PRESENZE. Un RACCONTO tra il mistery e il fanta-horror di: MASSIMO BIANCO

Francesca Canosa rientrò a casa in auto dopo la giornata lavorativa. Abitava in un’elegante palazzina Liberty, di un quartiere residenziale collinare, suddivisa in tre diversi appartamenti.
Al primo piano ci vivevano lei con i figli, un maschio di undici anni e una femmina di sedici e, di fianco, gli anziani genitori, mentre il piano superiore era interamente occupato dalla famiglia di suo fratello, rinomato luminare della medicina che dieci anni prima aveva acquistato l’intero edificio per tutti loro. Al pianterreno, invece, vi erano un garage, un negozio chiuso oramai dall’epoca tragica della pandemia e lo studio medico privato del fratello.
Mentre attendeva che la serranda sul lato a lei riservato del garage si sollevasse, si soffermò ad ammirare la facciata dell’edificio, su cui spiccavano numerose decorazioni floreali in cemento, in forte aggetto. Amava vivere lì.

 Facciata Liberty. Foto dell’autore

Poi la saracinesca interruppe la propria salita e a nulla valsero i tentativi di sbloccarla con il telecomando. Per l’ennesima volta avrebbe dovuto scendere e sollevarla a mano. Trattenne a stento un’imprecazione. Occorreva chiamare un tecnico e non osava pensare al costo della riparazione. Problemi, problemi, sempre problemi, su tutti la causa legale con l’ex marito per l’affidamento dei figli. Un tempo si era illusa che la vita fosse tutta rose e fiori, invece negli ultimi anni nulla le era andato come avrebbe desiderato.
Dopo aver chiuso il garage stava salendo le scale che conducevano al suo appartamento, quando udì un rumore agghiacciante rimbombare da una parete all’altra. Le si accapponò la pelle. Di cosa poteva trattarsi? Sembrava una via di mezzo tra un urlo e un ruggito. Talmente cupo e distorto da suscitare l’impressione di non originarsi da gola umana, era il verso più angoscioso che avesse mai sentito. Alzò lo sguardo al pianerottolo superiore e per un attimo le parve d’intravvedere una massa indefinita oscurare l’ambiente.
Il ruggito o quel che era si ripeté. Ora pareva provenire dall’interno della sua abitazione. Pur con il cuore in gola, salì gli ultimi gradini di corsa: i suoi figli potevano essere in pericolo.
Prima di aprire la porta, al pensiero di ciò che avrebbe potuto trovare all’interno ebbe un’esitazione, poi, però, si sentì stupida. Cosa si aspettava di trovare, in effetti, un orco, forse? Che assurdità! Eppure qualcosa…
Francesca si decise a entrare. Dentro, in apparenza, nulla.
«Che succede ragazzi, state bene?»
Silenzio.
«Rispondete per favore. Dove siete?» insistette mentre attraversava il corridoio, alzando parecchio la voce.
Soggiorno e sala erano vuoti e non ricevette risposta neppure stavolta. Cominciava di nuovo ad allarmarsi.
«Luca, Alice, ci siete?»
«Sì, uff, che vuoi» «e dove dovremmo essere.» Risposero all’unisono.
Trovò la figlia intenta ad ascoltare musica in cuffia nella sua stanzetta e il maschietto collegato al computer nella camera a fianco. Tranquillissimi.
«Tutto a posto? Avete sentito nulla?»
La ragazza sbuffò e questa fu la sua unica reazione alla domanda, dopodiché fece ripartire la musica. I due non la degnarono di un’occhiata. Francesca tirò un sospiro di sollievo: sì, tutto a posto.
Restava tuttavia preoccupata, anche perché, ripensandoci, in precedenza nella palazzina si erano già verificati eventi strani.
Il primo era accaduto una settimana prima. Entrando nella soffitta in comune aveva udito un rumore e per un attimo aveva scorto un baluginio e una figura umana distorta. Lì per lì si era spaventata. Poi, però, aveva presunto che uno dei nipoti stesse combinando qualche bricconata usando una torcia per non farsi scoprire dai genitori e che, sentendola entrare, si fosse nascosto, causando nel frattempo un gioco di luci e ombre. E siccome aveva già abbastanza problemi a star dietro ai propri figli senza doversi preoccupare anche dei nipoti, non era più stata a pensarci.
Il secondo e assai più inquietante incidente risaliva a quattro notti dopo. Qualcosa l’aveva svegliata e con la coda dell’occhio aveva percepito un movimento. Voltatasi in quella direzione, aveva visto una figura vagamente luminescente stagliarsi all’ingresso della camera, così alta da doversi abbassare per non urtare l’infisso della porta. L’apparizione era stata troppo breve per permetterle di distinguerne con chiarezza l’aspetto. Avrebbe potuto soltanto affermare che stavolta pareva più animale che umana.
Francesca non credeva ai fantasmi, alle case infestate o agli invasori alieni, specie se collegati proprio alla sua dimora. Li giudicava futili romanticismi. Escluse quindi subito le ipotesi, pur dovendo ammettere di averle pensate. Più semplicemente, doveva aver creduto di essere già sveglia, mentre invece stava ancora vivendo un incubo e il risveglio era giunto subito dopo. Dopotutto le era già capitato. Si era perciò rimessa a dormire, rasserenata.
Solo che il mattino successivo si era accorta che alcune piastrelle del pavimento del corridoio erano incrinate. Per un attimo la scoperta l’aveva sconvolta, non è tuttavia facile accettare l’irrazionale, perciò aveva nuovamente finito per escluderlo. Di certo le piastrelle dovevano essere state così da tempo senza che lei se ne fosse resa conto e non vi avrebbe fatto caso neppure quella volta, in assenza di incubi.
E siccome anche ora sembrava l’unica ad aver percepito una presenza, optò di nuovo per far finta di nulla.
«Sempre salti di gioia quando torna a casa mamma, vero?» commentò pur sapendo che la sua ironia sarebbe andata sprecata.
Guardò l’ora. Erano già le 14. Entrò allora nella stanza da pranzo e da lì nell’ampio cucinino.
«Alice, quando torni da scuola dovresti apparecchiare la tavola e mettere la pentola sul fuoco, quante volte te lo devo ripetere.»
«Non rompere mamma, sono appena arrivata, non ho fatto in tempo. E poi potresti chiederlo anche a Luca, ogni tanto. Rientra sempre a casa prima di me, si appropria del pc nuovo e non lo posso più usare, cazzo, la prossima volta gli mollo un ceffone e lo caccio via di forza.»
«Alice!»
«Lo so, lo so, niente parolacce. Mi è scappata.»
«E comunque tu non molli ceffoni a nessuno.»

