“Decreto ergo sum” – Cronache semiserie da un Parlamento a sovranità vigilata

Quando il Parlamento diventa un corridoio d’albergo dove si bussa solo per formalità, è tempo di chiedersi: è la democrazia che accelera, o siamo solo finiti su un tapis roulant governativo
“Decreto ergo sum” – Cronache semiserie da un Parlamento a sovranità vigilata

Tra fiducie preventive, conversioni miracolose e cani da tartufo istituzionali, la politica italiana si scopre sempre più affezionata al concetto di urgenza… permanente.

In un regno non troppo lontano, governato da un popolo sempre più diffidente e da un esecutivo sempre più deciso su tutto, tranne che sull’ascolto, si è instaurato un nuovo principio filosofico-legislativo: “Decreto ergo sum”. Non serve Platone, né San Tommaso. Basta un Consiglio dei ministri, un buon comunicato stampa e un voto di fiducia che – più che ottenere consenso – lo pretende.

Il Parlamento, un tempo culla di dibattiti accesi e di voti incerti, è oggi diventato un salotto muto, dove si passa più tempo a contare i minuti dei 60 giorni di conversione che non le righe di un disegno di legge. E così, mentre l’Italia scopre nuovi modi per fingere di essere partecipata, il Governo procede sereno: 3 decreti legge al mese, come se l’emergenza non fosse un’eccezione, ma la regola aurea del diritto.

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Il più recente “decreto sicurezza” è emblematico: nato come disegno di legge, ma troppo lento, troppo democratico, troppo pieno di discussione. Trasformato allora in decreto legge e blindato da un doppio voto di fiducia, per garantire che non vi fosse nemmeno una virgola di imprevisto. Il Parlamento? Presente. Il dibattito? Assente giustificato.

Ma attenzione, perché in questa tragicommedia istituzionale non mancano i personaggi d’appendice. Ci sono quelli che, pur non avendo voce in capitolo, si improvvisano “segugi” delle opportunità. Segnalano, annusano, suggeriscono alle alte sfere chi potrebbe essere utile alla causa. Ma guai a oltrepassare la soglia di competenza territoriale, pena l’iradiddio procedurale. In certe corti, l’etichetta è legge, e la forma non solo è sostanza: è tutto ciò che resta quando il contenuto evapora.

Nel frattempo, gli atti che passano dalle Camere si distinguono in due categorie:

•⁠ ⁠Leggi vere, che parlano di abiti storici, lagune, manifestazioni sportive, e ratificano trattati con nazioni in via di estinzione diplomatica
•⁠ ⁠Decreti legge, che trattano tutto il resto: PNRR, bollette, sicurezza, cittadinanza. La forma ordinaria per l’ordinario, l’emergenza per tutto ciò che scotta.

Il Parlamento, dunque, è ridotto a convertitore automatico. Come un vecchio fax che riceve ordini e li timbra. Le Commissioni? Residui poetici. Le opposizioni? Testimoni. Le domande dei cittadini? Devono aspettare che il decreto sia convertito… poi forse se ne parlerà.

In questa Italia legislativamente iperpresidenziale, il vero Parlamento è Palazzo Chigi, e gli eletti restano spettatori silenti, obbligati a fidarsi ogni 10 giorni. Altro che democrazia partecipativa: è una democrazia delegata… alla presidenza del Consiglio.

Alla fine, il cittadino medio guarda la scena e si chiede: “Ma il mio voto dove finisce?”. La risposta è semplice: in un allegato tecnico, allegato a un decreto, che verrà probabilmente convertito con fiducia. Senza che nessuno lo legga.

Postilla finale:
Un tempo erano i re ad avere i decreti. Ora li hanno i governi democratici. Ma almeno i re non chiedevano la fiducia ogni due settimane. La pretendevano e basta.

Antonio Rossello       CENTRO XXV APRILE

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