Il mito della democrazia e la falsa contrapposizione fra regimi liberali e autoritari

L’avvento delle democrazie liberali è stato  segnato dalla mitizzazione del voto e dall’enfasi sulla volontà popolare. Ma Il voto non è affatto una conquista della modernità: è, al contrario, all’origine di ogni forma di organizzazione, il discrimine fra un potere legittimo e l’arbitrio. In una organizzazione stratificata è riservato  alle élite, di volta in volta i detentori della ricchezza fondiaria o della forza delle armi. E quando, come nella Roma delle origini, il popolo coincide con l’esercito, l’efficacia di un’organizzazione, quella militare, da cui dipende la sopravvivenza della comunità poggia su due pilastri: la sovranità individuale nella quale volontà collettiva e somma delle volontà di singoli coincidono e definizione dei ruoli che si traduce nella disciplina e nell’etica del dovere.

L’obbedienza come l’autorità e il potere decisionale appartengono al ruolo, non alla persona: prima della contaminazione con le culture orientali il princeps o l’imperator non erano oggetto di un particolare ossequio, erano cittadini come gli altri, gravati per il ruolo ricoperto di una speciale responsabilità. Poi, nel corso del tempo, nemici esterni, emergenze interne, il rischio sempre presente di res novae con la  libertà che diventa licenza mettono a repentaglio la tenuta dell’organizzazione, che si salva restringendo gli spazi di libertà individuale fino al punto di trasformare i cittadini in sudditi, ripagati con la garanzia della sicurezza e della sussistenza.

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Ma quando si guarda al passato bisogna accantonare i parametri del presente: il suddito non era un servo e il potere per quanto si illudesse di essere intoccabile, assoluto o  graziosamente elargito da Dio poggiava sempre sul consenso, per quanto implicito esso fosse. E se questa base diventava meno solida l’organizzazione crollava. Oggi i detentori del nuovo potere politico finanziario hanno mistificato la storia alterandone il senso con una serie di topoi e di pseudoconcetti come quelli di progresso, libertà e democrazia. In realtà la democrazia e la libertà hanno cominciato a venir meno da quando si è iniziato a parlarne, a  farne miti di massa come quello  autoreferenziale di democrazia liberale – versione aggiornata della civiltà occidentale, a sua volta metamorfosi della cristianità. Un mito che copre nuovi privilegi del tutto disfunzionali a differenza di quelli del passato  e da mantenere al riparo dall’opinione pubblica. Che, a differenza dell’implicito consenso tradizionale di volta in volta affidato al carisma del capo o al buongoverno o a provvedimenti demagogici, si presta ad essere manipolata attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione, manipolata  fino al limite estremo dell’annientamento. È quello che sta accadendo nei tempi sciagurati che stiamo vivendo. In apparenza godiamo della libertà di associazione, di espressione, di accesso alla cultura, di uguaglianza di opportunità; sembra che ci autogoverniamo perché attraverso il voto deleghiamo persone di nostra fiducia ad amministrare la cosa pubblica; in realtà non c’è più alcuna cosa pubblica e quelli che eleggiamo appena eletti diventano servi di un potere che si è impadronito delle istituzioni ed è incarnato da un’oligarchia completamente chiusa in se stessa.

Il paradosso è che mai come oggi il mondo si regge sull’intelligenza, sulla creatività, sulle attività  di una società civile che suo malgrado  alimenta quella oligarchia. Il sapere, il lavoro, l’intelligenza avrebbero dovuto rompere le vere o presunte catene di un vero o presunto servaggio: è successo esattamente il contrario. I loro frutti sono stati lo strumento per la liquidazione della sovranità popolare e l’edificazione di uno Ziggurat dall’alto del quale si decidono i destini del mondo. Quello che era stato previsto come effetto secondario dell’economia capitalista – ruoli e ricchezze parassitari – ne è diventato il nucleo, in termini sociali e culturali,  compattato dai signori della finanza. Buffoni di corte e dignitari, attori e saltimbanchi, cantanti e principesse della rete, opinionisti e accademici, un mondo di cartapesta  cresciuto intorno al sistema di potere di cui è diventato l’interfaccia. La coscienza di classe che avrebbe dovuto liberare i produttori di ricchezza dalle catene del capitale si è risolta nel miope egoismo dell’invidia sociale ed ha contribuito in modo decisivo al crollo dei valori collettivi trasformando il riscatto in una corsa individuale dentro una realtà virtuale nella quale l’esistenza ha perso serietà e significato.

