Su Mosè come persona e Mosè come eponimia (ultima parte)

Il desiderio di avere una discendenza, di lasciare un segno del suo soggiorno su questa terra, per l’essere umano spesso costituisce un richiamo quasi insopprimibile.
Eva quando partorisce Set sostiene di essere contenta per questo dono di Dio perché le permette di avere, dopo la morte di Abele, qualcuno che lo sostituisca e che le dia discendenza.
Tale affermazione mostra come l’avere figli anche nel mito fosse funzionale e tutt’altro che disinteressato.
La legge del levirato cui si è già avuto modo di fare riferimento, sottolinea bene quest’ansia di immortalità, questo horror vacui, questo bisogno di tramandare almeno il nome, e palesa, inoltre, un’esigenza socio-politico-economica:
– Se dei fratelli dimoreranno insieme e uno di loro morirà senza figli, la donna del morto non venga ad essere sposata ad un estraneo. Suo cognato entri da lei, se la prenda in moglie e faccia verso di lei il suo dovere di cognato. Il primogenito che ella partorirà farà rivivere il nome del fratello morto e così non sarà cancellato il suo nome da Israele. Ma se l’uomo non vorrà prendere sua cognata, allora sua cognata salirà alla porta, agli anziani, e dirà:
“Mio cognato si rifiuta di far rivivere in Israele il nome di suo fratello, non vuole fare verso di me il suo dovere di cognato”.
Allora gli anziani della sua città lo chiameranno e gli parleranno. Egli s’alzerà e dirà:
“Non voglio prenderla”.
Allora gli si farà innanzi sua cognata alla presenza degli anziani, gli toglierà il calzare dal piede, gli sputerà in faccia, poi dirà:
“Così sia fatto all’uomo che non ricostruisce la casa di suo fratello”.
Ed egli sarà chiamato in Israele:”Casa dello scalzato”. (Deuteronomio 25, 5-10)

Rilevato che la genitorialità è un modo di andare oltre la morte e, per conseguenza immediata, un modo di vincerne in parte la paura, non vorremmo tuttavia che si fosse indotti ad attribuire, cadendo in una inaccettabile semplificazione, al solo desiderio di immortalità (del singolo e della stirpe) la motivazione alla prole.
La stessa legge del levirato, come si è appena visto, esplicita il fine di rendere coese le famiglie e di distribuire equamente i beni.
Intervengono infatti a seconda dei periodi storici, del tipo di società e delle coordinate geografiche (e sono soltanto alcuni degli esempi dei tanti che si potrebbero portare), fattori di ordine economico (il contributo dato tramite il lavoro, soprattutto nelle famiglie patriarcali delle società rurali), politico (la possibilità di costituire eserciti numericamente rilevanti), sessuale (negli strati sociali meno acculturati di certe zone poco acculturate, una prole numerosa significa potenza sessuale), narcisistico (il piacere di crescere ed educare un individuo a propria immagine e somiglianza), strategico (convinzione di legare il coniuge più strettamente a sé), ludico (giocare e baloccarsi con il figlio-bambola).
A proposito di tale ultimo motivo (ma ultimo solo nel nostro sintetico elenco), esso pare stonare affiancato a motivi meno “frivoli”.>Ciononostante c’è da dire che, soprattutto per il mondo occidentale dell’età contemporanea, non risulta affatto marginale e pretestuoso; anzi, sembra essere un fattore di rilevanza non secondaria. Ciò che qui importa comunque evidenziare è che se il desiderio di immortalità non è l’unico elemento chiamato in causa dalla procreazione, resta però un fattore pressoché costante. Sicché se mancassero le concause, spesso basterebbe da solo ad essere causale, a meno che (lo si potrebbe dare per sottinteso) quel determinato atto creativo non fosse stato casuale.

