In sala d’attesa

In sala d’attesa

In sala d’attesa

 Non ci vuole poi molto per fare una radiografia. Ma la sala d’aspetto è angusta, se non altro per via del solaio basso e per la mancanza di finestre. Ci sarebbero alcune riviste piuttosto fruste sul tavolino, ma è sicuramente più divertente guardarsi intorno e spiare le vite degli altri, le facce, gli sguardi pensosi, gli occhi socchiusi. Tra l’altro la sala è piena di gente, e non mancheranno quindi le occasioni per una proficua osservazione del panorama umano.

Davanti a me, ad esempio, c’è una bimbetta bellissima, non ha più di cinque anni. Sta giocando con una rivista. Non guarda le foto, non legge. È più interessata alla carta come materia, e alla forma che quella rivista assume una volta che viene strapazzata, tenuta per un pizzo, arrotolata. Si gode l’elasticità della carta patinata, come e quanto scivola sulle dita. La bimbetta è molto concentrata (il gioco è una cosa seria) e tiene pochi millimetri di lingua affacciata fra le labbra. Ha gli occhi nerissimi, i capelli ricci folti, un paio di treccine legate con un nastrino bianco. Sembra contenta. La madre, che si trova nella sala attigua, ogni tanto le dà una voce. Lei risponde con sussiego, sottendendo che questioni ben più urgenti che non l’obbedienza materna la premono. Eh certo! Sta imparando! Sta scontrandosi delicatamente con la materia in una delle sue più belle e affascinanti forme. La mamma è bianca, europea. La bimba è africana. Sembrano serene e felici, sia la madre che la figlia.

Dal fondo del corridoio avanza un uomo. Avrà ottant’anni. È dritto e magro. Porta delle brache un po’ larghe, un golfino leggero sotto il quale si disegna, all’altezza del cuore, un pacchetto di sigarette. Tiene le mani in tasca. E le vedi quasi, quelle mani: sono grosse e resistenti, come quelle dei contadini. Pochi capelli bianchi ben ravviati. Gli occhiali spessi e lo sguardo curioso.

Ho sempre avuto la dote di attrarre su di me le persone che hanno voglia di chiacchierare. Forse perché sostengo il loro sguardo, forse perché non mi dispiace chiacchierare con gli sconosciuti. L’uomo anziano mi vede, mi nota, e comincia una manovra cauta di avvicinamento, per sondare il terreno, vedere se sono il tipo adatto per buttar lì due balle: il tempo, i ladri del governo, la vecchiaia… Ma sulla sua traiettoria c’è la bimba. La nota e si ferma. Gli scappa un sorriso piccolo piccolo. Avrebbe qualcosa da dire, a quella bimba, è colpito e attratto da quella tenerezza. Ma non sa come fare. Dopo averla ben considerata (non visto) le dice a voce chiara ed alta: “E te cosa fai?”. Io stesso, insieme a molti astanti, abbiamo sobbalzato. Chi vive in campagna parla molto chiaro. I toni bassi, i sussurri, i problemi di incomunicabilità o di fraintendimento sono molto più facili per chi vive in un appartamento in città. La dimensione agricola è fatta di comunicazioni che devono essere chiare, e quando c’è da dire qualcosa di complicato si usano quelle meravigliose sintesi che illuminano una giornata intera, e che, accompagnate da un gesto o un’espressione, soddisfano perfettamente tutte le esigenze di comunicazione.

Ma qui no. Qui siamo in una sala d’attesa di una cittadina. C’è tanta gente, gente che non si conosce. E la stessa domanda posta in un’aia (“Cosa fai?” o “Dove vai?” o “Cos’hai mangiato a pranzo?”) non sarebbe considerata impertinente.

La bimba si volta quieta, alzando lo sguardo che puoi indovinare tenerissimo, e dice con la sua vocina serissima: “Sto giocando”.

 

L’uomo non sa più cosa dire. Anzi, si ritiene soddisfatto della risposta, sorride, e passa oltre. Arriva a un paio di metri da me e mi fa un sorriso che sembra una smorfia. Allora sorrido anch’io (un po’ più ampio) e lui mi parla, da subito in dialetto. Dice che se piove ancora un po’ non sa proprio dove andiamo a finire. Dall’accento mi sembra di Spigno Monferrato, forse di Montaldo. Gli dico (in dialetto) che quest’anno acqua, caprioli e cinghiali non mancheranno. La faccia dura si apre in un sorriso cordiale. Dice che ci sono anche i funghi chiodini (buriene) dalle sue parti, che ne ha già fatto due borsate. E invece ai cinghiali ci andava una volta. Partiva presto di notte, stava appostato. Quando tirava ad una bestia, che la seccava, suo padre la veniva a prendere e la portavano nel cascinotto, dove c’era tutto pronto per “darci camino”. Poi lui faceva in tempo a cambiarsi e prendere il treno per andare a fare dalle sei alle due in fabbrica. Dice che era giovane, allora. Che lavorava la sua cascina quasi tutto da solo: venticinque ettari di grano, orzo, mais. E poi un bell’orto con le patate e le verdure e a casa conigli e galline, qualche vacca e due maiali. Che lui era abituato così, che già da prima di sposarsi faceva quella vita lì. Tutto il giorno nei campi e poi alla sera andavamo in veglia, a mangiare pane e salame, a ballare. Io vengo da Roboaro, dice, e avevo cinque fidanzate, una per paese. E alla sera, dopo ballato, le coricavo tutte, una per volta, in mezzo alle foglie del granturco. Robe da matti…

E adesso ti riposi un po’? Gli chiedo.

