L’ETERNO RITORNO IN FRIEDRICH NIETZSCHE

Il pensiero dell’ Eterno Ritorno dell’Uguale ( Die Ewige Wierkunft des Gleichen) è stato definito dallo stesso Nietzsche Il più abissale dei suoi pensieri, perché riguarda la totalità cosmica, la totalità del tempo e la totalità dell’agire umano prima e dopo la scoperta, o meglio, la visione profetica dell’eternità del tempo senza origine e senza fine che eternamente si ripete avvolgendosi su se stesso in un moto circolare perpetuamente rinnovantesi in modo tale da far cadere la distinzione tra  passato, presente e futuro, dal momento che in questo moto circolare il futuro si converte continuamente in passato e il passato continuamente in futuro e il presente ritornerà, appunto, uguale a quello che è, che era e che sarà.

La concezione del tempo cosmico come un ciclo che eternamente ritorna su se stesso, e che quindi non ha né un’origine né una fine era familiare ai Greci, si pensi a Eraclito e al suo frammento B 30: “Questo mondo che è lo stesso per tutti, nessuno degli dei e degli uomini l’ha creato, ma sempre fu, è e sarà fuoco eternamente vivo che con ordine regolare  si accende e con ordine regolare si spegne” o anche agli Stoici e alla loro idea dei cicli cosmici e della periodica distruzione e rinascita dell’universo. Nel pensiero e nella cultura occidentale alla concezione ciclica del tempo è subentrata quella lineare e orientata della tradizione ebraico-cristiana, nella quale il tempo ha avuto un’origine e avrà una fine; concezione che verrà secolarizzata dall’Illuminismo, dall’ Idealismo romantico, dal Positivismo e dallo Storicismo. La visione nietzschiana del tempo riprende quella greca ed  è quindi antitetica a quella cristiana. La prima intuizione dell’idea o teoria dell’eterno ritorno dell’uguale Nietzsche l’ebbe, come racconta egli stesso in Ecce homo (1888) e come riferisce Maurizio Ferraris nell’ Intervista sul tema dell’eterno ritorno  (13 marzo 2016): “Nell’estate del 1881 quando si trovava a Silvapiana in Engadina, un luogo di montagna vicino a un bellissimo lago dove passeggiava nel pomeriggio, mentre di sera scriveva.

Durante una di queste passeggiate, Nietzsche ha questa immagine del tempo che lo spaventa e lo attrae: visto che il mondo è composto da un numero infinito di elementi e questi elementi non si creano  e non si distruggono (poiché si parte dall’ipotesi che Dio non esista) allora per forza di cose questi elementi dovranno riaggregarsi nella stessa maniera per un numero infinito di volte”. Questa idea “abissale e terribile” verrà meglio specificata per la prima volta  ne La gaia scienza (1882),  dove leggiamo l’aforisma 341 intitolato Il peso più grande: “La gaia scienza (1882),  dove leggiamo l’aforisma 341 intitolato Il peso più grande: ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutto nella stessa sequenza e successione – e così pure  questo ragno e questo lume di luna tra gli alberi e così pure questo attimo e io stesso.  L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta – e tu con essa, granello di polvere!’. – Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immane, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: ‘Tu sei un dio, e mai intesi cosa più divina!’? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda che ti porrai ogni volta e in ogni caso: ‘Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?’ graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che quest’ultima eterna sanzione, questo suggello? – “.