Tenendo conto di tutto quanto si è detto in questo e nei precedenti articoli che hanno trovato in Mosè la figura di riferimento più funzionale ad icasticizzare un discorso altrimenti molto sfumato e teorico, possiamo provare a dedurne un corollario pratico.
Cominciamo col dire che non si provano generalmente sensi di colpa esplicitamente legati alla genitorialità. Perché?
Bisogna osservare che non per tutte le colpe si provano sensi di colpa, come non per tutti i sensi di colpa ci sono colpe relative.
Tutto dipende dalla quantità e dal tempo.
Se la colpa sono in molti a commetterla, o viene commessa da molto tempo, o, come nel caso della generazione, da moltissimi e da moltissimo, il senso di colpa svanisce. Di più: neppure si presenta.
La responsabilità appartiene all’universo di ciò che è qualitativo. Tuttavia su di essa i condizionamenti della sfera del quantitativo sono enormi; spesso determinanti.

Bisogna a questo punto porre l’obiezione secondo cui potrebbe non essere stato tenuto in debito conto un fattore così importante come l’amore per i figli, e dell’infinità di fatti che lo confermano.
E allora la risposta è che non si dubita dell’amore che un padre e una madre nutrono (normalmente) per i figli, ma non si dubita neppure che si tratti di un sentimento, in senso lato, egoistico: vogliono amare qualcosa di proprio.
Se si trattasse di amore altruistico avrebbero a disposizione una gamma innumerevole di bambini di tutte le razze e di tutte le età, immersi nelle situazioni più disparate e più disperate, da adottare.

Per la relativa facilità con cui si può avere un figlio, e per il fatto che è una persona, cioè cosa viva, è proprio con un figlio piuttosto che con un’opera d’arte, o con il patrimonio economico lasciato in eredità, o con una medaglia al valor militare o civile, o con qualsivoglia altra cosa prodotta dal pensiero o dalle mani dell’Uomo, che la maggioranza degli umani cerca di perpetuare se stessa.

Finalmente, nonostante un orizzonte storico-geografico non assoluto, Mosè resta lo stesso responsabile (nel senso neutro della parola, ovvero sganciato dalla quantità di bene o di male derivante dai suoi insegnamenti) della prospettiva che ha aperto.
Per il modo con il quale è stato perseguito, il fine politico particolare di Mosè, a causa della sua logica trasformatasi in un volano ormai autonomo, lancia oltre sé, nella medesima direzione e nel medesimo verso (ma, come si è detto, in un contesto ideale straordinariamente più vasto), il desiderio dell’Uomo di farsi divino.
Nella mente di quest’ultimo la Terra Promessa diventerà vieppiù il Paradiso e lui, l’Uomo, sempre più il re di quel Paradiso.

Mosè pensava e agiva principalmente per dare una terra al suo popolo, e con tutta probabilità non ha mai pensato distintamente all’Uomo come a colui che poteva o doveva diventare Dio. Ma il suo agire crea uno strano eppure, ci pare, reale parallelismo: il suo agire microcosmico (temporale e spaziale) per Israele, statuisce prima di ogni altro l’avallo al paradigma della civiltà occidentale (e forse, per il futuro, in linea di principio, dell’intero ecumene). Mosè è colui che, dobbiamo servirci di un ossimoro, di questo avallo più incarna lo spirito.

Una civiltà non può mentire a se stessa senza un garante che abbia la forza di mentire per tutti affinché il singolo non si senta oppresso da una colpa la quale altrimenti lo paralizzerebbe.
Questo garante verrà glorificato e considerato eroe, nonché fondamento di quella civiltà.
Proliferare volontariamente in un mondo non giustificato da un mito (o da una religione), per i più filosoficamente accorti e per i meno coinvolti dal ripetersi meccanico delle cose, significherebbe trovarsi faccia a faccia con un’evidenza di egoismo e/o di bestemmia.

Il percorso per giustificare la vita (funzionale nel suo caso a costituire un popolo), da Mosè è stato portato avanti secondo la strategia che abbiamo analizzato.
Essa comunque, come si è visto, non mira solo a improntare in un certo modo la questione della procreazione, per cui qui non si vuole certo sostenere che l’apparato argomentativo di Mosè abbia avuto esclusivamente questa finalità.
Tuttavia l’aspetto della procreazione si inserisce nella strategia mosaica, e merita in questo corollario pratico di venire enfatizzato perché, a differenza degli aspetti sociali, politici, religiosi, non è altrettanto discusso nella sterminata bibliografia che riguarda il più grande profeta degli ebrei.
Avere riflettuto su un tale aspetto, ci conferma di come il nostro attuale mondo, apparentemente mosso solo da consequenziali ragionamenti sillogistici, sia invece principalmente governato dal mito.
E’ all’interno di esso che da sempre si muove ogni altro tipo di pensiero, perché da sempre l’Uomo ha bisogno non della verità, ma di difendersi dalla verità. Nella fattispecie, quella che da millenni, lampante e misconosciuta, ci dice che la procreazione è l’atto egoistico fondamentale di coloro i quali pur di ottenere la propria sopravvivenza genetica e culturale, consegnano con la nascita la loro prole alla morte.

