Commento al 5° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale

Addii, fischi nel buio, cenni, tosse
e sportelli abbassati. E’ l’ora. Forse
gli automi hanno ragione. Come appaiono
dai corridoi, murati.

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– Presti anche tu alla fioca
litania del tuo rapido quest’orrida
e fedele cadenza di carioca? –

E’ un mottetto su Irma che parte.
Anche questa volta in treno, proprio come era avvenuto per la partenza di “Lo sai: debbo riperderti e non posso”, nonostante, in quell’occasione, l’ambientazione presso il porto a rendere più icastica l’idea (partire con un bastimento molto più che partire con il treno esprime, per l’epoca, il sentimento di andare verso terre lontane, da cui si potrebbe non tornare più).
Tuttavia, lungi dal dire che Irma sia un pretesto o una comparsa (e d’altra parte in una composizione così breve una comparsa faticherebbe a non essere anche un po’ inevitabilmente protagonista), la lirica è soprattutto intrisa di un messaggio che generalmente viene inteso in termini sociali, ma è invece forse più politico (ricordiamoci che Montale nel ’39, data della prima edizione delle “Occasioni”, è già famoso, e le sue parole sono una per una contate e soppesate dalla censura fascista) per quanto sia evidente che le due cose sono strettamente intrecciate.
Caratterizza la lirica una riga intera di soli puntini. Della lunghezza di un verso, ma situata a metà tra la prima e la seconda strofa. E comunque notevolmente spaziata da entrambe, a segnalare che si cambia scena e anche ad anticipare la ripetitività, la “litania” che il treno produce nel suo cadenzato andare.
Prima vi è il momento tipico in cui ci si accinge a partire, con sullo sfondo i consueti “addii, fischi nel buio, cenni, tosse / e sportelli abbassati” di un treno che sta lasciando di sera una stazione. Momento sintetizzato nel perentorio e fatale “E’ l’ora”. Un’espressione breve che ci fa presagire un lungo viaggio, cui si addice maggiormente, come confermato in incipit, più un addio che un arrivederci, e che porta con sé la riflessione: “Forse / gli automi hanno ragione /. Come appaiono / dai corridoi, murati”.
Riflessione, questa, che ci sembra, come si diceva, di impronta politica.
Altrimenti non si capirebbe perché i viaggiatori dovrebbero essere considerati automi, corpo unico con la macchina di ferro che li sta portando via, in un percorso obbligato dalle rotaie, decretato dal capostazione, avallato dal capotreno, realizzato dal macchinista, certificato dal controllore.
Lì i passeggeri acquiescono, più o meno alienati e allineati lungo i corridoi dai quali a mano aperta accennano dal finestrino abbassato (parlare di sportelli abbassati in senso stretto non avrebbe senso) verso chi li ha accompagnati e si è fermato giù, sulla banchina-marciapiede, facendo oscillare con un movimento protratto a destra e a sinistra la mano per un saluto che vuole dire (ma loro che lo fanno non lo sanno) vado e tornerò, stai sicuro(a).
Difficile non sentire l’affinità con i versi della carducciana “Alla stazione in una mattina d’autunno”:

“Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri foschi, ravvolta e tacita
gente?”
[…]
“E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi”

Automi su quel treno. Nessuno libero.
Manca un’esclamativo dopo “murati” o, in alternativa, i due punti dopo “corridoi”. O addirittura i due punti seguiti da un interrogativo, sempre dopo “corridoi”, con eventualmente, per un’esagerazione comunque accettabilissima, l’aggiunta dell’esclamativo a fine strofa.
Così perlomeno richiederebbe la sintassi e l’inflessione cui ci induce la frase.
Forse il poeta non inserendoli vuole lasciarci la facoltà di scegliere, visto che il senso di fondo non cambia.
La ragione miope, di giornata che non prevede il domani (“Forse / gli automi hanno ragione”.)
mura i passeggeri, ne dà la misura, e li priva di cantare una loro irragionevole (in quel momento) canzone, costringendoli ad adeguarsi, e magari beatamente, all’ “orrida / e fedele cadenza di carioca”, e naturalmente tanto più orrida quanto più fedele.
E poi una piccola provocazione alla sua donna che a questo punto è partita (che lei sia già in viaggio ce lo dicono la linea punteggiata, che rappresenta insieme il procedere del treno) e con la quale idealmente dialoga (e questo ce lo dicono le due lineette in apertura e chiusura della strofa).
Infatti egli mette fintamente in dubbio (e perciò in dubbio retorico e bonario) con la domanda in explicit la di lei capacità di sottrarsi all’assuefazione alla “fioca litania” (notare il contrasto concettuale tra “fioca litania” e “rapido”). Quella che impalpabilmente ammorba, e che è “fedele cadenza di carioca”, ovvero musica  sulle cui note la gente balla intruppata in un’allegria che vuole esorcizzare la tristezza, come in un carnevale brasiliano (di carioca), intanto che il treno va, stantuffando.
Così la locomotiva, senza che si faccia in tempo a rendersene conto, rapida rapisce. Tal quale i drammatici eventi che in questo torpore si susseguiranno e che l’autore pare subodorare, sicché “l’orrida / e fedele cadenza di carioca” accompagnerà al disastro, senza che nessuno possa evitarlo più.

S’è detto. L’interpretazione più frequente della lirica è nel senso di una critica al mondo nuovo frutto della tecnica, che esproprierebbe meccanizzandole le persone della loro umanità: il treno come metafora della società di massa e della gente uniformata che si imprigiona come un ragno nel suo stesso filo.
Anche. Ma in subordine. E per trascinamento.

FULVIO BALDOINO

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One thought on “Commento al 5° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale”

  1. In questo breve mottetto (due strofe, la prima di tre endecasillabi e un settenario, la seconda di un settenario e due endecasillabi) sette versi in tutto, vediamo compiersi un altro momento o evento dell’esistenza del poeta e dell’esistenza della donna amata: è il momento della partenza, in treno, dell’amata. Il centro focale del mottetto è chiuso tra due punti fermi nel secondo verso, fulmineo e inesorabile: “E’ l’ora” Che ora è? Non è solo quella del distacco, è anche quella dell’inizio di un nuovo tempo nella vita del poeta e dell’amata. E’ l’ora triste degli addii che rende triste, anzi, “orrida” , la “cadenza di carioca” che, di per sé, dovrebbe essere allegra. E’ anche l’ora in cui il poeta sente quasi fisicamente e con dolore l’indifferenza degli “automi” che viaggiano nelle vita senza sapere perché. Infine è l’ora che lo lascia solo con se stesso, nel buio, sulla banchina di ina stazione, di notte, senza sapere né dove né quando potrà rivedere l’amata, quasi fosse l’ ultima sua ora che se ne va per non tornare mai più, come una nuova Euridice.

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