Il tramonto del Parlamento e l’ascesa dell’esecutivo

In una repubblica parlamentare il popolo elegge i suoi rappresentanti, questi riuniti nel Parlamento eleggono il Presidente della Repubblica e accordano o revocano la fiducia al Governo, nominato dal Presidente della Repubblica.

Con una legge elettorale proporzionale e un parlamento numeroso, quest’ultimo rispecchia abbastanza fedelmente la società nazionale che lo esprime. Tale è stato il Parlamento italiano dal 1948 al 1994.

La collocazione geopolitica dell’Italia, escludendo il PCI dal Governo, non consentiva l’alternanza tra gli schieramenti politici e faceva sì che la competizione all’interno della coalizione di Governo (il pentapartito) fosse quantomai forte. Il parlamentarismo, tuttavia permetteva al PCI di inserirsi nel processo decisionale a livello legislativo e quindi di essere integrato nel sistema, ancorché escluso dall’esecutivo.

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Una rappresentanza delle parti sociali tanto ampia e articolata determinava una frammentazione delle forze politiche tale da rendere complicata la continuità del sostegno agli esecutivi. Per questo motivo alcuni Stati adottano forme di parlamentarismo “razionalizzato”, vale a dire sistemi in cui il governo viene stabilizzato con opportuni meccanismi “razionali”. Ne è esempio la Germania dove, con il sistema elettorale corretto da soglie di sbarramento, il cancellierato e la sfiducia costruttiva, gli esecutivi godono di saldezza e lunga durata. Non è il caso di addentrarci in analisi comparative, basta dire che in Italia fin dagli anni Novanta si decise di abbandonare la proporzionale pura con la conseguenza di indurre le forze politicamente vicine a coalizzarsi in schieramenti elettorali. A partire da quella temperie, con il crollo del blocco comunista, la trasformazione del PCI e il cosiddetto “sdoganamento” della destra post-fascista, tutte le forze politiche furono ammesse alla possibilità governare. Fin dal 18 e 19 aprile 1993, date in cui l’Italia si espresse con referendum a favore del maggioritario uninominale, si è intrapreso il lungo percorso di trasformazione del sistema elettorale che giunge fino all’approvazione del “rosatellum”. Il “Sì” alla riforma elettorale ottenne l’82,74%, ma poiché la modifica riguardava soltanto il Senato fu necessario armonizzare la legge di suffragio per i due rami del Parlamento: il 4 agosto 1993 Oscar Luigi Scalfaro promulgò il “Mattarellum” (fortunato e beffardo nomignolo coniato dal politologo Giovanni Sartori). Il 27 marzo 1994, con questa legge fu eletto il Parlamento della XII legislatura.

Dal Mattarellum in poi il Parlamento ha approvato diverse leggi di suffragio, tutte regolarmente corredate di premi di maggioranza, percentuali di sbarramento e quote maggioritarie. Non deve sfuggire che le leggi elettorali varate in sequenza, sono state sempre approvate a “colpi di maggioranza”. Tali sono state il “porcellum” e l’”italicum” e tale è l’attuale “rosatellum” che ha fruttato alla coalizione vincente il 58-59% dei seggi parlamentari a fronte del 44% dei suffragi a proprio favore. Si noti che si è verificata l’eterogenesi dei fini sia con il “rosatellum” (escogitato dal centrosinistra), sia con il “porcellum” (voluto dal centrodestra) che nel 2006 portò alla vittoria Romano Prodi.

La recente riduzione del numero dei parlamentari ha ulteriormente compresso le possibilità per le compagini sociali minoritarie di essere rappresentate nelle Camere ed oggi il Governo in carica gode di un appoggio parlamentare certo ed ampio. Se nella prima repubblica gli esecutivi erano sotto il controllo parlamentare oggi è evidente che tale rapporto si è invertito giacché ormai l’iniziativa legislativa è esclusivamente di parte governativa tra decretazione d’urgenza, disegni di legge (perfino costituzionali), deleghe a legiferare e questioni di fiducia, mentre il Parlamento si limita ad approvare.

Il presidenzialismo è un sistema istituzionale in cui gli elettori eleggono il Capo dello Stato. Negli Stati Uniti il potere esecutivo appartiene al Presidente della Repubblica ed è ben separato e distinto dal legislativo in un bilanciamento di pesi e contrappesi finalizzato a evitare le concentrazioni del potere.

