Una brevissima risposta sul nazifascismo a P. F. Lisorini

Recuperando alcuni articoli delle scorse settimane usciti su «Trucioli Savonesi» ne ho individuato uno, a firma di Pier Franco Lisorini, dal titolo «La menzogna del nazifascismo e l’attrazione fatale dei fratelli d’Italia per i patrioti ucraini».
Non si intende qui intervenire circa la parte finale del discorso condotto nel testo, quella appunto che giunge a misurarsi con la vicenda russo-ucraina, ma solo rispondere brevemente, davvero in poche righe, alla tesi avanzata dall’autore circa la sostanziale scorrettezza dell’uso del termine «nazifascista», che rimanderebbe – appunto – a un concetto non reale, ma leggendario e insomma mistificato.
Non siamo d’accordo. Si legge nell’articolo che i due movimenti, fascismo e nazismo, «nonostante la coincidenza temporale e le reciproche influenze abbiano ben poco in comune». A suffragio di ciò, l’autore parla del primo fascismo, quello (a parole) rivoluzionario, come di un movimento interclassista, tra i cui propositi vi sarebbe la riduzione dell’accentramento statale: sarà, ma ci sembra più rilevante notare come ambedue queste (pretese) direzioni siano state completamente invertite dall’azione politica del fascismo stesso, alleato di fatto della borghesia e massimo accentratore di tutta la storia politica nazionale. Certamente il gran mischione di riferimenti culturali su cui il fascismo costruì una dottrina è poi delineato con chiarezza ed è certo corretto vedere il suo fulcro nella centralità della patria.

