Le due Americhe

Potere politico e potere economico-finanziario non coincidono anche se sono strettamente connessi. Entrambi sono espressione della società civile e delle sue disuguaglianze.

Il primo ha il suo fondamento nel consenso, che risente delle dinamiche interne alla società e del controllo degli strumenti di comunicazione e di aggregazione, il secondo nella distribuzione della ricchezza e nelle modalità della sua formazione.  In entrambi i casi il potere riflette divisioni e rivalità interne alla società:  gruppi e categorie che difendono privilegi acquisiti grazie alla politica contro altri gruppi e categorie che cercano di scalzarli, classi sociali fondate sull’economia produttiva e altre frutto del sistema di creazione della moneta.  Alla complessità della struttura sociale fa riscontro la complessità dei rapporti fra politica ed economia, che a loro volta sono agitate al loro interno da forze contrastanti.  In politica è la dialettica fra partiti e dentro i singoli partiti, in economia l’intreccio fra capitale imprenditoriale e capitale finanziario, complicato dalla perdita della base aurea (e di qualsiasi base reale) della moneta.

Trump e Biden

Con l’amministrazione Biden il potere politico era strumento di quello economico finanziario nel quale a sua volta il capitale finanziario schiacciava quello imprenditoriale.  L’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha almeno apparentemente rovesciato questi rapporti e ha ristabilito il primato del potere politico su quello economico spostando contemporaneamente la politica verso le rivendicazioni dei gruppi sociali preoccupati per il debordare dell’immigrazione illegale e per la crisi delle aziende manifatturiere americane.  Questo comporta una sensibile modificazione del ruolo degli Stati Uniti sullo scacchiere mondiale: si allenta la tensione fra dollaro e Brics, si ridimensiona il ruolo della Nato e perde di senso l’ostilità nei confronti della Russia . Rimane la rivalità con la Cina ma con contorni più squisitamente commerciali e di concorrenza industriale e non politico-finanziari, che più facilmente si traducono in confronto militare.  Visto dall’Europa il nuovo corso appare come un disimpegno e un riequilibrio che riconosce il peso della Russia a scapito della Cina e rende ininfluente l’Europa: uno spostamento dell’asse geopolitico e uno scenario di stabilità che minaccia l’assetto politico ed economico del vecchio continente-

Musk e Trump

In questa prospettiva si spiegano l’alleanza prima e la relativa rottura dopo fra Musk e Trump.  Musk, al netto del suo utopismo visionario, è espressione dell’economia di mercato, dell’evoluzione tecnologica e del potere finanziario.  Proiettato verso il futuro ne incarna anche le contraddizioni e le ingenuità: economia green, auto elettrica, l’utopia fantascientifica della conquista dello spazio intrecciata con la concreta realtà e il business delle comunicazioni satellitari nella molteplicità delle loro applicazioni.

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Da un lato Trump si è reso conto che la sostituzione dei motori termici è allo stato attuale impossibile e indesiderabile, dall’altro deve aver capito che puntare sulla colonizzazione di Marte è una sciocchezza sia sul piano teorico che su quello pratico: non dico di Marte: senza la scenografia di Kubrick il viaggio di andata e ritorno col nostro satellite rimane una fantasia; figuriamoci una spedizione umana su Marte; un boomerang per la credibilità e la popolarità di Trump se ne avesse fatto un proprio obbiettivo andando incontro a un clamoroso flop.  L’uomo, come tutte le forme di vita che conosciamo, è nato dalla Terra; sul nostro pianeta si è formatala la vita, sul nostro pianeta si estinguerà.  Poi, col pensiero ognuno è libero di andare fino ai limiti dell’universo, di immaginare civiltà nelle più remote galassie, e liberi pseudo scienziati di mandare a giro nello spazio un sasso con un disegno o la formula della teoria della relatività.  Sogni innocui per anime semplici.  La politica è un’altra cosa e sono altre le strade per catturare il consenso e Trump lo sa bene.  Passano anche attraverso l’imposizione di dazi, che è un modo per difendere l’occupazione; sicuramente passano anche attraverso il recupero dello stato sociale, il contrasto all’immigrazione illegale, il rimpatrio di quanti rappresentano un pericolo per la sicurezza.  E Musk , che in primo luogo è l’incarnazione della ricchezza, può essere d’accordo sulle altre ma non sulla prima, perché la ricchezza che incarna è figlia del libero mercato, non del protezionismo.

Insomma su punti irrinunciabili della politica Trump e Musk si sono trovati in rotta di collisione e Trump, smentendo una volta di più gli osservatori europei ha mostrato di nuovo la superiorità della politica, inconcepibile per i nipotini di Marx.

