Il problema, compagni, è la Santanché

In Francia c’è stato un altro assaggio del caos in cui buona parte dell’Europa, e in primis l’Italia, è destinata a trovarsi in un futuro che si fa sempre più prossimo. Imbrigliati dalla political corretness i nostri opinionisti incolpano governi e istituzioni per la mancata integrazione, insistono sul disagio sociale nelle periferie, maneggiano statistiche per dimostrare che i francesi di origine africana sono meno istruiti, hanno maggiore difficoltà a entrare nel mercato del lavoro, guadagnano meno e fanno lavori più umili. Potrebbero anche aggiungere che delinquono di più e sono ospiti più assidui degli istituti di pena. Qualcuno si spinge a dire che sono vittime predilette di uno Stato vessatore e di una polizia violenta dal grilletto facile. Non è vero, ma non importa, tutto fa brodo e porta acqua al mulino del pensiero unico. Così, come accade per il disagio giovanile, si confondono gli effetti con la causa e si ricorre alle concause secondarie per occultare quelle determinanti, che si palesano solo se si strappa il velo dell’ipocrisia e del conformismo.

L’integrazione è un processo che non si risolve nella disponibilità ad integrare ma richiede la disponibilità ad essere integrato, che i buoni danno per scontata quando scontata non è per nulla.  L’integrazione, dicono, è questione di tempo: di generazione in generazione la pelle – metaforicamente – si schiarisce, culture ed etnie si mescolano, le vecchie diffidenze e la difficile convivenza diventano un brutto ricordo. Non è vero, non è così. Piacerebbe ai buoni che fosse vero ma non lo è, sono altre le variabili che consentono o impediscono integrazione, acculturazione, mescolanza o pacifica convivenza: rinviano alle caratteristiche socioculturali di chi accoglie e di chi deve essere accolto nonché alle modalità e alle motivazioni che hanno portato al contatto.

La percezione della diversità è un formidabile fattore di coesione e se da un lato provoca la marginalizzazione dall’altro aumenta il senso di appartenenza. E questo accade anche senza il concorso di una caratterizzazione culturale e religiosa: è sufficiente l’aspetto fisico. Sono passati quattro secoli dalla tratta dei negri nel nord America e centosessanta anni dall’approvazione del tredicesimo emendamento ma quello della minoranza nera rimane un problema: non c’è stata alcuna commistione, i neri sono rimasti neri e i bianchi bianchi, con trascurabili eccezioni (“Indovina chi viene a cena”, il film interpretato nel 1967 dall’indimenticabile Spencer Tracy, potrebbe essere stato girato ieri). Al contrario di quanto è accaduto in Giamaica dove la maggioranza di origine africana si è integrata con le minoranze ispaniche, asiatiche o europee dando vita a un tipo originale grazie all’assenza di un blocco etnico e culturale preesistente.  Un’assenza che ha consentito la coesistenza di residui religiosi tribali, di adattamenti del cristianesimo, di gruppi yiddish, buddisti, cattolici. Ma Giamaica non è la regola, è semmai l’eccezione favorita dalla comune povertà e da una struttura politico istituzionale fluida. L’etnia e le peculiarità antropologiche sono di per sé un fattore di contrapposizione quando si presentano in forme definite e in contesti strutturati.  Né è semplicemente un rapporto fra maggioranza e minoranze marginalizzate: è piuttosto quello fra chi gode di una posizione di superiorità, che sia o no maggioranza, e chi è costretto in una condizione di subalternità. Andiamolo a raccontare ai buonisti col paraocchi cosa succede in Ruanda o in Kenia fra  Hutu e Tutsi: i conflitti interetnici e la loro razionalizzazione in termini “razzisti” non sono un’esclusiva dell’Occidente.

PUBBLICITA’

Quando si arriva ad una contrapposizione fra gruppi fortemente caratterizzati l’integrazione è pura utopia.  Un’utopia che ha poco a che fare con i temi dell’accettazione della diversità, dell’origine del pregiudizio, della xenofobia o dell’antisemitismo. Fenomeni apparentemente simili ai conflitti interetnici ma sostanzialmente diversi, perlopiù riconducibili all’insicurezza, alla povertà materiale e culturale del gruppo sociale maggioritario preesistente, al bisogno di un capro espiatorio sul quale scaricare il disagio, le frustrazioni e le tensioni interne. I compagni e le élite straccione tentano di portare a questo livello e in questa dimensione i problemi derivanti dall’immigrazione illegale: lo stucchevole ritornello di una “guerra fra poveri” rientra in questo tentativo ed è un modo maldestro per non affrontare precise responsabilità storiche e politiche che gravano sulla sinistra e che l’attuale maggioranza sta irrimediabilmente aggravando.

