Se il miglior filosofo è il barbiere

contraddizioni e assurdità nella filosofia insegnata

Nessuno, che io sappia, si è mai preso la briga di stilare l’elenco delle cantonate e delle sciocchezze uscite dalla penna dei grandi scienziati e filosofi del passato. Filosofi che, dimentichi della funzione critica del metalinguaggio, si sono avventurati intorno alla cosmogonia, alla vita dopo la morte (un ossimoro) o allo Stato perfetto, per non dire della fisiologia o della riproduzione. E scienziati che – ieri come oggi – invece di rimanere fermi ai dati dell’osservazione e al rispetto del metodo sperimentale hanno dato libero sfogo ad una troppo fervida immaginazione. Nessuno l’ha fatto e non lo farò neppure io, che mi limito a ricordare che il grande Galileo aveva torto marcio quando sentenziava che le comete sono effetti di luce e non ammassi di roccia o che il precursore dell’astrofisica moderna era convinto che un gruppetto di angeli spingessero le orbite celesti (per non dire, in tempi più vicini a noi, di quelli che considerano il big bang non un’ipotesi di lavoro ma un dato di fatto).

Chi si è esposto di meno si è limitato ad alludere, a ricorrere a miti e metafore o, meglio ancora, a smontare la rigida presunzione di teorie cervellotiche. E, per dirla col Poeta, sopra tutti com’aquila vola Archimede, proprio perché rimane coi piedi per terra, mentre il “maestro di color che sanno” è stato solo un macigno che ha bloccato per secoli la strada della conoscenza con la sua presunzione di andare oltre i fatti per trastullarsi coi concetti. La filosofia ha dato il meglio di sé nella riflessione interiore, nell’invito ad interrogarsi, nel dubbio e nella demolizione del principio di autorità. Chi ha letto Hegel rimane ammirato dalla potenza e dalla chiarezza delle argomentazioni e sicuramente, come accadde per Marx, ne ricava uno stimolo per accostarsi alla realtà con la mente libera da pregiudizi. Ma chi pretende di imporre un “sistema” hegeliano capovolge la realtà: se Hegel ha un valore come stimolo al libero pensiero lo ha nonostante il suo presentarsi come sistema, lo ha a patto che si dissolva come sistema. Spesso i filosofi hanno confuso i piani  di un ragionamento o compiuto arbitrarie estrapolazioni:  Cartesio, trasportato dal suo iperrazionalismo e dal paradigma dell’orologio urta contro l’evidenza e il buonsenso quando fa dell’animale un automa: in effetti l’animale, uomo compreso, è “anche” una macchina com’è anche un laboratorio chimico, ma lo è secondariamente; in primo luogo è vita, un mistero scomodo per il filosofo, che pensa bene di aggirarlo col risultato di sostenere delle corbellerie.

Spesso però non sono i filosofi i veri responsabili di assurde costruzioni concettuali ma i loro interpreti sprovveduti che isolano e assolutizzano i frammenti di un’ideazione problematica o comunque da contestualizzare.  Tanto più vale per la filosofia quello che si dice in generale della cultura: quel che rimane dopo aver dimenticato tutto quello che si è imparato. Un paradosso solo apparente, poiché l’alternativa è erudizione, pedanteria, morte dell’intelligenza. Le volte che mi sono trovato a dare il via libera agli aspiranti docenti consegnando loro l’abilitazione all’insegnamento o l’accesso alla cattedra ho dovuto fare violenza su me stesso perché ero ben consapevole che molti di quelli che sciorinavano diligentemente il contenuto delle pagine dei più ponderosi e autorevoli manuali o che dimostravano dimestichezza coi classici letti magari in lingua originale sarebbero stati pessimi insegnanti. Per il bene della scuola e degli studenti non mi restava che augurarmi che trovassero un posticino nelle facoltà universitarie, dove avrebbero fatto meno danni. Il professore di filosofia, quello che sa fare il suo mestiere, deve infatti essere nutrito di studi rigorosi ma non ne deve dipendere e deve saper conciliare quello che a prima vista è inconciliabile: esporre concezioni filosofiche sapendo che non esistono concezioni filosofiche, perché nel momento stesso in cui si fa dottrina la ricerca ha termine e ὁ δαίμωνse ne torna da dove è venuto. Non è semplice mantenere fede alla lezione di Wittgenstein – la filosofia non si può insegnare – senza cadere nel mutismo o menare il can per l’aia. Chi non ne è capace trasmette al posto della mobilità graffiante della critica la sclerosi di formulazioni rigide, insignificanti, prive di qualsiasi valore euristico quando non palesi assurdità.

Il povero Feuerbach che rimane allo studente come quello che ha sostenuto che l’uomo è ciò che mangia, come il pollo ruspante reso saporito da un’accorta alimentazione o Leibniz chiuso nella formula del “migliore dei mondi possibili” come un qualunque Pangloss per non dire di Fichte ridotto a uno scioglilingua fra io e non-io sono il risultato del grottesco nozionismo spacciato per filosofia. Che purtroppo è coerente con una scuola dalla quale dopo aver studiato scienze naturali per tredici anni a tre livelli di istruzione si esce senza che nei viali cittadini si sappia distinguere l’oleandro dal pitosforo. La stessa espressione “studiare filosofia” è priva di senso, come del resto è privo di senso “studiare la scienza”. Ciò che si osserva, e si studia, sono i fenomeni naturali e le leggi che li governano; se e quando si riflette sullo statuto epistemico, sul valore pratico o sui limiti di quello studio solo allora si comincia a filosofare. E si fa imbattendosi nei medesimi scogli e nelle stesse secche che hanno reso così fortunosa la navigazione del pensiero occidentale sempre a rischio di smarrire la rotta e naufragare nell’abisso dello scetticismo assoluto. Dal quale, a differenza di ciò che credono le anime semplici, l’uomo di scienza, che si pensa al sicuro dentro uno ziggurat in continua crescita proteso alla scalata del cielo, non è mai al riparo. Il progresso della conoscenza – e anche quello della tecnologia – ha una sola vera direttrice, che porta a riconoscere dietro l’apparente andare avanti un girare intorno nel corso del quale si fa sempre più chiara la miseria umana e si allunga l’ombra del mistero.

È il brivido che corre lungo la schiena non appena crolla lo schermo dei modelli matematici, delle divagazioni sullo spazio-tempo, sul rapporto fra materia e energia, sull’universo che si espande o si contrae, come se veramente ci fosse la certezza di “qualcosa”, e si impone l’evidenza che nel buio del cosmo non ci sono altro che tracce luminose. Del resto, se è ingeneroso impiccare i filosofi alle loro tesi fantasiose trascurando la loro ansia ad andare oltre, la loro smania di disvelamento – ἀλήϑεια -, è bene ricordare che il cammino della scienza è costellato di infortuni dai risvolti a volte umoristici come il flogisto per spiegare la combustione, l’etere per riempire lo spazio o la generazione spontanea di germi dallo sporco.
Ma che spazio può avere oggi il filosofo, in un Paese in cui il pensiero unico celebra i suoi fasti e impone la propria indiscutibile verità forte di un braccio secolare legittimato – si fa per dire – dalla burocrazia europea e dalla finanza internazionale. Peggio di quanto accadeva nei tempi bui nei quali la Chiesa imponeva il paraocchi alla ragione ma lo faceva per garantire a tutti la salvezza e un posto in paradiso, non per soldi o per puntellare i privilegi di pochi.

Pierfranco Lisorini

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