Festa della donna e presunta questione femminile
La festa della donna è sempre un’ottima occasione per i politici di ogni livello e per il Custode della Costituzione per cimentarsi con frasi fatte e stucchevole retorica da quattro soldi. Questa volta sono stati un po’ frenati dall’ideologia gender, ostile al dualismo maschio-femmina e diffidente anche verso il politicamente corretto uomini/donne, cittadini/e, studenti/studentesse, bambini/e, tant’è che l’ultra progressista sindaco di Firenze ha creduto bene ricorrere all’espediente di sostituire il suffisso con un asterisco, non sia mai che qualche esponente del terzo o quarto sesso abbia ad adontarsi.
In compenso ci ha pensato la Meloni a sventolare il vessillo delle quote rosa (ma non era roba di sinistra?) e dopo essersi compiaciuta di se stessa e aver gioito per la prima donna al vertice del Pd, in attesa di un’inquilina al Colle si è spinta rivendicare al gentil sesso le posizioni apicali delle partecipate dello Stato. Devo confessare che tutto questo mi provoca un senso di nausea e mi conferma nella convinzione che i politici oltre a vivere in un universo parallelo usano una scala di valori completamente distorta. La scuola italiana è completamente femminilizzata, dalle elementari ai licei e col trend attuale tra qualche anno le donne occuperanno la maggioranza delle cattedre universitarie; la stessa tendenza vale per tutte le professioni mediche mentre già ora le donne sono in netta maggioranza fra i magistrati.
Insegnanti, medici, magistrati e, aggiungo, ricercatori: quali ruoli sono più prestigiosi e contribuiscono più direttamente al funzionamento dell’organizzazione sociale? il politico? il burocrate? il manager? Ma via… Secondo la Meloni un’insegnante (con o senza apostrofo) vale meno di lei, ha una formazione o è il frutto di una selezione meno valida di quella che ha portato lei al vertice di un partito o altri in vetta agli enti pubblici e a scannarsi per il loro controllo.
È un fatto incontrovertibile che i partiti, e il suo in particolare, sono verminai nei quali solo chi è abituato a respirare aria mefitica riesce a sopravvivere. Che un grande manager di Stato sia anche una persona colta, capace, intelligente e onesta può anche capitare ma non mi si dica che è la regola; un politico con quelle caratteristiche deve ancora nascere e che la carriera nei pubblici uffici sia velocizzata dal merito è una pia illusione. È inevitabile che sempre più donne verranno attratte dalla calamita del potere e del denaro ma non sarà certo una conquista. Del resto non c’è motivo per ritenere che la donna sia come tale meno ambiziosa, meno grimpeur/grimpeuse o meno corrotta o corruttibile dei maschi: in politica, negli uffici, al vertice degli intrallazzi c’è posto anche per loro.
Ma non si venga a dire che è una conquista. Se ci sono oggi più donne in politica che nel passato non è un buon segnale per l’emancipazione della donna: è al contrario uno svilimento della femminilità.
Se la Meloni avesse avuto tempo per studiare invece di essere impegnata a sgomitare dentro il suo partito saprebbe che la poesia lirica ha raggiunto la sua più compiuta espressione nell’antica Ionia con una donna, saprebbe che Socrate, il filosofo per antonomasia, guardava con deferenza ad una donna, della quale si considerava allievo, e saprebbe anche che nella loro furia contro la civiltà, la cultura, la scienza e la filosofia i cristiani si scagliarono contro la donna che secondo loro le incarnava facendola a pezzi.
Ma il riscatto della donna secondo Giorgia Meloni si avrà soltanto quando saranno femmine a ricevere e distribuire mazzette, quando sedute sugli scranni del malaffare ci saranno femmine, quando femmine avranno sostituito i maschi nel controllo dell’informazione, pardon, della disinformazione, perdendo i valori intrinseci della femminilità. Uomini e donne, infatti, non sono intercambiabili: la psicoanalisi, in particolare nella versione junghiana, ha avuto il merito di identificare e isolare le caratteristiche maschili e femminili indipendentemente dal genere manifesto: ogni persona, maschio o femmina, partecipa in misura diversa di quelle caratteristiche, nelle quali si esprime in modo complementare ciò che intendiamo per umanità. E i campi i cui si esprime quel che nell’umanità c’è di spirituale, il divino che è nell’essere umano, il logos incarnato, non riguardano il potere, il successo, il denaro. Il solo pensare che la persona di successo sia superiore agli anonimi invisibili all’interno della massa rivela la mancanza non solo di senso etico ma di intelligenza, di capacità di intendere. L’uomo di successo è solo uno strumento della massa e spesso paga gli effimeri privilegi di cui gode con la perdita della propria identità e la dissipazione della propria esistenza. Reciprocamente, nella massa anonima vivono la loro esistenza individui autentici con le loro storie, la loro intelligenza, la loro capacità di imporre nuovi paradigmi e di tracciare nuovi sentieri. Il successo o il potere non sono correlati col contributo alla civiltà: l’Eneide è un capolavoro indipendentemente dal fatto che Virgilio fosse un uomo di potere e godesse in vita di fama e di onori; Lucrezio era un uomo oscuro ma la sua opera lo ha reso illustre almeno quanto il pupillo di Mecenate. Se mi si passa l’accostamento Tomasi è vissuto come un perfetto sconosciuto e non poteva immaginare di essere il maggiore romanziere dell’Italia del dopoguerra, del Moravia celeberrimo in vita comincia a perdersi la memoria. Nella musica, nella pittura, nella letteratura le grandi opere scaturiscono da individui racchiusi nell’anonimato della massa che si contrappone alla nullità dell’uomo di potere e di successo. Ci sono poche eccezioni a questa regola: uno dei pochi è Goethe. I grandi scienziati, quelli che hanno resettato l’impianto teorico esistente o hanno aperto nuovi sentieri hanno lavorato nell’ombra e molti di loro nell’ombra sono rimasti: non è il successo che li ha spinti né l’ambizione ma la curiosità e il dubbio. Semmai coloro ai quali la sorte offre l’opportunità di distinguersi sono esposti al rischio che la popolarità e riconoscimento finiscano per spengere l’una e l’altro: la visibilità impedisce di continuare a cercare e vedere.
