Fra malgoverno e sempiterno antifascismo. L’autodifesa della società civile

Mi conforta l’idea, o l’illusione, che toccato il fondo si comincia a risalire la china.  E, siccome la probabilità che si possano schiudere le porte di palazzo Chigi al Pd a guida Schlein è nulla, ho buoni motivi per credere che il fondo si sia già toccato. Quel che mi aspetto nell’immediato è l’approfondimento del solco fra la politica e la società civile, che non cade  nella trappola della sinistra intenta a mobilitare l’opinione pubblica sul terreno della contrapposizione partitica e ideologica. Sui temi del lavoro, della sanità, delle pensioni ha infatti perso ogni residua credibilità mentre sui “diritti”, sull’ambiente e sull’invasione può solo perdere consenso e dividersi al proprio interno.

Al punto in cui siamo perché la politica ritrovi la propria funzione bisogna che venga isolata e annichilita. Se disertiamo le urne, lasciamo che i giornali finiscano al macero, usiamo la televisione solo per vedere vecchi film e per non isolarci e cercare di informarci ricorriamo ai siti non controllati  dal potere ci resta la possibilità di  tentare nuove vie di partecipazione e di aggregazione a partire dal sostegno alle iniziative referendarie antisistema. So bene che in una democrazia autentica per quanto imperfetta questo sarebbe qualunquismo o anarchismo:  ma oggi, in Italia, è legittima difesa contro un regime odioso che per il privato interesse  di pochi porta alla rovina il Paese, l’alternativa alla rassegnazione e un modo per preparare il riscatto.

Gli ultimi governi di finta sinistra, di finta unità nazionale e ora di finta destra hanno perseguito con coerenza l’impoverimento del ceto medio, l’affamamento di lavoratori e pensionati, la distruzione dello stato sociale, il degrado delle periferie e dei centri storici, il crollo della scuola e della sanità. Peggio di tutti riesce a fare la Meloni, tronfia del credito americano, che ha già fatto strame della nostra residua sovranità, ha spalancato le porte all’invasione che si è assestata  su mille clandestini al giorno in attesa di un balzo nella bella stagione e, sulla scia di Draghi, ci ha trascinato in un assurdo conflitto contro la Russia rovinoso per la nostra economia e la nostra credibilità internazionale.  Tutto senza un’opposizione e senza il minimo segno di dialettica interna, con un governo di zombi, tutti d’accordo, tutti acefali, nessuno che ha fiatato per il dimezzamento dell’adeguamento delle pensioni, sulla guardia costiera usata per scortare i barconi, sul mistero di cosa stiamo mandando in Ucraina, nessuno che impedisce al capo dello Stato di dettare le linee della politica estera come se la nostra fosse una repubblica presidenziale.

Mi guardo indietro e mi chiedo come sia stato possibile arrivare a questo punto. I nostri ragazzi, quelli che vorrebbero un lavoro purchessia per liberarsi dalla tutela dei genitori  e i laureati che si accorgono che nel nostro Paese le competenze non servono a nulla,  devono traslocare in Germania, nel Regno Unito o negli States. In compenso arriva un fiume di nordafricani, sub sahariani, pachistani, bengalesi, latini ignoranti come capre attirati dall’illusione di potere vivere a spese dello stato italiano e con una irresistibile  tendenza  a infischiarsi delle sue leggi. E, per aggiungere al danno la beffa, autorevoli personaggi del mondo dell’imprenditoria, dell’informazione, dell’accademia fanno eco ai politici che dicono che va bene così, che  c’è bisogno di manodopera nell’agricoltura, nell’edilizia, nell’industria turistica; il problema è l’Europa che non ci dà abbastanza soldi per mantenere gli immigrati – che siano arrivati illegalmente è un dettaglio -,  consentirci di predisporre un’accoglienza con tutti i crismi e favorire la loro integrazione. Non c’è nessuna invasione, dicono quelli che avevano promesso il blocco navale: semmai bisogna evitare di concentrarli e provvedere a spalmarli su tutto il territorio nazionale. Poi c’è anche qualche imbecille che propone di ripopolare i borghi, magari quelli montani, con i clandestini e chi progetta di formarli a casa loro per poi una volta sbozzolati andarli a prendere e immetterli nel mercato del lavoro, che, perbacco, ha bisogno di tecnici specializzati non di bassa manovalanza. Insomma, un delirio; e se smontiamo le loro farneticazioni   cambiano approccio e sentenziano che l’accoglienza,  oltre che dal nostro buon cuore, sarebbe imposta dalla costituzione.