In quello stesso momento, al piano di sopra, il dottor Giacomo Canosa, fratello di Francesca, finiva di pranzare con la moglie e il figlio minore.
L’altro, diciottenne, non si era fatto vivo. Da quando si era trovato la ragazza, in casa ci stava poco, si comportava male e trascurava pure la scuola, nonostante quell’anno avesse l’esame di maturità.
Giacomo avrebbe dovuto preoccuparsene, invece aveva altro per la testa. In quel momento sbucciava una mela, meditabondo, senza prestare attenzione ai familiari che discorrevano di buon umore. L’umore suo, al contrario, tendeva verso il nero.
Era conscio di aver commesso un grave errore medico e che a causa di ciò un paziente era morto. Per fortuna sembrava che nessun altro se ne fosse reso conto, perciò non rischiava conseguenze legali o peggio, tuttavia non riusciva a darsene pace, anche perché gli era già accaduto una volta. Dal momento in cui aveva compreso l’irrimediabilità dello sbaglio, era stato travolto dal senso di colpa e passava le notti in bianco. E senza dormire a sufficienza sarebbe stato meno concentrato e avrebbe rischiato di sbagliare ancora. Dopotutto non era più giovanissimo, aveva passato i cinquant’anni. Era ancora adatto a svolgere la sua professione? Aveva una gran paura di no e benché tutti sembrassero considerarlo una specie di dio in terra, in quel momento si sentiva soltanto un pover’uomo.
In silenzio si alzò da tavola e si ritirò nel salottino dietro lo studio biblioteca, certo di essere lasciato in pace. I familiari sapevano che quando se ne andava lì in cerca di privacy non lo si doveva disturbare.
Mezz’ora dopo avrebbe dovuto iniziare a ricevere nell’ambulatorio privato e non ne aveva alcuna voglia. Tuttavia era un uomo ligio al dovere e si sarebbe recato in studio puntuale.