Ma Trump forse rappresenta la voce dell’americano medio, forse gode ancora del consenso di quanti lo hanno votato, forse il suo consenso è addirittura cresciuto anche sull’onda dei disordini in California, ai quali guardano tanto speranzosi quanto disinformati i politici nostrani; ma sicuramente Trump non è l’America; l’America continua ad essere quella delle lobby democratiche, quella che ha in Europa le sue ramificazioni, quella della borsa, quella del dollaro, quella della globalizzazione e soprattutto quella che fonda il benessere e il potere dell’Occidente sulla instabilità e sul controllo del resto del mondo. L’America che ha voluto lo Stato di Israele, che ha fatto fallire con la complicità dell’Europa tutti i tentativi di emancipazione del mondo arabo, che ha tenuto sotto il suo tallone l’America latina e mette in conto una nuova guerra globale per fermare il processo di erosione della sua base finanziaria.  Insomma ci sono almeno due Americhe e non sono semplicemente alternative: in qualunque momento possono tornare a coincidere se la loro distinzione dovesse essere lacerante.

Trump e Putin

Sul rapporto con Putin e la questione ucraina i tempi si possono allungare ma il piano della Nato, dei dem, dell’Europa a trazione anglo-franco-tedesca è fallito; l’altro fronte, quello mediorientale è invece più complesso perché Israele non è l’Ucraina e Netanyahu non può essere scaricato come Zelensky.  Israele, infatti, non è semplicemente un avamposto degli Usa ma è una creatura delle lobby finanziarie ebraiche americane che hanno usato a loro vantaggio l’Olocausto.  Israele inoltre ha un alto valore simbolico presso una parte significativa dell’opinione pubblica americana tradizionalmente liberal che si è spostata dai dem verso il trumpismo repubblicano.  Il rischio è allora che si ripeta la vergogna del 2003 con tutte le balle sull’antrace, sulle “armi di distruzione di massa”, con gli omicidi mirati in puro stile mafioso.  Ora tocca all’Iran con l’ossessivo refrain: è in procinto di dotarsi dell’arma atomica e intenzionato a usarla contro Israele per annientarlo, va fermato con ogni mezzo.  Si continua a ripetere che Israele ha diritto di difendersi quando Israele rappresenta una minaccia per tutti i suoi vicini e in particolare per l’Iran.  Personalmente non ho alcuna simpatia per i regimi che mescolano politica e religione: confesso che provo un certo fastidio anche quando vedo il presidente Usa che giura sulla Bibbia e l’idea stessa di uno Stato ebraico o islamico o cristiano mi fa venire l’orticaria.

zelensky, Trump e Netanyahu

Detto questo ogni popolo, come ogni individuo faccia o pensi quello che vuole purché non noccia e Israele nuoce eccome se pretende di riprendersi una terra che Dio in persona gli avrebbe promesso.  Una pretesa che urta contro i principi elementari del diritto internazionale e che però può contare sull’appoggio americano.  E siccome a mettersi di traverso potrebbe essere la Repubblica islamica, meglio attaccarla prima che si consolidi non tanto il suo apparato militare ma la sua posizione all’interno del Brics.  Oltretutto la vecchia Persia è il terzo produttore di petrolio al mondo e questa circostanza, nonostante tutta la retorica green, la rende appetitosa anche per Trump.  E così si ripete il copione delle democrazie minacciate dalle autocrazie e degli aggressori fatti passare per povere vittime aggredite.  Siamo veramente oltre il grottesco: Israele che si è fatto di soppiatto un arsenale atomico, e c’è da credere che non esiterebbe a usarlo se lo ritenesse utile, giustifica il proditorio attacco a uno Stato sovrano col pretesto di una relazione dell’Aiea il cui contenuto è stato stravolto per provare l’imminente capacità iraniana di costruirne una bomba nucleare. Un falso clamoroso anche sul piano tecnico, come tutti sanno ma nessuno dice; ma anche se la Guida Suprema, che ha già dimostrato una incredibile moderazione davanti alle provocazioni israeliane, potesse contare su un ordigno atomico sarebbe un pazzo a usarlo sapendo che gliene verrebbero addosso cento.

Se Trump fosse coerentemente interprete del ruolo che lui stesso si è attribuito e al quale deve il suo successo elettorale dovrebbe insistere con la responsabilizzazione di Putin avocando a sé e al collega russo il compito di dirimere le tensioni nel medio oriente, lasciando l’’Europa, inaffidabile, bellicista e priva di una visione strategica, fuori della porta.  E se la possibilità che l’Iran – ma non solo l’Iran – si doti di armi nucleari è un problema, questo va affrontato in un’ottica globale che miri alla generale denuclearizzazione, che realisticamente non può che passare sotto il controllo delle due grandi potenze.  Nell’immediato mi pare indispensabile costringere Israele, che violando gli accordi internazionali l’atomica ce l’ha eccome, a smantellare il suo arsenale in cambio di un ombrello protettivo russo-americano.  E non si parli di terrorismo islamista, che non può essere affrontato e stroncato con le bombe, nucleari o convenzionali che siano

Ma le due Americhe coesistono e si combattono anche dentro the Donald, all’interno del suo staff, nel Pentagono e nel Congresso. Qualunque delle due prevalga ci sarà una lacerazione e ci saranno rischi per la tenuta della presidenza. Sulla posizione dell’establishment americano non c’è da illudersi: è la stessa da ottanta anni, ereditata da una guerra che ha partorito l’impero americano e ha fatto dello zio Sam l’interessato gendarme del mondo.

Pierfranco Lisorini

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