanti e da tanto tempo invano sollecitato a promulgare una legge sul fine-vita, affinché quest’ultimo sia normato e non vi siano più discriminazioni e, peggio, discriminazioni nelle discriminazioni.
Infatti paradossalmente lei ammette di essere una “privilegiata” rispetto a chi, stremato dalla malattia e privo di ogni prospettiva di guarigione o di sollievo dal dolore, non essendogli in Italia permesso in alcun modo il suicidio assistito, viene privato della libertà di mettere fine alla sua esistenza. Perché, a differenza di Sibilla, un altro nelle sue condizioni psicofisiche ma senza disponibilità finanziaria e senza delle persone che rischino 12 anni di carcere per il reato di rendersi disponibili ad accompagnarlo, non può permettersi di andare come ha fatto lei in una clinica svizzera dove il suicidio medicalmente assistito è consentito. Come altro definire tutto ciò se non una doppia discriminazione?
Il vuoto legislativo al riguardo è gravissimo, essendo automatico dedurne che i meno abbienti sono destinati a sentire perpetrato sulla propria pelle e dentro il proprio corpo l’atroce progredire del dolore, e l’incubo di un domani che lo replicherà o, se possibile, ulteriormente lo acuirà.
Qual è la ragione di una omissione così perdurante e palese?
Tanti sono i fattori coinvolti, ma quello di ordine religioso con inevitabili riverberi sulla decisionalità politica e sulla ricaduta elettorale, è senz’altro preponderante, perché non prevede nessuna deroga e nessuna eccezione, neanche per casi particolarissimi. Lo si può spiegare con una frase ricorrente, determinante e sostanziale in quanto avallata dalla Chiesa medesima. Frase che si può trovare, per esempio, nella lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede “Samaritanus bonus sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita” approvata dal Sommo Pontefice Francesco in data 25 giugno 2020, il quale ne ha anche ordinato la pubblicazione.
Lì, direttamente nel titolo del III capitolo, la frase enuncia che: “la vita umana è un dono sacro e inviolabile”.Locuzione di impatto, non c’è dubbio, e che sulle prime può creare condivisione e consenso, ma che è invalidata alla radice dal fatto che risulta un postulato contraddittorio: se infatti la vita umana è un dono, per quale motivo bisogna renderne conto, come nel corpo della stessa lettera si sostiene?
Un dono per definizione è assoluto, completo.
Non posso donare e porre condizioni. Altrimenti è un prestito, non un dono; il quale ultimo implica che non c’è obbligo di restituzione.
Quindi se ci si vuole pronunciare coerentemente sui limiti etici dell’accettabilità del dolore, e tralasciando la questione se quella della Chiesa sia o meno un’interferenza quando vuole stabilire per altri la sopportabilità della sofferenza, bisognerebbe quantomeno evitare ambiguità linguistiche, anche a costo di rinunciare a un termine come dono, con tutta l’aura di positività e amore che la parola evoca.
Invece se lo si riconosce come un prestito ( che, sempre per definizione, deve essere richiesto e si è tenuti prima o poi a restituire ), quanto la Chiesa afferma è corretto. Ma deve essere un prestito, appunto.
L’eventuale prossimo documento sul fine-vita della Congregazione per la Dottrina della Fede verrà definito così, o resterà ancora nella ( voluta? ) ambiguità del dono d’amore?