Nel tardo pomeriggio Francesca Canosa uscì a effettuare la solita sgambata quotidiana. Troppo pigra per praticare anche solo semplici esercizi in palestra, si accontentava di trascorrere tre quarti d’ora al giorno, prima di cena, a camminare di buon passo nei dintorni. Aveva letto sul web che bastava per mantenere l’organismo in salute.
Quel giorno non era però destino che riuscisse a camminare. Era appena uscita dall’androne della palazzina quando, subito prima che il portone si richiudesse, all’interno cominciò a udire tonfi cadenzati. Sembravano passi ed erano pesanti, molto pesanti. Troppo pesanti.
Francesca s’immobilizzò, turbata. I passi aumentavano d’intensità. Sembrava che qualcuno si stesse avvicinando scendendo le scale, ma non un qualcuno normale. Per fare così tanto rumore, chi stava percorrendo la scalinata doveva pesare una tonnellata.
All’improvviso gli eventi precedenti assunsero ai suoi occhi un nuovo significato e si sentì attanagliata dalla paura. Percepiva uno sguardo e una presenza spaventosi. Avrebbe desiderato fuggire, ma doveva sapere con chi aveva a che fare e cosa voleva da loro. In pochi istanti si ritrovò in un bagno di sudore, le gambe le tremavano. Doveva. Con uno sforzo di volontà ripescò le chiavi dalla borsa. Le tremavano anche le mani. Sì, doveva sapere.