Da quando ha avuto inizio il fenomeno dell’immigrazione illegale i compagni si sono affannati per minimizzarlo. Cominciarono con l’assimilarlo alla nostra immigrazione verso l’Europa e le Americhe omettendo di rilevare che siciliani, calabresi, toscani, veneti, friulani non erano zecche intenzionate a nutrirsi sul corpo di nazioni più ricche e evolute ma uomini e donne in cerca di terre da coltivare e desiderosi di partecipare alla costruzione di un mondo più libero e più giusto.

Ma poi cos’è l’integrazione? i buoni, che sotto sotto sono rimasti razzisti la confondono con l’inculturazione, con la pappetta dell’omologazione, col siamo tutti uguali, come ebbe a dire una svampita parlamentare: “parlano il dialetto come i nostri ragazzi” e avrebbe potuto aggiungere “si tatuano come i nostri o si drogano come i nostri”. I compagni su questo tema oscillano come pendoli: a volte tessono l’elogio della diversità, loro che la vera diversità non sanno neppure cosa sia, sognano una società multicolore coerente con il loro mondo arcobaleno ma poi intendono l’integrazione come annullamento dell’identità altrui. Il fatto è che, in un caso e nell’altro, per convenienza o stupidità, i compagni, e non solo loro, non colgono i segnali che vengono dalle periferie parigine e non badano a quel che bolle nelle nostre. Il degrado crescente, la delinquenza dilagante, il restringimento degli spazi di libero movimento per i cittadini coprono il vero pericolo: si sta creando, in Italia come e peggio che altrove, una società nella società, una nazione nella nazione che da un momento all’altro rivendicherà la propria connotazione culturale e religiosa e quando accadrà sarà troppo tardi per neutralizzarla. Bene che vada si verificherà una frantumazione territoriale, nella peggiore ipotesi un ribaltamento o una condizione di conflittualità permanente.

Da gennaio ad oggi, in attesa di un tempo stabile e di mare calmo, grazie al trionfalismo di Meloni e FdI sono sbarcati più di settantamila clandestini. Una catastrofe sulla quale in parlamento non si è speso una parola. I compagni nel loro cupio dissolvi si fregano le mani, forzisti orfani di Berlusconi e leghisti orfani del primo Salvini stanno zitti per paura di far rovesciare il barcone del governo, il sistema dell’informazione è quello che è e gli italiani non riescono a muoversi senza un pifferaio.  Settantamila in sei mesi di cattiva stagione: una cosa pazzesca che si è cercato di mascherare spostando l’attenzione sulla rotta balcanica da cui ne verrebbero di più (non è vero, ma se lo fosse sarebbe un aggravante), con le ciance sulla capienza di Lampedusa (come se fosse quello il problema) o ricorrendo a spudorate menzogne quali: “l’Italia è solo il Paese di transito” (copyright Sansonetti), quando tutti sanno che le porte per l’Europa sono sigillate, e “chi non ha diritto viene rimandato indietro” quando nessuno di quelli che arrivano ha diritto di asilo e l’unico  davvero espulso siamo andati a riprenderlo. Non ci sono respingimenti e non esiste alcuna possibilità di spalmare qua e là per l’Europa gli ospiti indesiderati. Punto.

Ma il problema, lo ripeto, per il nostro governo e per il parlamento non esiste. Al contrario, tutti lodano la Meloni che del resto a lodarsi ci pensa da sé. A lodarsi per cosa? Per aver cambiato l’atteggiamento dell’Europa sui “migranti”, quando in realtà in Europa non è cambiato nulla: l’Italia li fa entrare, l’Italia se li tiene.

Daniela Santanchè.

E per aggiungere al danno la beffa l’inqualificabile prima ministra se ne va a Varsavia e si dichiara in piena e perfetta sintonia col governo che – giustamente – di clandestini non ne vuole nemmeno uno col pretesto che deve pensare agli ucraini (che peraltro premono per lasciare la Polonia per la Germania, la Francia e ti pareva, l’Italia). Di neri o bengalesi la Polonia non ne vuol sapere e non c’è cifra che tenga per fargli cambiare idea: i 20.000 euro a clandestino Bruxelles se li può tenere. Ma la Meloni ride, è contenta, va bene così, è in piena sintonia. Così come è in piena sintonia coi polacchi sull’Ucraina: sostegno a 360 gradi, subito nell’Ue, anzi nella Nato e se non bastano le armi, i Leopard e gli F35, le mine e i proiettili made in Italy,  i nostri bersaglieri, i nostri alpini, gli uomini della Folgore sono pronti a menare le mani per la libertà e la democrazia incarnate da Zelensky. E il problema secondo i compagni sarebbe la Santanchè.

Pierfranco Lisorini

FRA SCEPSI E MATHESIS Il libro di Pierfranco Lisorini  acquistalo su…  AMAZON

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.