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Dell’illusione ottocentesca di un organismo sovranazionale garante della pax perpetua rimangono solo le tavole imbandite e la crescita esponenziale del numero dei convitati, l’epopea rivoluzionaria ha lasciato in eredità solo retorica e frasi fatte e dei lumi della ragione   rimane solo qualche flebile fiammella. Ma a ben vedere dalle parrucche di Voltaire, di Robespierre o di Metternich non ci si poteva aspettare granché; la grande illusione è stata piuttosto quella della scienza. Agli inizi del secolo scorso Bertrand Russell insieme a qualche altro ingegno visionario scommetteva in una scienza unificata che avrebbe modellato l’umanità del futuro. L’utopia della mathesis universalis si è polverizzata insieme alle vittime di Hiroshima e Nagasaki, i motori del “progresso” sono rimasti la distruttività e il profitto e quel che è ricaduto sulla collettività è servito a narcotizzarla, addomesticarla, alienarla. L’occidente stordito, privato di una coscienza collettiva, in balia di una sistema di potere apparentemente impersonale ma in realtà incarnato  da farabutti  irresponsabili proiettati per caso  nelle stanze che dovrebbero essere occupate da ciò che meglio esprime e rappresenta la società civile, ha di fatto impedito l’evoluzione del mondo islamico verso la laicizzazione, l’ha costretto ad arroccarsi negli aspetti irrazionali del suo passato e ne ha bloccato la crescita civile e politica. L’asse dell’umanità si sposta inesorabilmente verso   i Paesi liberi dal giogo di vecchie e nuove religioni e non intossicati dal veleno  delle ideologie: se c’è un futuro per l’uomo, se ha ancora senso la speranza bisogna guardare alla vitalità del Brasile, al recupero della tradizione della Russia post sovietica, alla spiritualità dell’India, alla voglia di riscatto del Sudafrica e alla culla del Tao, capace di resistere al drago della produzione e del consumo. L’americanizzazione   ha svuotato l’occidente, ne ha messo a nudo l’ottusa latente ferinità ne ha fatto una minaccia per la vita del pianeta. Il peccato originale   delle culture del Libro – cristianesimo, ebraismo, Islam -, l’intolleranza, il fanatismo, il dogmatismo (dai quali gli ebrei sono rimasti indenni proprio per la loro marginalizzazione e per averne evitato una lettura trascendentistica), rivive nelle metamorfosi del moralismo americano, nella convinzione di rappresentare la libertà, la civiltà, la democrazia. Ma la decantata democrazia americana è il frutto dello sterminio sistematico dei nativi americani, è cresciuta  grazie ad un’economia schiavistica,  che l’Europa non ha mai conosciuto, e  si è  affermata come gendarme del mondo grazie all’uso criminale del terrorismo aereo fino all’apocalisse dell’arma atomica. Ma niente è per sempre e il potere economico e finanziario americano è ormai una belva impazzita di fronte alla prospettiva di un nuovo ordine mondiale. Prima si è servito del pupazzo Zelensky per saggiare la tenuta militare economica e sociale della Russia  commettendo un colossale errore di valutazione, poi con la complicità ottusa di Israele si è rivolto contro l’Iran, che per nostra fortuna almeno finora resiste alle continue provocazioni e reagisce solo con parole, infuocate ma parole.

L’America gioca una partita criminale sulla pelle degli ebrei – ancora una volta – e dei palestinesi; i giochi sporchi della Cia e del Pentagono non sorprendono più e sarebbe il caso che anche dalle nostre parti ci si chiedesse a chi ha giovato l’attacco del 7 ottobre e chi ha consentito la crescita di Hamas. Ma nella fitta nebbia calata sull’Europa nessuno vede più in là del proprio naso e in Italia non si vede nemmeno quello. Una stampa e una politica miserabili continuano come mosche necrofage a ronzare intorno al cadavere del fascismo mentre un delirio paranoico ha portato governo e parlamento ad occuparsi del saluto col braccio teso. Braccio teso che di per sé sarebbe apologia di fascismo e apologia (vale a dire difesa, un’opinione, un giudizio) del fascismo sarebbe un reato, anzi un peccato mortale, come per la Chiesa (e l’Islam) la bestemmia. Ci sarebbe da ridere se non fosse  che innocui partecipanti ad una doverosa cerimonia di commemorazione di tre sfortunati ragazzi  ammazzati dal fanatismo diretto dal Pci, che si giovava degli“opposti estremismi”per uscire dall’angolo, rischiano una condanna per quel surreale reato. E non solo mi chiedo  come si faccia a considerare reato un gesto, un saluto o fosse anche un’opinione ma anche cosa frulla per la testa a quanti – pochi – per sgravarsi la coscienza dicono sì, va bene, lasciamoli fare, non sono un pericolo ma restano dei cretini perché il fascismo va condannato senza se e senza ma. A parte che fra quei cretini ci sono anche i parenti delle vittime, vogliamo dire che tutti quelli che aborrono l’idea  manichea (ma più che manichea demenziale) del fascismo “male assoluto” sono dei cretini? E quelli che il passato lo studiano per capirlo e non per condannarlo sono dei cretini? A questo ci porta l’analfabetismo della segretaria dem e di quanti non glielo rinfacciano, a cominciare dal ministro degli interni. E sui Fratelli d’Italia e la loro capopattuglia stendiamo un velo pietoso.

post scriptum

Mentre la politica e i media erano impegnati a stigmatizzare il saluto col braccio teso negli scontri fra tifosi di calcio un ragazzo è finito accoltellato. Non sarà che l’Italia peggiore, stupida e criminale, va cercata negli stadi e non in via Acca Larentia?

Pierfranco Lisorini

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