Uno sguardo e una presenza spaventosi

Il dottor Canosa era solo nell’ambulatorio sotto casa. L’ultimo cliente era andato via e si era appena accomiatata pure la segretaria. Sarebbe dovuto rientrare nella propria abitazione, ma non se la sentiva di affrontare i familiari. Guardò la rivista medica arrivata per posta il giorno precedente. Avendo scorto l’indice sapeva che alcuni articoli lo interessavano, eppure non aveva voglia di leggerli. Non aveva più voglia di far nulla.
Rivolse la mente alla moglie e ai figli. Soprattutto al piccolo, che avrebbe ancora avuto molto bisogno di una guida paterna. Era all’altezza di svolgere il compito? Dopotutto doveva essere anche colpa sua se il grande stava prendendo una brutta strada. Sapeva che il più delle volte i comportamenti negativi dei figli derivano da insufficienze familiari e lui si rendeva conto di essere un padre poco presente.
Ora poi che si sentiva un assassino non ci riusciva proprio a preoccuparsi dell’educazione dei figli. In effetti in quel momento avrebbe soltanto voluto salire a casa, fare le valigie, prendere l’auto e andarsene via per non ritornare mai più. Basta responsabilità!
Ma sapeva di non poterlo fare.
Decise infine di effettuare qualche ricerca sul suo magnifico pc, in previsione di un trattato che intendeva scrivere da tempo e la cui stesura ristagnava. Navigò dieci minuti, provando invano a concentrarsi, mentre il pensiero continuava a tornare sul paziente morto la settimana precedente. Non avrebbe dovuto scegliere quella linea di condotta, non avrebbe dovuto curarlo così, oh no, no, non avrebbe dovuto, non avrebbe…
Qualcosa all’improvvisò lo ridestò.
Giacomo Canosa era ancora intontito. Gli occorse qualche istante per capire la situazione: si era addormentato mentre era al computer per poi risvegliarsi di soprassalto. E la causa era… un urlo? Si, qualcuno aveva appena urlato.
Ma chi… cosa…
Il grido si ripeté. Sembrava provenire dalla strada. Al medico parve di riconoscere la voce, apparteneva a Francesca. Si affrettò a uscire dall’ambulatorio e si guardò intorno. Lungo l’arteria il traffico automobilistico scorreva rarefatto. Passanti lungo il marciapiede non ve n’erano, né da quel lato né dalla parte opposta. Si scorgeva un unico pedone, sua sorella, per l’appunto. Ferma davanti al portone d’ingresso, la donna tremava come se si trovasse dentro una ghiacciaia, con una mano appoggiata alla parete.
«Fra, cos’è successo?»
Francesca lo guardò a occhi sbarrati, poi scoppiò in lacrime. Il fratello la abbracciò e lei, che era una donna minuta, quasi gli sparì tra le braccia.
Le occorsero parecchi secondi prima di poter parlare.
«Mio dio, Giacomo, dentro c’è un’anomala presenza.»
«Una cosa?»
«Lo so, sembra assurdo, ma è così. Mentre uscivo ho iniziato a sentire dei tonfi provenire dall’interno, ho riaperto il portone per capire cosa li stesse provocando e quando sono giunta ai piedi delle scale l’ho vista spuntare in cima. Sembrava… beh, non ho capito bene, come una spessa e scura massa nebbiosa d’aspetto non del tutto umano. Era grande e terrificante e aveva una faccia… crudele, sentivo che era crudele. Ha cominciato a scendere e io sono scappata a precipizio.»
«Ma che dici? Cos’è crudele?»
«Te lo giuro, in casa nostra ci sono delle presenze, non saprei come altro definirle. Presenze non del tutto umane. Umanoidi, piuttosto.»
«Umanoidi? Ti rendi conto di cosa stai dicendo?»
«Non mi guardare così, non sono pazza. Solo delle presenze aliene possono aver causato quello che è successo. Probabilmente entità provenienti da un pianeta ad alta gravità. No, fermo, cosa fai!»
Suo fratello stava aprendo il portone, con fare stizzito. Dopo aver spalancato si guardò all’intorno nell’androne silenzioso e rassicurò la sorella.
«Qui non c’è nulla.»
«Se ne dev’essere andata, io però ho notato che causava, cioè, infossava… beh, devi vedere con i tuoi occhi.»
Francesca percorse lentamente l’andito e poi cominciò a salire le scale con gli occhi piantati a terra, seguita dal fratello.
“Entità da un pianeta ad alta gravità, ha detto proprio così? A furia di svagarsi leggendo i romanzi di Urania, quest’infelice si dev’essere rimbecillita” – pensava intanto il dottor Canosa – “davvero crede che casa nostra è stata invasa dai gioviani? Io ho dei problemi seri. Beata lei, che evidentemente problemi seri non ne ha”.
Ma, giunta circa a metà della prima rampa, Francesca si fermò, tirò un gran sospiro come se avesse temuto di non trovare quanto cercava e indicò a terra.
«Guarda.»
Due degli scalini di marmo erano rotti e piegati al centro, come se un peso enorme li avesse calpestati. Il fratello restò a fissarli a lungo, interdetto.

 Impronte. Foto dell’autore

Continuando a salire fino al secondo piano contarono altre cinque coppie di scalini incrinati. Inoltre risultava danneggiata pure la pavimentazione dei pianerottoli.
«Lo sapevo che non era un’allucinazione! Quando sono scesa, poco fa, era ancora tutto a posto, te lo garantisco.» Annunciò Francesca, trionfante.
«Ci credo, alle due e mezza lo era di sicuro. Per quanto potessi essere distratto, non avrei potuto non accorgermi di un macello simile. Descrivi meglio ciò che hai visto, per favore.»
«Mi dispiace, non sono riuscita a distinguere bene, non sembrava del tutto consistente e poi ero troppo spaventata per osservare con attenzione. So solo che era molto alto e che le sue fattezze erano soltanto all’incirca umane. Un unico particolare anatomico mi è rimasto bene impresso e cioè un’enorme escrescenza sotto l’orecchio sinistro. Allora, cosa ne pensi?»
Il fratello rimase spiacevolmente colpito dalla descrizione. Se la girò e rigirò nella mente, preoccupato, senza tuttavia poter dar corpo alle proprie sensazioni.
Si decise infine a rispondere:
«Non ho idea, ma di certo i tuoi gioviani non c’entrano. Deve esistere una spiegazione razionale.»
«Beh, io non la vedo. E poi non è tutto qui, sono successe anche altre cose. Prima non ci avevo voluto dar peso, adesso, però…»
Francesca descrisse le precedenti esperienze. Giacomo ascoltò trasecolato, ma nonostante la sfottente critica rivolta alle letture della sorella, sapeva di avere a che fare con una donna razionale, per nulla incline a fantasie morbose. Considerando anche la preoccupante prova presente sotto i suoi occhi, era portato a crederle.
Volle allora vedere le piastrelle in casa di lei. Le trovò in condizioni migliori delle altre, come se avessero subito una pressione minore, tuttavia erano a propria volta piegate al centro e non riusciva a capire come potesse essersi prodotto un tale danno. Prendendo le piastrelle a martellate le avrebbe spaccate, certo, ma non sarebbe riuscito a ridurle a quella maniera.
«Cosa facciamo, Giacomo?»
«Non lo so. Magari chiederò un aiuto. Ammesso che qualcuno mi prenda sul serio.»

