La catastrofe dell’esplosione demografica. Perché è cessata ogni politica di contenimento delle nascite

La morte è insieme una possibilità che ci ronza intorno per tutta la vita e l’unico evento certo della nostra esistenza. E tuttavia non cessa di stupirci e di lasciarci sbigottiti, storditi, disorientati quando cala in mezzo a noi, scompaginando i nostri affetti, le nostre frequentazioni, le nostre conoscenze, il nostro orizzonte. Capita ora con Berlusconi e, passato lo stupore, si assiste alla postuma caduta del velo che per decenni ne ha nascosto la vera dimensione storica e alla fine del tentativo di ridurlo a macchietta, inchieste giudiziarie, “cene eleganti” e gioco del calcio. I compagni, che per non esserne schiacciati hanno dovuto continuare ad azzannarlo fino a perdere denti e identità e distruggere oltre se stessi tutta la politica italiana, ora sono impegnati in riti purificatori e tardivi riconoscimenti; i suoi sodali e beneficiati sono dal canto loro finalmente liberi di gridarne appieno la statura intellettuale, politica e, aggiungo con forza, etica senza il timore reverenziale verso l’intellighenzia pronta ad accusarli di piaggeria e servilismo.

Qualche cane rabbioso rimane al riparo dell’anonimato onanistico della rete, negli antri più scuri di un sinistrame senza tempo o nell’umorismo sordido delle vignette che riflettono l’odio infantile del direttore del Fatto, che dovrebbe decidersi a fare una chiacchierata con un bravo psicoterapeuta. Si è chiuso, come nel 1945, un capitolo importante della nostra storia: negli ultimi cento anni il Paese ha espresso due personalità eccezionali, il Duce e il Cavaliere; ne stiamo pagando il conto alla Storia con la masnada di nani (quelli sì) stupidi, incapaci e corrotti che l’hanno preso nelle loro mani. Corsi e ricorsi, per dirla con Vico. Detto questo mi considero fortunato di non fare per mestiere l’opinionista o il pennivendolo e dover così contribuire ad alimentare il fiume di ipocrisia che sta cominciando a ingrossarsi. Ci saranno altre occasioni per parlare della personalità di Berlusconi e della sua azione di governo (e magari, senza pregiudizi, anche di quelle di Mussolini). Al momento mi preme invece tornare su un argomento che mi è caro: esplosione demografica e disastro ambientale.
Il contenimento delle nascite, non solo nel terzo mondo ma anche nei paesi più sviluppati, è stato per un lungo periodo un obbiettivo perseguito con una massiccia promozione di anticoncezionali e una politica di tolleranza nei confronti delle interruzioni di gravidanza. In natura ogni sistema tende al mantenimento dell’equilibrio: è così nel rapporto fra prede e predatori, fra risorse naturali ed esigenze alimentari; un equilibrio che nel caso dell’uomo è reso più complesso dall’intervento di variabili indipendenti quali il controllo delle risorse o la loro dilatazione grazie a lavoro e tecnologia.

Nella società contadina i figli sono una ricchezza, sono braccia per i campi, salvo poi diventare un problema in periodi di crisi, come accadde in Italia sullo scorcio del diciannovesimo secolo. Le popolazioni meno capaci di intervenire sulla natura tendono a spostarsi verso le aree culturalmente più evolute: fra terzo e quarto secolo una crisi alimentare seguita probabilmente ad uno sconvolgimento climatico spinse le popolazioni mongoliche verso est facendo riversare sulle terre dell’impero romano le tribù germaniche; secoli prima era successo lo stesso ad opera delle orde fameliche di nomadi delle montagne ai danni delle civiltà irrigate dai grandi fiumi. Oggi non ci sono barriere che tengano di fronte alla marea dei latinos sulle frontiere americane e, per quel che riguarda l’Europa, è una fortuna che, almeno per ora, l’Africa risucchi nel suo enorme ventre centinaia di milioni di bocche da sfamare. Non c’è, infatti, nessun fenomeno epocale dietro il susseguirsi degli sbarchi sulle nostre coste: viene sbandierato come tale per coprire complicità, interessi e sporchi affari di un immigrazione illegale organizzata all’interno di un circuito affaristico e politico fra le due sponde del mediterraneo; non c’è ora, ma se il trend di crescita demografica dovesse proseguire da qui a qualche decina d’anni ci sarà davvero e dio sa come potrà essere fronteggiato.