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Quella Costituzione – metto la maiuscola per non turbare qualcuno che la considera il Libro Sacro, il Vangelo laico, i nuovi Libri sibillini di cui è convinto di essere uno dei quindecemviri sacris faciundis di cui princeps è ovviamente Mattarella -, che oltre ad essere infarcita di  anacronismi e retorica contiene  un inequivocabile sacrosanto rifiuto della guerra.  Ma è allora che ci si accorge che quel libro non è scritto sulla pietra ma sulla gomma e con lettere sbiadite che i suoi custodi possono leggere come vogliono. Sono custodi improvvisati e un po’ sprovveduti  così come sono sprovveduti e improvvisati interpreti delle vicende che portarono alla sua redazione. A sentirli la costituzione sarebbe il suggello della lotta di liberazione, il manifesto della resistenza, la barriera contro il pericolo fascista. In realtà, relegato il contingente nelle norme transitorie – e anche a passo di lumaca  ciò che transit prima o poi arriva alla fine – la carta disegna il nuovo assetto istituzionale ed è ispirata alla visione ottimistica di un Paese teso all’ordine, alla stabilità, alla pace sociale dopo le macerie materiali e morali della disfatta. Chi ha un minimo di conoscenza storica sa che, morto e sepolto il partito nazionale fascista e svanito il fantasma del fascismo repubblicano, l’unico ostacolo alla realizzazione di un ordinamento liberaldemocratico erano i comunisti. La massima, anzi l’unica preoccupazione della forza politica prevalente, quella che godeva dell’appoggio del Vaticano e dei vincitori oltre che del consenso della maggioranza degli italiani, era contenere il partito comunista, già spiazzato dagli accordi di Yalta e dall’atteggiamento prudente di Stalin che aveva raffreddato i bollori rivoluzionari dei suoi militanti. I compagni hanno dovuto subirla la costituzione, hanno dovuto subire lo Stato borghese, hanno dovuto subire la democrazia. E se hanno lottato (uso per comodità questa espressione vieta, falsa e stucchevole) non è per la democrazia ma per un nuovo ordine sociale sul modello del’Unione sovietica. Negare questa evidenza è segno di analfabetismo storico  e culturale o di ipocrisia. La nuova Italia nasce anticomunista non antifascista, come ora si tenta di far credere. Chi scrive ricorda bene qual era il clima del dopoguerra e come era lacerata la società italiana: da un lato democristiani servi degli americani, clericali, strumento del padronato, reazionari, nemici dei lavoratori e dall’altro il popolo delle feste dell’Unità, delle fabbriche, dei nostalgici  che aspettavano il momento della rivincita, e non erano i nostalgici del fascismo ma della rivoluzione mancata, quelli del pianto disperato alla notizia della morte del piccolo padre, annunciata a caratteri cubitali come una tragedia cosmica sul giornale della classe operaia. Per tutti gli anni Cinquanta partigiani irriducibili traditi dal compagno Tito rischiavano la marginalizzazione come i nostalgici del CNL, i preti dissidenti, sinistra democristiana, revisionisti del Pci: minoranze di fronte a una compatta compagine politica risoluta nel voler mantenere i compagni fuori dalla porta anche quando erano lupi vestiti da agnellini. E i nostalgici del fascismo? Quelli c’erano, certo, come c’erano i nostalgici della monarchia ed è azzardato credere che fossero una sparuta minoranza nel Paese: però politicamente non contavano nulla  e il partito – o i partiti – che virtualmente li rappresentavano erano solo la ruota di scorta alla maggioranza cattolica e atlantista.