Giorgia Meloni ha annunciato una riforma della costituzione che ci porterà al “premierato”, cioè ad un sistema inedito in cui il popolo eleggerà direttamente il Presidente del Consiglio. La strada imboccata dal Governo non porterà, dunque, al presidenzialismo, ma all’opposto la carica del Presidente della Repubblica dovrebbe uscirne assai ridimensionata e vediamo perché: la maggioranza determinata dal voto con ogni probabilità non sarà che relativa, ma sarà trasformata in assoluta per legge costituzionale. La coalizione maggiore avrà almeno il 55% dei seggi parlamentari o più in caso di risultati elettorali migliori. A questo punto il potere di nominare il Governo da parte del Capo dello Stato non sarebbe più un potere: quella del Presidente della Repubblica sarebbe esattamente una ratifica obbligata dell’esito del suffragio. Infatti, secondo l’ipotesi presentata dal Governo, si voterà per il “premier” e per le liste a lei/lui collegate al Senato e alla Camera in scheda unica. Il Presidente della Repubblica non farà altro che prenderne atto e nominare conseguentemente. Il voto di fiducia, inoltre, diverrà del tutto inutile perché la maggioranza parlamentare sarà chiaramente al servizio del Governo. Le Camere si trasformeranno in assemblee di approvazione certa delle decisioni governative, popolate da minoranze esigue e poco incisive.

Con una quota certa del 55% per disposizione costituzionale (ma oggi con il “rosatellum” siamo oltre il 58%) dalla quarta votazione ci sarebbe la maggioranza per eleggere il Capo dello Stato, basterebbero 4 delegati regionali: 200 + 400 + 58 + 5 (senatori a vita) = 663, la maggioranza assoluta è 332, il 55% di 600 è 330, i Presidenti di Camera e Senato non votano, quindi 330 – 2 (Presidenti delle Camere) = 328. Ne mancano 4 per fare 332. Si troveranno n. 4 delegati regionali di maggioranza? Ovviamente sì: attualmente il centrodestra amministra 14 Regioni e Una Provincia Autonoma (Trento).

Per quanto riguarda le altre Votazioni del Parlamento in seduta comune le cose dovrebbero stare così: numero totale 605; la maggioranza avrà almeno 220 – 1 (Presidente) + 110 – 1 (Presidente) = 328

  1. nomina di cinque giudici della Consulta a maggioranza dei 2/3, ma dal quarto scrutinio a maggioranza dei 3/5, che equivale a 363 voti, ne mancherebbero 35;
  2. nomina dei membri laici del Consiglio Superiore della Magistratura (dieci su trentatré). A maggioranza dei 3/5 (come sopra); dal terzo scrutino maggioranza dei 3/5 dei votanti.

Con un buon risultato elettorale e qualche concessione a forze di “opposizione” collaborative non dovrebbe essere difficile “fare il pieno” o quasi delle cariche. Il Presidente della Repubblica nomina cinque giudici della Corte costituzionale. Quindi andrebbero alla Consulta una decina di componenti (su 15) graditi alle forze di Governo.

Anche le nomine Rai sono sotto il controllo della maggioranza di Governo, per disposizione della Legge 220 del 2015, secondo cui il Consiglio di Amministrazione è composto da sette membri di cui due sono nominati dalla Camera, due dal Senato, due dal Governo stesso e uno dall’assemblea dei dipendenti.

La maggioranza che uscirà dalle urne probabilmente sarà relativa quanto a numero di voti (quella attuale ha raccolto il 44% dei suffragi): che cosa accadrebbe se le preferenze degli elettori si distribuissero su quattro coalizioni del 25% ciascuna? Quella che ottenesse un voto più delle altre andrebbe al governo con il 55% dei senatori e dei deputati a sostenerla? La maggioranza dilatata fino a oltre il doppio e le opposizioni ciascuna meno che dimezzata? Si tratta di un’ipotesi non molto realistica però rende bene l’idea di quella che sarà la compressione che le opposizioni stanno rischiando. In realtà un sistema del genere dovrebbe spingere verso la formazione di raggruppamenti elettorali, quanto coesi o litigiosi al loro interno una volta eletti possiamo già immaginarlo.