Durante il ventennio mussoliniano prevaleva l’idea che la ricchezza delle nazioni e la loro potenza militare coincidesse col numero degli abitanti, non più braccia per i campi ma carne da cannone: che il numero sia segno e garanzia di forza e di ricchezza è un pregiudizio privo di fondamento che sopravvive anche oggi e fa il paio con quello nazista che puntava sulle dimensioni territoriali, lo “spazio vitale”. In realtà l’aumento dell’aspettativa di vita, la piena soddisfazione dei bisogni primari, il ritorno su vasta scala dell’otium caro alla civiltà classica, la voglia di autorealizzazione nel tempo libero, la stessa fruizione dell’ambiente impongono una drastica diminuzione della popolazione, che si può realizzare solo se per un congruo lasso di tempo il numero dei nati sarà inferiore a quello dei morti. Un’ovvietà che però urta contro i luoghi comuni imposti dal pensiero dominante, dai dissennati che si stracciano le vesti e profetizzano sciagure se la popolazione italiana invecchia e comincia a contrarsi. I teorici del formicaio non muovono un dito per scoraggiare o impedire il pazzesco tasso di natalità in Africa in Asia e in America latina, dove, come nell’Europa medioevale, fino a un secolo fa aveva una senso che una donna partorisse dieci figli quando ne sopravvivevano tre e quei tre erano indispensabili per la sopravvivenza della comunità; ma ora, con l’abbattimento della mortalità infantile, le continue gravidanze sono una bomba sociale.