Nell’ aforisma 431 l’ idea baluginata presso il lago di Silvaplana alla mente di Nietzsche assume indubbiamente contorni più precisi, ma verrà ripresa e approfondita nella  terza parte di Così parlò Zararhustra(1885) soprattutto nei due capitoli La visione e l’enigma e Il convalescente ; ma il motivo dell’eterno ritorno dell’uguale echeggia in tutti gli altri capitoli. Da questo momento i vari motivi che si intrecciano nello Zarathustra confluiscono e si inverano in quello dominante dell’eterno ritorno dell’uguale,  e difatti il Superuomo, la Morte di Dio, la Volontà di Potenza assumono il loro senso o non senso alla luce dell’infinità cosmica del tempo circolare; per questa ragione l’eterno ritorno dell’uguale costituisce come la chiave di volta di tutto l’impianto  filosofico nietzschiano, tolta la quale crollerebbe come un castello di carte. Fondamentale in questo senso è il capitolo intitolato Della  visione e dell’enigma. Questo capitolo è composto di due paragrafi, nel primo a un certo punto leggiamo: “Marciando muto sul ghignante crepitio dei ciottoli, calpestando le pietre che lo facevano scivolare: così si spingeva in su il mio piede. In su: a dispetto dello spirito che lo tirava in giù, verso l’abisso, lo spirito della gravità, il mio demone e il mio peggior nemico. In su: nonostante egli sedesse su di me, mezzo nano, mezzo talpa; paralizzato: paralizzante, gocciolando piombo nel mio orecchio, pensieri come gocce di piombo nel mio cervello. ‘Oh, Zarathustra’ mormorava sillaba per sillaba beffardamente ’tu pietra filosofale, pietra scagliata da fionda, frantumatore di stelle! Hai lanciato troppo in alto te stesso, ma ogni sasso lanciato deve cadere!”. Il nano, cioè lo spirito di gravità, cerca di scoraggiare Zarathustra dal salire sempre più in alto, cerca di riportarlo in basso, tra gli uomini del mercato, spaventandolo: “O Zarathustra, pietra filosofale, pietra scagliata da fionda, frantumatore di stelle! Hai lanciato troppo in alto te stesso, ma ogni sasso lanciato deve ricadere! Condannato a te stesso e alla tua stessa lapidazione: o Zarathustra; lontano hai lanciato la pietra, ma ricadrà su di te!”. Ma Zarathustra, pur sentendosi come un malato sfinito dal suo tremendo martirio e che viene svegliato da un sogno ancora più tremendo; trova la forza di ribellarsi al suo spirito di gravità: “Ma in me c’è qualcosa; che chiamo coraggio: sinora mi ha ucciso ogni sconforto: Questo coraggio  alla fine mi impose di stare finalmente fermo e di dire: “Nano! O tu, o io!”. E qui Zarathustra scioglie una specie di inno alla virtù del coraggio che val la pena di citare per intero: “Il coraggio infatti è la mazza più micidiale; il coraggio che attacca: giacché in ogni attacco c’è una musica che risuona. Ma l’essere umano è l’animale più coraggioso: per questo vinse ogni animale: A suon di musica superò anche ogni dolore, e il dolore umano è pure il dolore più profondo. Il dolore uccide la vertigine accanto agli abissi: e quando l’essere umano non si trova accanto ad abissi! Vedere non equivale di per sé a vedere abissi? Il coraggio è la mazza più micidiale: il coraggio uccide anche la compassione. Avere compassione, però, è l’abisso più profondo: tanto a fondo guarda anche nel dolore. Ma il coraggio è la mazza più micidiale; il coraggio che attacca; uccide persino la morte; perché dice: “E’ stata questa la vita? Orsù! Un’altra volta!”. Ma è nel secondo paragrafo che emergono così la visione come l’enigma che alludono all’eterno ritorno dell’uguale; prima visione: la porta carraia. “Guarda questa porta carraia! Nano! Continuai: essa ha due volti.

Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine…Questa lunga via va all’indietro: dura un’eternità. E quella via che va in avanti dura un’altra eternità. Queste due strade si contraddicono; cozzano proprio testa contro testa, ed è qui, a questo passo carraio, che s’incontrano. Il suo nome è scritto in alto: ‘Attimo’. Ma chi percorresse una di queste, sempre avanti e sempre più lontano, credi tu, nano, che queste strade si contraddicano in eterno?”. E il nano rispose sprezzante: “Tutto ciò che è dritto mente. Ogni verità è curva, il tempo stesso è un cerchio”. “Tu spirito di gravità  “ risposi adirato “non renderti le cose troppo facili! Oppure ti lascio accovacciato dove stai, zoppo; ricordati che sono  stato io a portarti su! “Guarda – continuai – questo attimo! Da questo passo carraio chiamato attimo parte un lungo eterno sentiero all’indietro : dietro di noi c’è un’eternità. Non deve, quello che può accadere , essere già accaduto una volta, essersi già fatto, essere già passato? E se tutto è già esistito: che ne pensi tu nano di questo attimo? Anche questo passo carraio non deve essere già esistito? E non sono forse tutte le cose saldamente annodate tra loro tanto che questo attimo si tira dietro tutte le cose future? Quindi anche se stesso? Ciò che infatti è in grado di camminare, anche in avanti su questo lungo sentiero, deve percorrerlo un’altra volta!”.  Su questo “deve” così perentorio molto si è discusso, perché è chiaro che se dobbiamo camminare sempre sullo stesso sentiero ricalcando le nostre stesse orme in saecula saeculorum rivivendo infinite volte ogni attimo della nostra vita trascorsa proprio così come l’abbiamo già vissuto,  possiamo scordarci la nostra beneamata (!) libertà! Ma non è questa l’ultima parola di Zarathustra-Nietzsche, perché un conto è subire il nostro proprio destino, un altro, come pensavano gli Stoici, volerlo, e, come dirà la stesso Nietzsche, amarlo. E’ questo il profondo significato delle figure simboliche che compaiono nel secondo paragrafo del capitolo, cioè il cane, il pastorello e il serpente: “Allora, all’improvviso, udii ululare un cane vicino. Non avevo mai udito un cane ululare così? Si! Quando ero bambino! Nella lontanissima infanzia: allora udii un cane ululare così E lo vidi anche, con il pelo ritto, il muso alzato, tremante, nella mezzanotte più silenziosa, quando anche i cani credono ai fantasmi: così che mi fece pietà. Proprio allora infatti la luna piena salì in silenzio di morte sopra la casa, proprio allora si fermò, sfera infiammata, silenziosa sul tetto piatto, come su proprietà altrui: allora il cane ne fu spaventato: i cani infatti credono ai ladri e ai fantasmi.

