Alcune note su “Ripenso il tuo sorriso” di Eugenio Montale

a.K.

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida
scorta per avventura tra le petraie d’un greto,
esiguo specchio in cui guardi un’ellera i suoi corimbi;
e su tutto l’abbraccio d’ un bianco cielo quieto.

Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto s’esprime libera un’anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un’onda di calma,
e che il tuo aspetto s’insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d’una giovinetta palma…

Di tutte le liriche degli “Ossi di seppia”, questa è in assoluto quella con i versi più lunghi. Tanto che  li si può considerare versi doppi senza regolarità nella quantità sillabica.
La rima la troviamo tra i versi 2° e 4° della prima delle tre quartine, e poi, incrociata, nella seconda. Nella terza rimano solo il 2° e l’ultimo verso.
Non sappiamo le motivazioni di una simile scelta, cioè del perché l’autore abbia ritenuto di dare una veste formale così particolare proprio e solo a questa lirica
Ciò che invece sappiamo è che la dedica “a K.” è (come da nota di p. 1070 del Meridiano Mondadori dedicato ai versi del poeta) per il famoso danzatore russo Boris Kniaseff, che Montale conobbe a Genova nello studio dello scultore Francesco Messina dopo averlo ammirato al Teatro Verdi mentre lavorava nella Compagnia di Maria Jureva.

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Si tratta di un ricordo. Meglio. Di una poetica meditazione su un ricordo. Il quale, tra l’altro, non sembra si sia imposto da sé come per lo più capita, sulla scorta di una suggestione o un richiamo esterno.
Montale dà piuttosto l’impressione di esserlo andato a ripescare col pensiero perché sente di averne bisogno come di una cosa che possa apportargli un minimo di serenità, che possa arginare la sua afflizione esistenziale: “Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida”.
E ha la fortuna (l’ “avventura”) di trovarla “tra le petraie d’un greto”, ovvero laddove l’asprezza dell’ambiente riesce a farsi confessionale, luogo di incontro-scontro arduo eppure consolatorio nel suo consentire alla rappresentazione del dolore. 
Quello di ellera, termine aristocratico per edera, pare scelto per riportarci all’aura del mito dove non ci stupiremmo di trovare in una qualche metamorfosi di sapore ovidiano Narciso che, questa volta innocente da ogni presunzione, invece di guardarsi in uno specchio d’acqua azzurro come il cielo e annichilente come il mercurio, con l’armonia della danza che gli traspare dal viso, si lascia abbracciare da “un bianco cielo quieto”.
Così, nel ricordo, lo vede il poeta. Che sa, però, come il ricordo possa ingannare.
La genuinità di colui che ora è lontano è il riflesso di un’anima libera e inevitabilmente ingenua, o la superiore accettazione di chi ha imparato a guardare col sorriso del Budda le cose del mondo e la sofferenza che sopportano e comportano?