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In vaste aree del pianeta il rapporto fra l’uomo e la natura si è profondamente alterato con ripercussioni sconvolgenti. Intendiamoci: si potrebbe anche decidere di distruggere tutta la fauna selvatica non commestibile per far posto all’uomo, alle colture e alle attività industriali se non fosse che l’antropizzazione incontrollata è un disastro irreversibile per l’ambiente peggio della peggiore fonte di inquinamento; e gli ecologisti che puntano il dito contro le emissioni di co2 o sul riscaldamento globale non vedono oltre il loro naso: se, per fare un esempio drammatico, la foresta amazzonica è a rischio non è per colpa di una decina di uomini cattivi amici di Bolsonaro ma per la necessità di nuove terre coltivabili e spazi per nuovi insediamenti. E le foreste, su piccola e grande scala, sono i polmoni e il termostato del pianeta: il miglior modo per abbassare di una paio di gradi la temperatura rimane quello di far crescere verso l’alto e non a macchia d’olio le città, contenere l’urbanizzazione e provvedere a un vero e serio rimboschimento, non a piantare alberelli nei giardini pubblici (che comunque è utile, se non altro pedagogicamente).
Bene; almeno fino agli anni Ottanta dello scorso secolo c’era un accordo pressoché unanime, con qualche resistenza del Vaticano (e la comprensibile ostilità del mondo islamico), sulla necessità di bloccare quella che sembrava un’imminente esplosione demografica (che di lì a poco si sarebbe verificata). Il biblico “Crescete e moltiplicatevi” faceva paura e l’incubo del formicaio favorì una decisiva evoluzione del costume e un diverso atteggiamento verso la donna e verso la coppia. Si venne affermando l’idea della maternità come libera scelta e non come dovere sociale, si accantonarono i pregiudizi nei confronti della donna senza figli o della coppia sterile e nella formazione della coppia si impose il primato dell’amore sul ruolo di allevatori. Il tema non è ideologico ma pragmatico e rinvia a considerazioni sulla reale necessità di manodopera, di studenti, di laureati, sull’equilibrio fra produzione e consumi, sui rifiuti, gli spostamenti, l’uso e l’abuso del territorio e il benessere individuale e collettivo. Fatto salvo il sacrosanto rispetto della libertà e delle scelte individuali non ci dovrebbe essere spazio per riferimenti valoriali o etici. Se, infatti, c’e sicuramente la necessità e il dovere morale per ciascun individuo di partecipare attivamente e consapevolmente alla vita della compagine nazionale non c’è alcuna necessità che tutti contribuiscano alla riproduzione e meno la politica si immischia in questa materia meglio è: il sistema è dotato di una propria omeostasi e un intervento si giustifica solo nel caso che una sua disfunzione comporti il rischio di un collasso. In paesi come il Messico, l’India, il Pakistan o la Nigeria si è ben lontani dalla realizzazione di un equilibrio anche a causa del brusco passaggio da condizioni di marginalità e abissale arretratezza all’adozione di modelli e stili di vita di culture più evolute. Se si dovesse aspettare che in questi paesi maturi un atteggiamento verso la natalità in linea con i nuovi modelli culturali la catastrofe umanitaria sarebbe inevitabile. Bisogna allora che in tutti i modi possibili si imponga il controllo delle nascite nei paesi che presentano un eccesso di natalità e che per coerenza si rintuzzino le voci di quanti, anche in Italia, suggeriscono due strade che portano entrambe verso l’abisso: quella di chi vorrebbe riempire la pancia dell’Europa col surplus dei produttori di prole e quella di chi vorrebbe gonfiare dall’interno il ventre dell’Europa per farne una barriera contro la pressione esterna. La terza via è l’unica giusta: mirare drasticamente ad un dimezzamento della popolazione mondiale diffondendo insieme col benessere la denatalità. Si può fare rivendicando l’uguaglianza di genere, il lavoro e la carriera femminili, la liberazione della donna dall’ethos familiare, l’incoraggiamento della sessualità non finalizzata al concepimento ma alla soddisfazione personale, l’esaltazione dello status della donna indipendente che vive da sola. L’obbiettivo è un pianeta più sano, con le megalopoli svuotate e maggiore garanzia di dignità e benessere per i singoli individui.

Ma come la mettiamo con i consumi? è qui che, come si dice, casca l’asino perché la contrazione della popolazione interrompe la spirale perversa produzione consumi, impone nuovi modelli economici e terrorizza il capitale industriale e finanziario, un mostro che se non cresce muore. Il capitalismo nella sua versione attuale non mira alla diffusione del benessere ma alla dilatazione dei consumi e il modo più diretto per ottenerla è il continuo aumento del numero dei consumatori, accompagnato, almeno in questa fase congiunturale, dall’aumento della manodopera. Un dettaglio, questo, che contrasta con altre direttrici dell’evoluzione industriale, scientifica e tecnologica, orientati dalla stella polare dell’Intelligenza Artificiale e di una robotica di nuova generazione capace di auto programmarsi. È la direttrice evocata fantasiosamente da Grillo al tempo della sua rumorosa partecipazione alla vita politica, col recupero del motto “lavorare meno lavorare tutti” con quel “meno” estremizzato fino a fare del lavoro una libera scelta di volontari perché la macchine ripropongono mutatis mutandis un’economia schiavistica. Ma tutto questo è futuro remoto e forse chimera: oggi il produttore agricolo e su su per li rami il grande capitale hanno bisogno, eccome, di braccia, più di braccia che di cervelli checché se ne dica; e allora porte aperte all’Africa sub sahariana, al Pakistan, al Bangladesh e a tutti i produttori di carne umana: così intanto si tappano i buchi anche solo stagionali e in prospettiva per il gioco della domanda e dell’offerta il valore del lavoro crolla e se una cosa perde valore viene pagata meno, per quanto i sindacati possano starnazzare.
Pierfranco Lisorini

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