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Tuttavia, di nuovo non ci ritroviamo quando Lisorini vede una grande differenza fra i due regimi, italiano e tedesco, in quanto il primo sarebbe stato appunto figlio di un approccio patriottico nato da una deviazione di un percorso, se non di sinistra, almeno progressista, mentre il secondo deriverebbe da  un terreno conservatore fondato su un’identità di carattere razziale.
Vi è in ciò una parte di verità, ma ci sembra non venga considerato un elemento: vale a dire, che il fascismo (peraltro niente affatto progressista e anzi portato già dal ‘19 a una visione di stampo conservatore legata allo stereotipo del mantenimento dell’ordine pubblico di fronte ai movimenti operai, ma su questo non insistiamo) attua, seppure attraverso una linea di demarcazione patriottico-nazionale prima che razzistico-nazionale, una politica di divisione, discriminazione, esclusione che all’atto pratico ha ben poco di diverso rispetto a quella nazista, con anzi il torto aggiuntivo di essere nata prima (Hitler, come noto, a lungo considerò Mussolini il suoi maestro). Alla discriminazione politico-culturale, peraltro, che il fascismo attua fin da subito e non certo con moderazione (serve forse citare Matteotti o Gramsci?), seguirà anchequella di discriminazione razziale: prima con il sistema di proibizioni, divieti e tabù imposto nelle colonie, poi ovviamente con le leggi antiebraiche. In conclusione, se i presupposti iniziali dei due totalitarismi possono apparire differenti, l’effettiva azione appare perfettamente coerente fra loro, considerando l’indiscutibile realtà dei fatti storici. Del resto, come notava Lord Stockton quando ancora si chiamava soltanto Harold MacMillan, che cos’è la storia se non, prima di tutto, «i fatti, ragazzo mio, i fatti»?
Il fascismo, si apprende poi leggendo Lisorini, avrebbe derivato dalle radici concretamente storiche della romanità un pragmatismo tale da costituire un antidoto al fanatismo, al contrario del misticismo runico e para-wagneriano dei semi culturali nazisti. Ciò renderebbe i due modelli addirittura «inconciliabili» e il ruolo dello Stato come fonte totalitaria sarebbe rimasto in Italia soltanto una vuota enunciazione di principio, diversamente dai casi della Germania e anche (citata un po’ ex abrupto) dell’Unione Sovietica. In Italia – riassumo sempre il pensiero dell’autore dell’articolo – il regime avrebbe avuto consenso pressoché plebiscitario ma senza realizzare un pieno controllo delle strutture sociali e politiche per via della presenza di altre istituzioni (la Monarchia e la Chiesa), risultando in definitiva «cauto nella repressione del dissenso».
Qui siamo rimasti, francamente, molto perplessi. Semmai può essere vero che il fascismo non fu preso sul serio da troppi, a partire dallo stesso Re; e poté quindi contare su un fortissimo atteggiamento di favore che rendeva, prima che difficile, inutile mettersi ad abbattere certe strutture preesistenti. Che Re Vittorio Emanuele avesse scarsa simpatia per il Duce è noto, ma sempre osservando quel dettaglio della storia che sono gli eventi, appare chiaro, almeno a noi ingenui, che l’antipatia personale non gli abbia impedito, dalla sciagurata marcia su Roma alla sciaguratissima entrata in guerra, di fornire al suo Primo Ministro un’amplissima copertura politica; che Pio XI, seppure modificando le proprie opinioni negli ultimi anni di pontificato, abbia ben collaborato, prima, con il Capo del Governo che che intendeva porre fine alla Questione Romana (e che concesse al Vaticano l’aumento delle congrue) è fatto addirittura siglato da quei noti accordi concordatarii del febbraio del ‘29; quanto alla cautela nella repressione del dissenso, confidiamo non serva riproporre qui gli elenchi delle migliaia di cittadini uccisi, feriti, picchiati, torturati, derubati, umiliati, offesi, discriminati, esiliati, confinati, calunniati, insultati, spiati, minacciati nel corso del Ventennio. Solo a titolo di esempio, furono segno di morbida cautela nel gestire il dissenso le morti dei Rosselli, o di Gobetti, Gramsci, Amendola, Matteotti, Don Minzoni? Non ci dilunghiamo oltre su questo, ma quella frase sul fascismo propenso a una repressione leggera (che a taluni ricorderà una celebre confusione di qualche anno addietro tra villeggiatura e confino) ci sembra si qualifichi – e molto male, non ce ne voglia il suo autore – da sé.
Il Lisorini, infine, tace completamente sull’esperienza di Salò: e sbaglia, secondo noi, perché il fascismo repubblichino si presenta da subito sia come fattuale e attivo collaboratore dei nazisti sia come ritorno alla radice rivoluzionaria delle origini, senza più le pastoie romane e sabaude a frenare l’azione del partito-Stato. Parole vuote, certo, vista la debolezza della RSI, ma significative di come, nell’ottica della propaganda e del serrare le fila sui valori identitarii, il concetto della patria per cui immolarsi fino alla “bella morte” si possa realizzare appieno solo nell’alleanza e nella piena collaborazione con il sistema razzistico tedesco. Questo, del resto, non lo diciamo solo noi:

Si parla sempre di Shoah pensando ai nazisti, mentre la Shoah e la persecuzione ebraica che ha portato alla Shoah sono anche un problema italiano. Di qui sono partiti i treni. In Italia c’erano dei campi […]. C’è un filo ideale […] che parte pian piano da quelle leggi razziali […].

    Così la Senatrice Segre intervistata nel 2008 da Daniela Padoan su Raitre nella trasmissione dalle leggi razziali alla Shoah; ma ben prima di lei Primo Levi, intervistato (era il 1973) da Marco Pennacini, nipote di deportati a Mauthausen, aveva affermato (l’intervista si trova presso l’Archivio del Centro Internazionale di Studi Primo Levi):

Tendo a mettere in chiaro che c’è una linea diretta, diritta, che parte dalle stragi di Torino del ‘22 – Brandimarte –  e finisce ad Auschwitz. C’è una continuità abbastanza evidente. Si tratta di qualcosa che è stato inventato in Italia e perfezionato in Germania. Le prime stragi fasciste sono italiane. Lo sterminio industriale è tedesco, ma la violenza a scopo politico in questo secolo è un’invenzione italiana.

    Levi, con la nitida chiarezza che gli era propria, era dunque convinto che l’esperienza delle due dittature fosse coerente e comune: un’esperienza, insomma, nazifascista. Noi, senza nulla togliere a chi la pensa diversamente, concordiamo con lui.

Jacopo Marchisio

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