Dopo aver proceduto a queste considerazioni, dobbiamo chiederci in modo secco ed esplicito se in uno sforzo ininterrotto di generazioni, in una sequela innumerevole di lotte, fatiche, entusiasmi, abbattimenti, l’Uomo riuscirà a diventare il Tutto-Autocoscienza, unica cosa per la quale, forse, il succedersi delle generazioni avrebbe senso.
Ebbene, perché gli resti la speranza che ciò possa avvenire, egli deve pensare che già Dio esiste. E deve pensare che esiste fino a che non sarà in grado di sostituirlo. L’Uomo ha un, letteralmente, sacro terrore dei vuoti di potere.

Una porzione di cielo l’Uomo l’ha già conquistata. E’ arrivato sulla luna, è riuscito a guardare oltre la sua propria carne con gli occhi invisibili di una macchina, può parlare con un suo simile all’altro capo del mondo componendo un numero e vedere l’altro capo del mondo schiacciando un pulsante. Può volare e inabissarsi, trattenere una parte del passato in un film, in una foto o su un nastro, e con i condizionatori, i frigoriferi, i termosifoni e le serre, mettere un po’ d’estate al posto dell’inverno e viceversa. Con l’anestesia si protegge dal bisturi e perfino quando dà ad un altro o da un altro riceve una parte di corpo, evita il dolore. Con una manciata di segni combinati fra loro scrive infinite parole, mentre senza una parola, solo con dei colori su una tela o la traduzione in musica delle note scritte su un pentagramma, comunica innumerevoli sentimenti.
Ha costruito robot e calcolatori che lo sostituiscono e sempre più lo sostituiranno nelle sue attività pratiche e teoriche, e ha esteso dalle galassie alle particelle sub-atomiche le sue conoscenze.

Questo ci ha dato la scienza e con il passaggio delle consegne culturali da una generazione alla successiva, altro ancora ci darà.
Indipendentemente però da ogni ipotesi su quali saranno le vie che essa imboccherà e a quali risultati esse giungeranno, è giusto dire, in termini quanto mai pratici e concreti, che il procreare volontario resterà comunque in larga parte conseguenza di volta in volta di almeno uno (ma assai più probabilmente della miscela variamente proporzionata) dei seguenti motivi:
– convenienza nel disporre di forza-lavoro (soprattutto in determinate aree geografiche e in determinati periodi storici)
– ignoranza della colpa (generalizzata e perciò misconosciuta) di cui un genitore, per essere tale, si macchia
– ossequio alla consuetudine e convenienza sociale nonché alle direttive del potere politico e religioso
– amor proprio, inteso come egoismo in senso lato (tentativo di assegnarsi un ruolo sociale e di dare significatività al proprio esistere)
– desiderio e speranza nascosti di contribuire alla costruzione di Dio.

Nel presente scritto ogni punto trattato è un abbozzo per impostare un discorso che meriterebbe ulteriori ed estesi approfondimenti; relativi anche, e soprattutto, all’ultimo motivo elencato, che pure è stato quello su cui ci siamo soffermati di più, e che comunque già in questi termini presenti dovrebbe essere in grado di spingere una persona a porsi la domanda sulla genitorialità per darsi una risposta obiettiva.
Da ciò che finora risulta, sebbene per ogni figlio Lia e Rachele esclamino che si tratta di un dono di Dio, dobbiamo affermare che è invece un dono dell’Uomo al Dio futuro. Un dono dell’Uomo in funzione della perfezione, onnipotenza, eternità dell’umanità futura.