La litigiosità delle coalizioni è un dato storico acquisito, cosicché in alcune circostanze si è resa necessaria l’azione regolatrice del Presidente della Repubblica, finalizzata a nominare un Esecutivo in grado di raccogliere la fiducia parlamentare. In particolare, nella XII legislatura il governo Dini ottenne la fiducia con 302 voti favorevoli, 39 contrari e 270 astenuti alla Camera e 191 voti favorevoli, 17 contrari e 2 astenuti al Senato. Fu il Governo “del ribaltone”, secondo le parole di Silvio Berlusconi che argomentava di essere stato eletto dal Popolo alla carica di Presidente del Consiglio. Il fatto decisivo fu l’uscita della Lega Nord dal primo Governo Berlusconi per accordare la fiducia a Dini insieme al Centrosinistra. Fu una dinamica del tutto parlamentare, contestata energicamente dall’imprenditore milanese che sosteneva di essere stato designato dal Popolo alla guida del Governo, mentre il Presidente Scalfaro, fedele al dettato costituzionale, si mantenne sul binario parlamentare. Berlusconi, quindi, fu disarcionato dal partito di Umberto Bossi, non dal Capo dello Stato. Oggi, dunque, i nostri “accorti” revisori costituzionali inseriscono la norma “anti-ribaltone”, tutti uniti sotto il gonfalone del “basta con i governi tecnici”. In caso di dimissioni del Primo Ministro il Capo dello Stato potrà conferire l’incarico soltanto allo stesso premier o a un membro della maggioranza uscita vincitrice dalle urne al fine di proseguirne l’azione programmata (è questo un potere?). Tutto ciò è integralmente in linea con la convinzione di molti italiani (tra i quali predominava Silvio Berlusconi), secondo cui votiamo per eleggere un Governo e forse ancor più per eleggere un capo del Governo. Non a caso dal 2001 in avanti, i simboli elettorali hanno spesso portato il nome del candidato alla Presidenza del Consiglio, primo fra tutti “Berlusconi Presidente”: a questo si può obiettare che in realtà il potere di nomina del Capo dello Stato è rimasto effettivo.

Nondimeno, ogniqualvolta un Presidente della Repubblica sia stato costretto (bisogna sottolinearlo) ad agire per trovare una maggioranza parlamentare alternativa a quella uscita dal voto, si sono alzate proteste, rivendicazioni, accuse di ribaltoni, di tradimenti della volontà popolare e così via. Al Presidente Napolitano, per esempio, fu “appioppato” l’appellativo di “re Giorgio”, per aver voluto e quindi nominato il Governo Monti. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che Giorgio Napolitano non era solo (come se si fosse trattato del Re Sole) e che lo stesso Esecutivo ricevette la fiducia con percentuali mai viste prima: al Senato 281 voti favorevoli, 25 contrari e nessun astenuto e alla Camera dei deputati 556 voti favorevoli, 61 contrari e nessun astenuto. Del resto, il Governo Monti era nato perché nessun politico voleva assumersi l’onere di compiere certe dolorose scelte e fu molto comodo, per costoro, scaricarne la responsabilità sul professore lombardo. A motivo di tanto, ci sarebbe da essere cauti sul “basta con i governi tecnici”.

Se questa riforma costituzionale sarà realizzata, in futuro nessun Presidente della Repubblica sarà mai più chiamato a risolvere una crisi di governo. Già oggi con un Parlamento rimpicciolito e una solida base tra deputati e senatori il Governo Meloni sembra essere stabile, tanto da avere i numeri per modificare la Costituzione in modo da immaginarsi ancora più stabile attraverso il “premierato”. Il numero per la riforma della Carta senza sottoposizione a referendum costituzionale non c’è, ma con l’appoggio dei renziani (già annunciato) non sarà poi così distante: basterebbero una ulteriore ventina di deputati e quindicina di senatori, sarà difficile trovarli?

Rischiamo una concentrazione di potere eccezionale per un Paese occidentale: Esecutivo, Legislativo, Presidente della Repubblica, 10 Giudici della Consulta, 10 Membri laici del CSM e almeno 6 componenti su 7 del Consiglio d’Amministrazione della Rai, tutti graditi alla coalizione di Governo. A questo si aggiungano le TV private e l’editoria filogovernative. Se poi il premier avrà, come sembra, anche il potere di fatto di sciogliere le Camere, l’assoggettamento del Parlamento all’Esecutivo sarà completo. Ma non basta: la permanenza in carica di ciascun ministro dipenderà dal volere del primo ministro. Se questo diverrà realtà dove saranno i contrappesi?

Le costituzioni sono nate per limitare il potere non per concentrarlo nell’esecutivo. Se questa riforma venisse approvata si spera nella sua bocciatura attraverso referendum costituzionale, come già accadde nel 2006 e nel 2016. Oggi il Governo ha un saldo sostegno Parlamentare e predomina sulle Camere stesse per effetto congiunto della legge elettorale e della riduzione del numero dei deputati e dei senatori. Non abbiamo nessun bisogno di concentrare ulteriormente il potere nell’esecutivo.

La formazione politica a cui mi onoro di appartenere, Democrazia Solidale – Demos, è un partito di recente formazione di area cristiano sociale che promuove lo stare insieme, la riflessione sullo stare insieme e sulle sue regole, integrando le parti più deboli della società perché possano emergere e sviluppare le proprie capacità e benessere.

Il tema trattato, in questo senso, è d’importanza fondamentale: le riforme costituzionali riguardano tutti e non devono essere fatte a maggioranza, ma devono essere sostenute dall’ampio consenso delle parti.

Savona, 5 novembre 2023

Fabio Tanghetti Democrazia Solidale, Demos  Liguria   

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