Due giorni dopo Francesca si arrabbiò col figlio. Mentre era al lavoro aveva ricevuto un messaggio sullo smartphone. Luca aveva preso una nota perché si distraeva e disturbava in classe e gli insegnanti le chiedevano di fare un salto a scuola a discuterne. A quanto pareva era recidivo. Ne fu sorpresa, perché alle elementari si era sempre dimostrato un bambino tranquillo ed educato e fino a dicembre non aveva dato problemi neppure lì alle medie.
Si prese un’ora libera e andò, come richiesto, a parlare con gli insegnanti. Scoprì così che Luca, fino ad allora sempre bravo a scuola, aveva anche preso un voto negativo in geografia, che le aveva tenuto nascosto.
Francesca andò su tutte le furie e appena rientrò a casa dal lavoro lo sgridò severamente. Nel pomeriggio si recò più volte nella sua cameretta a vedere cosa stesse combinando e avendolo beccato a bigiare i compiti decise di dargli una bella lezione.
«Si può sapere cosa hai ultimamente? Oggi salti la cena e te ne resti in camera a studiare tutta la sera.» Gli ordinò infine.
«No mamma, ti prego, stasera ci sono Alex e Gabri.»
Alessandro e Gabriele erano i suoi cugini e quella sera avrebbero cenato da loro. Luca adorava il minore, Alessandro. Era sempre contentissimo quando cenavano insieme.
«Dovevi pensarci prima, bello. Stasera te ne resti in camera tua a fare quei compiti che hai trascurato oggi, punto e basta.»
«Non è giusto, fai tante storie solo perché per una volta ho preso un brutto voto e ho litigato con Rossi, ma non è colpa mia, è lui che mi distrae e mi provoca.»
«Come no, sei bravo tu a scaricare le responsabilità sugli altri, ma a me gli insegnanti hanno detto l’esatto contrario e dicono anche che devi lasciare in pace quel ragazzo.»
«Certo, perché sua mamma non è mica stupida come te. Rossi dice che se una prof se la prende con lui, sua madre s’arrabbia e la mette subito a posto, tu invece mi dai sempre torto in tutto.»
«Ehi, vuoi uno schiaffo, per caso? Se la signora Rossi si comporta così vuol dire che non sa educare il figlio. E comunque anche Alice dice che hai sempre la testa rivolta a internet anziché allo studio. È stupida pure lei, forse?»
«No, è bugiarda. Dice così perché quella carogna non mi vuole tra i piedi. Il computer nuovo lo vorrebbe usare soltanto lei. Vi odio, tutte e due.»