Tuttavia che ogni nuovo essere umano si inscriva nella storia di un Dio che sarà, oppure nella storia di un’umanità che fallirà nel suo intento e si riscimmierà ed eventualmente regredirà fino al punto di sparire per sempre, che cioè sia la conseguenza di una bestemmia verso YHWH o di un errore, egli non avrà comunque scelto di vivere. E poiché questo è il destino di ogni vivente, ne deriva che ogni Uomo è costituzionalmente non-libero: costretto alla vita e costretto alla morte.

Si potrebbe obiettare che non procreando si sarebbe ingiusti perché non si darebbe nessuna possibilità a colui che altrimenti verrebbe ad aggiungersi agli umani. Ma è obiezione filosoficamente (non devono interessare obiezioni dettate dalla convenienza materiale o psicologica) insostenibile. Il nulla dovrebbe essere chiaro che è…nulla, o, se si preferisce, che non è l’essere.
E quando diciamo che non è l’essere, non intendiamo che è l’opposto dell’essere, altrimenti di nuovo il nulla vivrebbe nel nostro concetto, sia pure per opposizione, come riverbero negativo dell’essere.

Anzi, per dire debitamente, dovremmo affermare che “il nulla è nulla” senza servirci del verbo essere. Purtroppo la carenza del linguaggio non ce lo permette. Ciò che importa, comunqe, è non confondere, come spessissimo accade, l’assenza con l’inesistenza.
Un individuo assente, esiste; semplicemente è da un’altra parte.
Un individuo inesistente, proprio in quanto non esiste, non è da nessuna parte, vicina, lontana o lontanissima, e perciò non è neppure un’entità che si strugge perché nessuno le ha ancora dato vita: il nulla non ha bisogno di nulla, neanche di possibilità.

Al nulla non si possono fare dei torti. Semmai il torto sta proprio nella situazione opposta, che è espressione dell’egoismo fondamentale, quella che nel mito corrisponde (contestualmente ad altre situazioni decodificabili tramite punti di vista diversi ma non esclusivi) al cosiddetto peccato originale, e che in realtà è il peccato di originare.
Infatti oltre tutto quanto si è detto sulla scalata a Dio tentata anche tramite la generazione, esso è peccato (nel senso umano di trasgressione colpevole di ciò che è moralmente giusto) perché non bada, appunto a causa dell’egoismo che lo informa, a coinvolgere nell’esistere anche altri.

Rilevare che non è possibile sapere se in una vita ci sarà prevalenza di felicità o infelicità, di per sé renderebbe insensata la scelta di avere discendenza.
Oltre ciò è fondamentale prendere atto che il non-nato, essendo nulla, non gode meno felicità di chi è nato e vive felicissimamente. Questo è condizione necessaria e sufficiente per affermare che la genitorialità (s’intende, volontaria) è sempre egoistica.
Chi non ha nulla ha sicuramente meno di chi ha qualcosa; ma chi non è nulla, non ha sicuramente meno di chi ha, anche se chi ha avesse tutto: il più e il meno sono categorie che pertengono solo all’esistente. Fuori da questo ambito sono applicate abusivamente e strumentalmente.
La sacralità della genitura è dunque il più grande falso che sia stato somministrato all’umanità; un falso che l’umanità ha assunto con massima benevolenza.
Così, con una straordinaria piroetta concettuale, si è trasformato l’egoismo del peccato di originare (di cui non a caso ci si ricorda sempre di dire che è l’atto che dà la vita e ci si dimentica sempre di dire che contestualmente è l’atto che dà la morte), in sacrificio altruistico. Constatare che le cose stiano in questi termini, è sicuramente constatazione faticosa.
E proprio nell’estrema scomodità e nel fortissimo disagio ai quali essa costringerebbe l’essere umano, il cui anelito a perpetuarsi nei figli è fortissimo, va (tra l’altro) individuato il senso del messaggio mosaico, che aiuta, ed anzi spinge, l’uomo e la donna ad interpretare la loro paternità e maternità come dono di Dio, mentre è solo un dono che Adamo ed Eva fanno a se stessi.
Infatti i non-nati
– non hanno bisogno di noi
– non hanno desiderio di diventare Uomini
– non hanno desiderio di diventare Dio.

FULVIO BALDOINO

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