Un appello al governo: restituiteci il gioco del calcio

Da decenni il calcio non è stato più essenzialmente un gioco ma è diventato sempre più un affare. Un affare riservato tra presidenti, direttori sportivi, procuratori, allenatori, calciatori, media, politici, finanzieri e piccole frange di sedicenti tifosi. Un affare svolto a danno esclusivo di tutti coloro che invece desideravano e vorrebbero ancora vivere il calcio come uno sport.

Sandro Mazzola e Giovanni Trapattoni in un derby Milan – Inter anni Sessanta (fonte Wikimedia Commons)

Che cosa sia diventato oggi il gioco del calcio è difficile dirlo con esattezza. Quel che invece è certo è che il calcio, oggi, non è più un gioco. Per chi ha soltanto qualche anno in più rispetto alla media, come me, ricorderà ciò che disse il mitico presidente dell’Ascoli calcio, Costantino Rozzi, allorquando, a seguito della trasformazione organizzativa delle società di calcio in S.p.A., disse per l’appunto che “il calcio era finito”. Era il 1979.

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Sono passati 44 anni e da allora, in Italia, il calcio non è stato più essenzialmente un gioco ma è diventato sempre più un affare. Un affare riservato tra presidenti, direttori sportivi, procuratori, allenatori, calciatori, media, politici, finanzieri e piccole frange di sedicenti tifosi. Un affare svolto a danno esclusivo di tutti coloro che invece desideravano e vorrebbero ancora vivere il calcio come uno sport.
Dall’inglese, abbreviazione del termine disport, la parola “sport” significa divertimento; quel divertimento che nel mondo del calcio italiano oggi non esiste più, tra gli affari a cui abbiamo accennato e la tecnologia che, negli ultimi 15-20 anni, essenzialmente gli fa da supporto. Al punto che, prima di esultare o disperarsi per un gol, occorre aspettare davanti alla tv il giudizio del Var o della Var e in futuro non sappiamo quale altra diavoleria ancora.
Ma il discorso non finisce qui, perché, sempre in negativo, c’è anche dell’altro. E infatti, oltre agli affari e alla tecnologia, sembra che anche i regolamenti siano ora considerati in qualche modo più flessibili e quindi arbitrari, e cioè piegati più facilmente alle esigenze del business di turno. E sia chiaro che non stiamo qui a opinare su una presunta violazione del principio giuridico del “ne bis in idem”, e cioè se – nel caso di specie della penalizzazione di 15 punti inflitta venerdì u.s. alla società torinese della Juventus – sia stato riaperto un giudizio viceversa chiuso a maggio scorso in base a una sentenza diventata “definitiva”.
No, la questione è piuttosto un’altra, e cioè come sia stato o sia possibile che una società – dicesi una – sia stata punita per uno o più comportamenti in violazione delle regole che disciplinano il fenomeno delle “plusvalenze” legate allo scambio di uno o più calciatori. Se il fenomeno avesse riguardato solo la Juventus, allora la realtà non c’entrerebbe, perché dovremmo piuttosto ammettere che, come il famoso re Mida, la Juventus FC sia stata l’unica società del calcio italiano capace di trasformare in oro tutto ciò che in questi tanti anni ha toccato. E ancora: a vantaggio di chi? Oltre se stessa, senz’altro a vantaggio di tutti coloro che in Italia in questi ultimi 44 anni hanno fatto affari con il calcio.

Angelo Giubileo  da PENSALIBERO

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