Israele: la testa(ta) sotto la sabbia.
Mordechai Vanunu, nato nel 1954 a Marrakech, in Marocco, è di origine ebraica e si trasferisce in Israele nel 1963.
Dopo i trent’anni si avvicina sempre più all’anglicanesimo, finché non si converte, provocando in patria scandalo e biasimo. Viene tacciato di “instabilità psichica”.
Elemento, questo, non secondario della limitazione alla libertà personale che ancora sta subendo.
E’ un ingegnere. Viene assunto come tecnico specializzato per lavorare alla costruzione di un reattore nucleare che avrebbe dovuto alimentare un impianto di desalinizzazione.
Tuttavia quando capisce che in realtà il vero fine è costruire armi nucleari, vede come ciò non può conciliarsi con un mondo che rotolerebbe prima o poi verso altre Hiroshima.
Decide perciò di far conoscere all’opinione pubblica come Dimona sia tutt’altro che una tranquilla cittadina del deserto del Negev, perché nel suo sottosuolo si costruiscono armi che possono scatenare l’inferno.
Sa il rischio che corre, ma non si sottrae.
Nel 1986 si accorda con il “Sunday Times” per un’intervista a Londra in cui svela che Israele possiede almeno 100 testate nucleari e che sta operando per costruire bombe all’idrogeno.
Il Mossad, che già cominciava a nutrire dei sospetti nei suoi confronti, appena si accorge che sono fondati, si attiva. Ma è troppo tardi.
Corredata da foto inequivocabili portate come prove, l’intervista-bomba ( nomen omen!… ) viene infatti rilasciata.
La richiesta del Mossad alla premier inglese Margareth Thatcher affinché Vanunu gli venga consegnato ottiene esito negativo. Sarebbe stato, in quanto illegale, un atto molto imbarazzante davanti alla comunità internazionale.
Con l’Italia va meglio.
Vanunu infatti viene, secondo i canoni più classici della spy-story, prima avvicinato e poi irretito in un’avventura galante da Cindy, una agente segreta israeliana che lo convince a fare tappa a Roma.
Tuttavia quando egli giunge nell’appartamento della capitale preso in affitto da Cindy, non trova la ragazza ma tre sconosciuti da cui viene immobilizzato, narcotizzato e rapito; quindi portato in modo rocambolesco ( parte del viaggio la fa chiuso in una valigia ), da Roma a Pisa, da Pisa a La Spezia e da lì, imbarcato sulla nave “Ins Noga”, in Israele.
La vicenda che viene a conoscenza dalle autorità italiane solo ( ufficialmente ) a cose fatte, finisce inevitabilmente nelle aule dei tribunali, e comunque non crea particolari problemi al Governo; anche perché secondo le conclusioni del giudice Domenico Sica della Procura di Roma, Vanunu durante il rapimento è stato collaborativo ( insomma, si è autorapito ) e ciò viene a esentare l’Italia da qualsiasi obbligo di indagine verso Israele e da qualsiasi collusione.
Insomma, siccome Mordechai Vanunu non trova proprio nessuno che gli dia una mano per poter almeno raccontare la sua versione dei fatti, se la dà da solo: a processo per “alto tradimento” e “spionaggio”, impedito di comunicare con i giornalisti, fuori dall’aula e già seduto sull’auto della polizia, riesce a scrivere sul palmo della mano che è stato rapito a Roma. Preme il palmo sul finestrino e lo mostra ai fotografi, che subito scattano e divulgano.
Ciò avrebbe dovuto inchiodare Israele alle sue responsabilità. Ma non accade: già nel 1986 la protezione americana rende Israele intoccabile.
Così non se ne fa nulla. Il resto è una storia senza storia, perché 18 anni di carcere, di cui 11 in completo isolamento, inflitti in un processo a porte chiuse, non sono altro che la moltiplicazione per 6570 di un unico giorno.
Ancora adesso Mordechai Vanunu, scontata da tempo la sua pena e uscito dal carcere, è costretto a restare in Israele perché gli è negato il passaporto.
Anzi, la sua autonomia è così esigua che non può usare internet, non può parlare con la stampa, non può avvicinarsi a meno di 500 metri da porti ed aeroporti, non può incontrare le persone che vuole, non può scrivere a chi vuole, e ovviamente non può vivere ad Oslo con la moglie, Kristin Joachimsen, sposata nel 2015.
Né potrebbe andare a Stoccolma a ritirare il premio se ancora una volta lo candidassero al Nobel per la Pace, e ne fosse insignito.