Sul sacrificio di Isacco

Il sacrificio di Isacco del Caravaggio (da Wikipedia)

Uno degli episodi veterotestamentari più celebrati, conosciuti, ritratti ed esaltati, è quello di Abramo che, ricevuto da YHWH l’ordine di sacrificare Isacco, non tentenna un attimo e si appresta ad ubbidire, e solo mentre sta per dare esecuzione alla richiesta ricevuta, l’angelo di Dio gli ferma la mano armata di coltello, e gli impedisce di scannare il figlio.
Lì, in questa aderenza cieca al volere della divinità, ci sarebbe la prova della massima, indefettibile, incrollabile fede; della misura assoluta dell’uomo scelto per essere il fondatore di una nuova religione e di una nuova nazione.
Abramo il massimamente pio e fedele, dunque. Ma anche il buono e il giusto?
La fede che valore viene ad assumere in un siffatto episodio?
Gli antropologi tendono a interpretare la vicenda come l’allegoria del trapasso dalla società che ammette i sacrifici umani a quella che li vieta, e che quindi abbandona l’idea di una religione violenta per quella di una che alla violenza e al sacrificio non può rinunciare, ma li stempera reindirizzandoli sugli animali (come si sa, al posto di Isacco, YHWH ordinerà che venga sacrificato un montone). E ciò potrebbe anche essere vero.
Ma stando al contenuto del racconto, resta che Abramo era disposto ad uccidere, e perciò in quel momento riponeva la sua fede in un Dio sanguinario, non degno della fede cieca che lui gli stava tributando.
Su quali basi e convinzioni allora poggiava la fede di Abramo prima che YHWH dimostrasse di essere diverso da colui che gli aveva chiesto di uccidere? Con tutta la sofferenza di un padre, infatti, Abramo aveva accettato quel primo Dio sanguinario.
E’ vero, quello stesso Dio, dopo averlo messo alla prova, gli avrebbe fermato il braccio, dimostrandosi benevolo. Ma lui la sua fede la ha dimostrata al primo Dio.
Abramo, dunque, per che cosa è stato premiato e nei secoli lodato, se non per la sua fede malata?
A causa di essa sarebbe stato disposto ad uccidere, e ad uccidere suo figlio.
E per cosa? Qual era il sentimento che poteva provare per YHWH? Dettato da cosa? Prendendo alla lettera il versetto 22 , 12, dal timore? Oppure Abramo ubbidisce a YHWH per amore? O ancora per una sorta di riconoscenza (nel senso: “Dio mi ha dato progenie ed è quindi giusto che possa togliermela”)? 

Se il suo volto autentico Dio lo rivela in seguito, perché Abramo prima è disposto ad ubbidire, e forse amare, un Dio che è l’opposto di quello vero e che finge (ma Abramo non lo sa!…) di potersi appagare solo col sangue? Insomma un volto completamente diverso da quello simboleggiato dall’angelo che nell’ictus dell’episodio gli impedisce di portare a compimento quanto gli aveva intimato?
Se invece l’ubbidienza di Abramo fosse stata determinata dalla speranza di una ricompensa, quale ricompensa avrebbe potuto ripagare la morte di un figlio? (“il tuo unico, quello che tu ami” Gen. 22, 2 ).
Forse la ricompensa che poi in effetti gli viene elargita? : “io ti colmerò di benedizioni, moltiplicherò la tua discendenza come le stelle del cielo e come la rena che è sulla spiaggia del mare e la tua discendenza possederà la porta dei suoi nemici e nella tua discendenza saranno benedette tutte le nazioni della terra” ( Gen. 22, 17-18).
Cosa possono comportare di così grande le benedizioni di cui verrebbe a godere, la moltiplicazione della discendenza, la vittoria sui nemici e la prosperità delle nazioni che i suoi discendenti costituiranno, da essere preferibili alla vita del suo figlio unigenito?
Se per Abramo valesse una siffatta contropartita, si potrebbe ancora pensare al volto di Abramo come ad un volto circonfuso di santità e all’episodio di cui è il protagonista potremmo ancora attribuire il valore morale che gli è sempre stato tributato? 

Fulvio Baldoino

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