La lotta del corpo con la gravità ingaggiata nell’atto della danza è davvero domata ed  espressa in un sorriso nella vita?
Il poeta non sa dire. Ma da questo dubbio fioriscono forse i due versi più belli di tutta la lirica:
“o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua / e recano il loro soffrire con sé come un talismano”.
Lì oltre ad insistere su un lessico alto che si protrarrà fino all’ultima strofa, vi è un carico semantico frutto di un “o vero” non ancora univerbato che se imposta correttamente un’alternativa, richiama altresì la genuinità del protagonista, come fosse un’apostrofe amica con la quale gli viene riconosciuta la verità del suo essere.
Troviamo inoltre la parola “raminghi” con allusione molto concreta al girovagare di Kniaseff  il quale, nato nell’anno 1900 a San Pietroburgo, diciassettenne era già emigrato in Bulgaria e ventiduenne in Francia (tra l’altro, dopo il ’23, anno dell’incontro e dell’amicizia con Montale, che pare perciò leggergli nel destino, fu in Uruguay, Argentina, Brasile, Cile, Svizzera, Grecia, e quindi ancora Francia, dove, a Parigi, morirà).
Ma allude pure a coloro i quali appartengono alla razza degli irriducibili dell’inquietudine.
E’ il protagonista allora estenuato dal mondo?
La successione sintattica più canonica ci farebbe propendere per una risposta affermativa.
Tuttavia, se così fosse, sorgerebbe una sorta di contraddizione tra la sua condizione di estenuato (vinto, prostrato, arreso…) e il suo riuscire a disegnare figure aeree che vivono solo nell’equilibrio e nell’armonia, nella sintonia e nel ritmo.
E allora non sarà che si possa intendere come sia lui che estenua il male del mondo, che cioè lo sopporta con una forza tale da far sì che sia proprio quel male ad esaurirsi e quasi ad arrendersi nel tentativo medesimo di surclassarlo? La grammatica non lo impedisce affatto.
La sofferenza, comunque c’è; è indubbia. Sia che egli si estenui per contenere con dignità il male del mondo, sia che ne sia estenuato (ma poi perché non ammettere che l’una cosa possa coesistere con l’altra?). Nel perdurare di questo stato, essa quasi diventa un lasciapassare, una qualità identificativa, il testimone di rappresentare un ostacolo con cui se è accaduto di saper convivere in tutte le evenienze del passato, così ancora accadrà, con l’aiuto di un talismano che si porta con sé e diventa compagno di strada.
Nelle strofe precedenti il poeta non si era saputo pronunciare se dal volto dell’amico s’esprimesse “libera un’anima ingenua” oppure  fosse “dei raminghi che il male del mondo estenua “.
Invece  nella terza, che riguarda il modo di come lui lo vede, è deciso: sa, perché così lo vive, e perciò sa assolutamente, che “la tua pensata effigie / sommerge i crucci estrosi in un’onda di calma”. Basta rammemorare la sua figura per placare le domande e gli strani (per la gente che sta contenta al quia) tormenti.La figura del danzatore russo, il suo corpo, la sua postura, i suoi gesti, sono di per sé arte.
E’ un sinolo che a Montale non sfugge.
E’ per questo che così conclude la poesia: “il tuo aspetto s’insinua nella mia memoria grigia / schietto come la cima d’una giovinetta palma…”.
La cima di una palma, precisa. Perché un qualsiasi altro albero non avrebbe lasciato libero il tronco dai rami e perciò non avrebbe potuto stagliarsi sinuoso e schietto, nel senso che sa piegarsi al vento senza prostrazione e umiliazione alcuna, ma con l’eleganza di una danza, con l’inchino del ballerino al pubblico che applaude. 

FULVIO BALDOINO

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One thought on “Alcune note su “Ripenso il tuo sorriso” di Eugenio Montale”

  1. In questi dodici versi più lunghi di quelli che caratterizzano la metrica degli altri “Ossi di seppia”, come osserva in apertura il prof Baldoino, si intrecciano temi diversi e, come spesso in Montale, contrastanti.: anzitutto quello della memoria e del ricordo , in questo caso lieto come “un’acqua limpida /…tra le petraie d’n greto”, e già qui è evidente il contrasto tra l’ “esiguo specchia” e l’asperità delle pietre tra le quali si affaccia. Sennonché, in quello specchio, il poeta vede soltanto il sorriso dell’amico lontano nello spazio e nel tempo, e il senso di pace che, pur tra le spine (le pietre) della vita presente, nell’immediato quel sorriso gli reca in dono, riflettendo su questa “poetica meditazione su un ricordo” come opportunamente annota i’autore del commento, s’insinua il dubbio sulla reale natura di quel sorriso: “non saprei dire, o lontano, / se dal tuo volto s’esprime libera un’anima ingenua / o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua…”; ed ecco il tema montaliano del male di vivere che potrebbe sussistere anche sotto quel volto in apparenza lieto mentre l’amico, famoso ballerino russo, è estenuato dal male del mondo, oppure, quasi come un nuovo Cristo, estenua il male del mondo assumendolo su di sé (ecce agnus Dei qui tollit paccata mundi). Qust’ultima interpretazione è solo mia, ma deriva dall’ipotesi originale di Baldoino sull’ambivalenza della frase: “dei raminghi che il male del mondo estenua”. Ma nelle terza e ultima strofa l’ambiguità di quel sorriso svanisce come d’incanto nella leggerezza dell’arte della danza interpretata dal ballerino russo, il cui aspetto rimane nella memoria grigia del poeta “schietto come la cima d’ una giovinetta palma”. Ancora una volta è la poesia, l’arte a vincere il male del mondo.

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