E quando lo sentii di nuovo ululare a quel modo, ebbi di nuovo pietà di lui. Dove era ora il nano? E il passo carraio? E il ragno? E tutti i sussurri? Avevo forse sognato? Mi ero svegliato? Di colpo mi ritrovai tra sogli selvaggi, solo, desolato, nel più desolato dei chiari di luna. Ma là giaceva un essere umano! Ed ecco il cane , saltando, il pelo irto, dimenando la coda, ora mi vedeva venire, ululò di nuovo, ecco gridò : non avevo mai udito un cane gridare aiuto così? E in verità, quello che vidi non lo avevo mai visto. Vidi un pastorello che si torceva, soffocava, tremava, con il volto convulso, e dalla bocca gli pendeva una pesante serpe nera. Vidi mai così tanto schifo e livido orrore su un solo volto? Stava forse dormendo quando il serpente gli era strisciato dentro la gola, dove si era ancorato mordendo. La mia mano tirò il serpente e tirò, invano! Non riuscì a strappare il serpente dalla gola. Allora da me eruppe un grido: ‘Mordi! Mordi! Mordigli via la testa! Mordi!’ “Così gridò  da dentro di me il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà; tutto il mio bene e il mio male proruppero in un grido da me. Voi coraggiosi intorno a me! Voi ricercatori, sperimentatori, e chi di voi si imbarcò con vele sagaci su mari inesplorati! Voi che amate gli enigmi! Interpretatemi dunque l’enigma che io allora osservai, interpretatemi dunque l’enigma che io allora osservai, interpretatemi la visione del solitario!  Fu una visione , infatti, e una preveggenza: che cosa  vidi allora per simboli? E chi è colui che dovrà un giorno venire? Chi è il pastore cui il serpente strisciò così nella gola? Chi è l’essere umano, cui così tutte le cose più pesanti, più nere, strisceranno nella gola? Ma il pastore morse, come gli consigliava il mio grido; diede un buon morso! Ben lontano sputò la testa del serpente, e saltò in piedi”. Completamente trasformato, sì, ma in che cosa, o meglio, in chi? “Non più pastore, non più essere umano, un trasfigurato, un circonfuso di luce, che rideva ! Sulla terra mai essere umano aveva riso come rise lui !” E se il pastore liberatosi dal serpente che lo soffocava, rideva non da essere umano,  chi era diventato? Zarathustra- Nietzsche non lo dice, ma noi ne deduciamo che quella risata non umana era il  primo vagito del Superuomo o Oltreuomo che dir si voglia. “Oh, fratelli miei, io udii una risata che non era risata umana, e ora mi divora una sete, una nostalgia che non si placa mai. La nostalgia di quella risata mi divora: oh, come posso sopportare ancora di vivere! E come posso sopportare, ora, di morire!”. L’ultima parola di Nietzsche è: non rassegnarti al tuo destino; non lasciarti scegliere da lui; ma sii tu a volerlo; anzi; ad amarlo. Questo si chiama amor fati , con questa scelta l’uomo supera se stesso e ricupera la sua libertà.

Fulvio Sguerso

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