Sul genere letterario dell’aforisma
La prima cosa che salta agli occhi è la brevità.
L’aforisma si apre-chiude in poco spazio. A volte non completa una riga.
Ciò lo rende comodo come livre de chevet.
Non c’è bisogno l’indomani di richiamare mentalmente la storia come per un romanzo, o il filo del discorso come per un saggio per ricominciare la lettura.
Si riprende il libro dal comodino dove lo si era lasciato la sera prima, e si va avanti con un altro aforisma che col precedente non ha magari nulla a che fare. Forse perché l’autore lo ha scritto un giorno, o un mese o un anno dopo; o prima, e in seguito ha deciso di posporlo. Perché i suoi pensieri si erano nel frattempo rivolti ad altro.
O forse perché la sua riflessione non era concatenata, ma era solo il frutto di un flash, di un’impressione, o di un’emozione passeggera e particolare. O per mille altri motivi.
Resta che se per un filologo misurarsi con una raccolta di aforismi al fine di individuarne la cronologia è il compito più difficile, lo è pure per lo stesso autore il quale, appunto, all’ordine cronologico volesse attenersi per darsi un criterio con cui mettere in fila i suoi pensieri estemporanei recuperati da tovaglioli cartacei di trattoria, bordi-pagina e risvolti di copertina, voices recorders, palmi di mano, e altro.
Questo sta anche a dire che l’aforista non ha né l’onere né, in generale, il metodo, di praticare la continuità.
Se lo facesse sarebbe probabilmente insincero: pretenderebbe di dimostrare una compiutezza e una sistematicità che non gli appartiene.
Non lavora per dimostrare una sua Weltanschauung, come farebbe un filosofo, ma la constata come somma ( algebrica ) dei vari frammenti compiuti e minimali, i quali, se c’è una cosa che devono innanzitutto fare, è di non tener conto né del frammento che precede né di quello che segue.
Certo, esistono anche filosofi usi agli aforismi. Ma in questo caso si tratta più che altro di una scelta stilistica, la preferenza della paratassi rispetto la sintassi.
Con l’aforisma la collaborazione con il lettore è massima.
Il lettore deve contribuire al testo, cogliere l’imbeccata, andare incontro all’autore; come le due parti di un simbolo che si incastrano, proprio per significare che ha capito il messaggio senza che gli venga spiegato.
Anche perché a ciò che è spiegato, in linea con l’etimo del verbo, vengono tolte le pieghe. Il concetto viene reso praticabile, comprensibile, comodo, ma anche piatto. Mentre la vita dell’aforisma è tra le pieghe, sale e ridiscende dall’altro versante senza perdere di valore, e anzi lo sfiorare la contraddizione, il nutrirsi di paradossi, il misurarsi con l’ossimoro, lungi dall’inficiarlo lo rafforza, come le ombre che stagliano meglio il profilo della montagna.
Nell’aforisma il lettore può metterci del suo, perché il non-detto gli riserva uno spazio, un ambito in cui il vissuto di ciascuno reclama il diritto di un’interpretazione che senza essere in balìa della più totale soggettività, sa trovare agganci col reale offerti, spesso senza saperlo, dallo stesso autore.
L’aforisma è breve per essere greve, cioè pesante. Una botta secca.
Il difficile compito di non perdersi in fronzoli, ma di raggrumare uno squarcio di verità in una sentenza che compia il piccolo miracolo di non essere sentenziosa.
Ciò implica una cura della forma che passerebbe in secondo piano in un testo più esteso.
Necessita attenzione alla forma, alla scelta meditata del lessico, al gioco semantico dei termini. L’etica dell’aforista dovrà perciò fare i conti con la questione della retorica, affinché questa non segua la strada troppo frequente di nascere grande e di morire piccola, ovvero dell’essere usata all’inizio per riuscire a trasmettere il messaggio nel migliore dei modi ( il che dimostra una lodevole deferenza alla finalità di risultare utili ), e finire per essere un esercizio di abilità tecnico-stilistica che col tempo inaridisce tutti: chi scrive e chi legge.
Ma perché tra i vari moduli espressivi, un autore si affida proprio all’aforisma?
Perché i suoi sono baleni di luce. Così li vede, così li dà.
Legarli tra loro in una teoria, una filosofia, o magari in uno schema, ritiene non gli competa.
Ha il gusto di lasciare agli altri il compito, se vorranno, di farlo.
Di mostrargli o di dimostrargli dove conduce il suo messaggio. Perché lui non lo sa.