Le donne in politica e nell’informazione danno il peggio di sé. Nelle analisi sulla questione ucraina e sul fenomeno migratorio salvo rarissime eccezioni riescono ad essere peggio del peggiore commentatore maschio. La ragione è semplice: nel sistema dell’informazione, in particolare quella televisiva, le donne che valgono meno trovano una sponda nei maschi grazie alla loro disponibilità e per le altre è pressoché impossibile far valere il merito, le competenze e le motivazioni ideali, che, quando traspaiono, suscitano stupore e diffidenza; e in tal modo si trovano la strada sbarrata da maschi e da femmine.
Ma ha un fondamento il luogo comune della discriminazione della donna, del suo confinamento in ruoli subalterni, della sua marginalizzazione nel mercato del lavoro? Ho già detto sopra delle professioni più esclusive, quelle che prevedono percorsi formativi complessi, delle quali tutto si può dire tranne che ci siano barriere per le donne o che le donne vengano remunerate peggio.
Ma nemmeno si può dire che le donne incontrino speciali difficoltà ad accedere ai lavori che richiedono minore specializzazione. Sono reduce da un ufficio per il rilascio dello Spid, senza il quale non accedi alla PA e non puoi nemmeno controllare lo stipendio o la pensione (è la semplificazione all’italiana): dieci impiegati, tutte donne. Chi mi porta la posta è una donna, negli uffici comunali sono più donne che uomini; ma, si dirà, sono donne anche quelle che puliscono le scale dei condomini. E a questo punto mi viene da pensare che ai piani alti della politica si nutra un profondo disprezzo per il lavoro, sia esso professionalmente qualificato o no; sembra che la società sia dicotomizzata: da una parte le persone che contano, parassiti socialmente non solo inutili ma dannosi e dall’altra la massa dei paria che portano su di sé il peso del Paese: medici, insegnanti, operai, ruoli diversi ma tutti appiattiti su stipendi da fame e con uno status servile.
Non esiste una questione femminile, c’è piuttosto un problema di latitanza dello stato sociale, che da noi è inteso come sistema di assistenza graziosamente concesso dal principe, che oggi guarda con benevolenza ai “disperati che fuggono da guerre persecuzioni cambiamenti climatici” con la segreta speranza che sostituiscano i nativi che non si rassegnano a quel ruolo di paria. Il problema è che fra quei “disperati” non ce n’è uno attratto dalla opportunità di lavoro – e del resto medici, ingegneri, infermieri, tecnici qualificati (quelli che in Italia iniziano a scarseggiare) si guardano bene da lasciare la loro terra e le loro case – i cosiddetti migranti sono piuttosto calamitati dalla possibilità di vivere senza lavorare, dagli alloggi gratuiti, dal diritto allo studio con tanto di sostegno personalizzato, alla salute, allo sport, da un sistema di accoglienza enfatizzato dagli organizzatori del traffico che dipingono l’Italia come il Paese della cuccagna. Ma aziende agricole e industriali si fregano comunque le mani: male che vada ci sarà chi va a raccogliere pomodori, a stringere bulloni o a salire su un’impalcatura per cinque euro l’ora e si scongiura il pericolo che con l’inflazione aumenti anche il costo della manodopera. E anche i benpensanti preoccupati della moralità pubblica hanno motivo per essere soddisfatti: grazie ai barconi e ai valichi incustoditi ci sono sempre meno italiane dedite al mestiere più antico del mondo.
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Un articolo senza una parola o una frase che non mi senta di condividere, anzi di applaudire. Avrei potuto scriverlo io, se mai ne fossi stato capace
Troppo buono Giacinto. So che avresti fatto di meglio.
Ecco qui un chiaro esempio del fascismo eterno di cui parla Umberto Eco. Grazie a entrambi gli autori!