E non ricordo richieste di abiura o autodafé: mio padre che era stato guardia repubblicana a Firenze – fra l’altro ferito in modo serio nella colluttazione con due militari tedeschi intenti a sparare in aria per terrorizzare i passanti – prima di rifugiarsi con la famiglia in un paese della Garfagnana per sfuggire ai rastrellamenti di uomini da spedire  a lavorare in Germania nelle fabbriche in crisi per mancanza di operai, a guerra finita si iscrisse al partito comunista rivendicando la propria militanza nella Rsi e da dirigente di una sezione nel cuore popolare di Livorno compilò una sorta di statuto sulla conciliazione e il ritrovato senso della patria comune appeso alla parete. La sezione, per la cronaca, era intitolata ai due fratelli Gigli, assassinati nel 1922 da un gruppo di fascisti.  L’atteggiamento prevalente era quello di lasciarsi il passato alle spalle, di guardare al presente e progettare il futuro. E ancora a cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta, quando nelle aule universitarie si respirava un’aria libertaria e antiborghese – non antifascista, perché il fascismo non c’era ma il potere borghese sì -, fra i miei insegnanti quello che mi ha seguito più da vicino è stato Giorgio Colli. Che avrebbe avuto buoni motivi familiari per recriminare contro il ventennio ma non ha mai nemmeno sfiorato l’argomento, come del resto l’altro docente pisano, Cesare Luporini, figura di spicco del Pci ma anche lui muto su quello che per Gianfranco Fini è stato il male assoluto  e che per lui erano stati gli anni della formazione e del sodalizio con Giovanni Gentile.

Poi qualcosa è cambiato. Quando fecero il loro esordio la contestazione e il mitizzato ’68  la voglia di rompere col sistema, l’anticapitalismo, le uova marce alla prima della Scala, gli abbaioni ai compagni a bordo dei loro yacht – chi non ricorda lo stizzito Volonté – in via delle Botteghe Oscure vennero sapientemente e prontamente dirottati contro “l’opposto estremismo”, rossi contro neri e nuovi partigiani mobilitati contro il “rigurgito” fascista. Un trucco perfetto, che fornì l’occasione a quella che era una minoranza insignificante, la cerniera fra cattolici e compagni, per diventare il perno della politica italiana. Col doppio gioco del Pci che scatena le piazze e alimenta il terrorismo mentre si erge  a pompiere e guida nella lotta alle P38 mentre  il mito della resistenza contro il fascismo prende forma e si rafforza, diventa guerra di popolo che coinvolge tutta la nazione e se  le giornate di Napoli coi partigiani ci incastrano ben poco, se  da Firenze in giù chi ha combattuto i tedeschi sono stati i militari di ciò che restava del regio esercito, se  nell’Italia liberata ci sarebbe sì stato bisogno di partigiani ma per difendere uomini, donne, vecchi e bambini dalle truppe assatanate del generale Juin, se  in Sicilia la resistenza c’è stata ma contro gli americani invasori poco importa: la storia, l’ha insegnato la Chiesa, non è il resoconto dei fatti ma uno strumento di edificazione spirituale, non ricostruzione critica – assurdo revisionismo come ebbe a dichiarare Napolitano – ma agiografia, santa benedetta e immodificabile agiografia.

Pierfranco Lisorini

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One thought on “Fra malgoverno e sempiterno antifascismo. L’autodifesa della società civile”

  1. Bravissimo professore. Analisi perfetta della situazione politica del nostro paese. Abbiamo toccato il fondo e ci sarà la risalita? Speriamo non mi faccio molte illusioni
    Grazie di informarci

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