Timore e tremore degli intellettuali e invadenza dei cercapersone
Il 24 ottobre scorso sulla “Stampa”, in sedicesima pagina, un unico brevissimo articolo in taglio basso sul conflitto mediorientale dal titolo:
“Libano, confermata la morte di Safieddine. Hezbollah lancia decine di razzi a Tel-Aviv”
Al suo interno si legge:
Si registrano 28 vittime in Libano ieri. A nord di Gaza, situazione complicata. Fonti palestinesi denunciano la morte di 35 persone.
Una riga e mezza di giornale. 63 morti per una riga e mezza di giornale.
Il 26 ottobre sul “Corriere della Sera” in quindicesima pagina, un articolo altrettanto breve dove l’inviato a Gerusalemme fa quel che può in base allo spazio che gli hanno concesso, per raccontare del razzo che ha ucciso il marito, due figli e dodici parenti di una donna; per l’uccisione di tre giornalisti palestinesi perché secondo il giudizio insindacabile dell’Idf collaboravano con Hezbollah; per i 38 morti, compresi 13 bambini e due intere famiglie sterminate, i Parrah e gli Abdeen, oltre che un operatore di Medici Senza Frontiere; per riferire dell’ordine dato a centinaia di migliaia di profughi di spostarsi nonostante le bombe e per i minibus bianchi carichi di cibo e medicine centrati dal fuoco dei droni.
I TG nostrani, da parte loro, tradiscono vieppiù con studiata laconicità o con il silenzio, il clima di massima prudenza, deferenza e finanche autocensura che sempre più palesemente si respira un po’ in tutte le redazioni: con lo Stato ebraico bisogna essere sempre molto soft.
Perché è protetto dagli Americani, perché è solito prendere nota di chi lo contrasta e perché altrimenti in automatico scatta l’accusa infamante di antisemitismo.
Alcuni giorni fa la notizia della morte a seguito di un bombardamento israeliano di oltre 70 persone, dalla TV è stata data nel giro di 8 secondi ( non stupisca la acribìa, ma una volta percepito che un fatto rientra in uno schema comunicativo da replicare, bisogna passare dalla presa di coscienza soggettiva al maggiormente probante dato oggettivo; cosa che si può fare solo se esso viene confortato da riscontri precisi. Lo richiede l’onere di rappresentare tutti gli altri fatti caratterizzati dalla stessa modalità ).
In questo quadro al limite della genuflessione non si può fare a meno di constatare quanto invece serva, per non essere vaghi, individuare un fatto che renda esemplarmente ciò che si è detto.
La vicenda dei cercapersone si presta bene.
Infatti non risulta, tranne qualche rara eccezione, che ci siano stati giornalisti tra quelli che hanno ampia visibilità sulla carta stampata o in televisione, che abbiano avuto il coraggio di dire che quanto accaduto a settembre in Libano con i cercapersone, e poi con gli walkie-talkie, e poi con i bancomat, è terrorismo.
Nessuno ha ufficialmente rivendicato quelle migliaia di esplosioni, perciò non c’era neanche bisogno di indicare un responsabile. Bastava dire che si trattava di terrorismo.
Ma anche questo evidentemente è sembrato troppo, perché si sapeva benissimo a chi la gente avrebbe pensato.
Non ci sono scuse: se eventualmente coloro che per professione hanno il compito di correttamente informare nutrivano qualche dubbio semantico su cosa sia terrorismo e cosa no, per scrupolo prima di chiamarlo in causa potevano consultare un’enciclopedia e vedere cosa al relativo lemma si legge:
L’uso di violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine, mediante azioni quali attentati, rapimenti, dirottamenti di aerei e simili. [ Enciclopedia Treccani ].
O la solita Wikipedia:
Il termine terrorismo nel diritto internazionale, soprattutto in ambito penale, indica azioni criminali violente premeditate aventi lo scopo di suscitare terrore nella popolazione tra le quali attentati, omicidi, stragi, sequestri, sabotaggi, dirottamenti ed altri eventi che causino danni di collettività ad enti quali istituzioni statali, enti pubblici, governi, esponenti politici e pubblici, gruppi politici, etnici e religiosi.
Ecco, la vicenda dei cercapersone del 17 settembre scorso soddisfa le suddette definizioni, e inoltre dimostra una strategia che per ottenere quello che le torna utile, non bada a punire persone innocenti e non tiene minimamente in conto i cosiddetti danni collaterali.
Poco sappiamo di quanto in Libano è accaduto dopo questo attentato. Per esempio che la gente, terrorizzata, ha evitato di usare per diversi giorni le apparecchiature elettroniche, condizionando così pesantemente la propria vita e l’economia del Paese.
Si temeva che anche un tablet o un cellulare potessero scoppiare, per cui le transazioni, i contatti, le informazioni, l’invio di file, le mail, la gestione delle infrastrutture da remoto, il commercio on line etc, si sono praticamente azzerati. E pare che addirittura siano esplosi strumenti per la produzione di energia fotovoltaica.
Di più sappiamo di come le persone a migliaia siano rimaste ferite e a centinaia abbiano perso o le dita, o le mani, o la vista, e a decine siano morte.
Nei Pronto Soccorso, improvvisamente e simultaneamente si è dovuto far fronte ad una massa impressionante di persone bisognose tutte dello stesso tipo di intervento, e pertanto rimaste a lungo prive di cure.
Ma in Italia solo poche voci isolate hanno detto veramente qualcosa.
Per il resto, nessuna considerazione, nessuna critica, nessuna condanna, nessun approfondimento che siano andati oltre il mero riferire l’episodio, e che si siano preoccupati di far luce sul significato e sulle implicazioni di una siffatta azione.
Che un cercapersone o un walkie-talkie quando avessero squillato sarebbero stati impugnati da qualcuno estraneo ad Hezbollah; che al Bancomat si sarebbe potuta recare una qualsiasi persona incaricata; che avrebbe potuto essere colpito chiunque il quale in quell’istante per caso fosse stato fisicamente vicino al possessore dell’apparecchiatura elettronica, tutti l’hanno pensato ma nessuno ( o quasi ) l’ha scritto.
Pochissimi, poi, sempreché ci siano stati, hanno formulato domande tipo:
“E se l’esplosione fosse avvenuta su un’auto in movimento? O su un aereo? O durante un rifornimento alla pompa di benzina? O in un qualsiasi ufficio affollato?”
Tra chi non si pone queste domande, il ministro delle Finanze israeliano Smotrich, che ha già dichiarato di voler festeggiare il prossimo anno la festa di Simchat Torah in una Gaza piena di colonie.