Adesso niente. Non vale la pena. Ti danno una miseria del grano, dell’orzo, delle bestie. Mi faccio un po’ d’orto e basta. E poi, da quando ho trovato questa donna qui (la moglie stava, presumibilmente, facendo una radiografia) mi sono messo a posto. Abbiamo una figlia, sposata, un bel nipotino. Ma la campagna non vale più niente. Pensare che ho venticinque ettari in piano come qui, e indica il pavimento della sala d’attesa.

Si è fermato ora. Lo sguardo è lontano, sta guardando i suoi campi belli, in piano. Redditizi e prosperi, vogliosi di gonfiare le gemme e proliferare in innumeri semi. E ora a riposo. Come lui.

Io a Giusvalla conoscevo Tètto. Dice.

Come fai a sapere che sono di Giusvalla? Dico.

Eh! Nel parlare. Si capisce.


Io non sapevo di portare così radicato l’accento del mio paese, visto che non ci sono propriamente cresciuto, visto che se mi ascolta un giusvallino è pronto a giurare che io non sono di Giusvalla. Ma tant’è… E la cosa mi riempie di una profondissima soddisfazione.

Tètto a Giusvalla è una specie di istituzione. È stato il leader dei “Campagnoli”, scelta orchestra specializzata in giacche di lamé e tre quarti ripetuti come mantra, alle feste di paesi circonvicini. Fisarmonicista instancabile, mangiatore e bevitore pantagruelico, dotato (per fama) di identico appetito anche per quel che riguarda le forze care a Priapo.

Orca miseria, prosegue l’uomo, andavamo per quelle feste io e Tétto, e poi ne abbiam coricate di ragazze sulle sfoglie del granturco…

Non so esattamente se le sfoglie del granturco abbiano un significato simbolico in questo caso. So che possono essere addirittura taglienti, che non sono propriamente la cosa più comoda su cui insidiare una fanciulla. Ma noto che tornano, nel racconto. Soprattutto nel contesto della schermaglia amorosa.

Poi penso a tutta questa vita che ho davanti, a questa storia. A quest’uomo impregnato di terra, di sudore e vita. Vorrei dirlo senza retorica, ma è difficile. Vivere nei campi, cavare dalle proprie braccia il sostentamento della propria famiglia, solcare la terra, preservare le piante, i campi e i boschi, allevare e uccidere animali, fa tutto parte di un insieme sacro (non saprei come diversamente identificarlo) che ha a che fare profondamente con l’uomo, con l’essere umano. Da quei venticinque ettari ha cavato tutto quel che si poteva cavare, con soddisfazione, con volontà. Non mai da solo, per davvero, perché il lavoro agricolo è sempre un lavoro che fai con gli altri, fosse solo per avere un riferimento, un consiglio, un occhio di riguardo, un prestito, un seme. E quella forza che a vent’anni serviva per coricare le fanciulle è stata convertita per coricare la terra, e formare il proprio nido, adatto, funzionale, sicuro, in cui ospitare la propria tribù, nel contesto del villaggio. Lui è di Roboaro. Non è avulso dal territorio: lì ha i suoi parenti, i suoi amici, anche i suoi nemici. Forse ha i vecchi al camposanto, oppure sono in un cimitero vicino. O magari lui, suo padre o suo nonno, provengono dai “venturini”, come chiamavano un tempo i bambini che facilmente si potevano accogliere in casa dall’orfanotrofio. Non importa: quell’uomo è la sua terra, e l’ha fecondata come ha fecondato la moglie (magari non solo la moglie), e ha saputo uccidere bestie (facendole soffrire il meno possibile) e non l’ha sprecate. E la sua libertà è sempre stata quella di bastare a sé, alla sua famiglia, e ai suoi vicini. Per cui gira oggi con lo sguardo alto e chiaro, parla ad alta voce, e non ha scrupoli e filtri se vede una bambina che gioca. Le chiede conto di quel che fa con durezza, con chiarezza, come se le volesse dire, bada: il tempo che hai a disposizione è poco, usalo bene. Giochi? È un ottimo metodo per passare il tuo tempo. Sei una bambina, è il momento più adatto. Anch’io ho giocato, poco forse, poi ho lavorato, ho fatto l’amore, ho fatto figli, e ora sono vecchio e mi riposo, perché non saprei rendere più, come non rendono più i miei campi in piano e bene esposti.

In tutto quel che mi ha raccontato quest’uomo non c’era un filo di rimpianto, di nostalgia, di tristezza. Aveva fatto ciò che andava fatto. Semplicemente.

Allo stesso modo, più naturalmente, quella bambina che giocava, scevra ancora da condizionamenti, nevrosi o consigli televisivi, aveva risposto serenamente ad una domanda serena e improvvisa, che ha impaurito in qualche modo noi adulti e condizionati. Cosa vuoi che faccia? Gioco, non vedi? È importante per me giocare! E ti rispondo educatamente, ma non farmi perdere troppo tempo, perché sto imparando la magia della materia, delle mie dita e di come posso spendere il mio tempo anche quando sembrerebbe proprio che sia tempo sprecato.

ALESSANDRO MARENCO

 

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