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Francesca e i ragazzi erano seduti a tavola, con la televisione accesa per lo più inascoltata. Il TG era terminato e andava in onda un programma di approfondimento, quando l’attenzione della padrona di casa fu attirata dal battibecco tra due degli ospiti.
«…I fantasmi sono stati descritti da numerose fonti attendibili, ci risparmi perciò la facile ironia.»
«Ma sono affermazioni campate in aria! Io accetto solo ciò che può essere dimostrato scientificamente e non sono mai state portate prove a favore dell’esistenza dei fantasmi. Inoltre non mi risulta che loro presunte apparizioni si accompagnino mai a fenomeni di poltergeist.»
«Non può tuttavia ignorare che negli ultimi tempi gli avvistamenti di fantasmi si stanno moltiplicando un po’ ovunque nel mondo e che c’è stato perfino qualche morto. Di qualsiasi cosa si tratti una base reale ci deve pur essere…».
La controparte iniziò ad articolare una risposta, ma Francesca aveva smesso di ascoltare, la mente ormai in subbuglio. Non accadeva solo a casa loro, dunque! Possibile che fosse davvero in atto un’invasione aliena? Presa com’era dai propri pensieri, per il resto della serata non fu più molto presente.
Quando i nipoti se ne furono andati ed ebbe rimesso a posto cucina e sala da pranzo, era ancora presto per andarsene a letto. Dopo aver meditato un altro poco sulla notizia sentita alla TV, la donna provò il bisogno di rilassarsi e prese “Il villaggio dei fiori purpurei”, forse l’unico romanzo di Clifford Simak, il suo autore preferito, che ancora non conosceva. Si accomodò nella poltrona d’angolo e s’immerse nella lettura.
Più tardi guardò l’ora. La mezzanotte si avvicinava. Avrebbe già dovuto essere a letto, ma il libro la prendeva e non riusciva a interromperlo. Beh, decise reimmergendosi nella trama, avrebbe letto ancora qualche paginetta…
Tuum.
Francesca alzò di scatto la testa. Cos’era stato?
Il rumore si ripeté e fu seguito da quello spaventoso verso, a metà tra un urlo e un ruggito, già udito giorni addietro.
La presenza era tornata e si trovava in casa sua.
Francesca aprì la porta della stanza da pranzo e si affacciò nel corridoio proprio mentre risuonava un terzo tonfo. Con un colpo al cuore la donna comprese che proveniva dalla zona notte, dove dormivano i figli. L’intera abitazione tremò. Caddero calcinacci.
Un momento dopo Alice uscì dalla propria camera.
«Ehi, c’è un terremoto?»
L’adolescente non aveva ancora finito di parlare che la porta di fianco si staccò dai cardini e si schiantò sul pavimento. Francesca ricordò di averla chiusa a chiave con Luca dentro per punizione e di non aver più pensato a riaprirla.
Poi si sentì una specie di ringhio ed ecco l’entità apparire nitida sulla soglia, più alta dell’anta stessa della porta.
Le due la guardarono ad occhi sbarrati, incapaci di muoversi. Sembrava avere la consistenza di una spessa nebbia e, infatti, attraverso le sue membra s’intravvedeva la stanza retrostante, eppure nel contempo il corpo appariva solido e reale. Nell’aspetto la si sarebbe detta un incrocio tra una tigre dai denti a sciabola e un drago, con tanto di coda rettiliana. Aveva inoltre una lieve fosforescenza.
Per qualche momento Alice ne fu come incantata, poi si riscosse e afferrò la madre per un braccio.
«Mamma, scappiamo.» Urlò.
Di primo acchito la donna fece un passo indietro, poi l’istinto materno prevalse sulla paura.
«Io no, c’è Luca lì dentro, ma tu vai via.»
Francesca si fece coraggio e andò incontro al mostro. Pensava confusamente di schivarlo e prendere con sé il bambino, per poi cercar d’uscire con lui dalla finestra. Per un istante riuscì a intravedere Luca riverso sulla sedia della scrivania, poi la bestia allungò una di quelle sue spaventose zampe anteriori artigliate da felino e la colpì, scaraventandola via lungo il corridoio.
Francesca sbatté contro un mobile all’ingresso e s’accasciò al suolo, mentre l’entità sfondava l’anta della porta e parte del muro e sbucava nel corridoio. Era talmente massiccia da sfiorarne le pareti.
Alice fuggì in preda al panico.

Altro aspetto dell’entità. Fotogramma da film

Al secondo piano sentirono un frastuono tremendo provenire dall’appartamento di sotto e il pavimento tremare. Padre e figli scesero in fretta al piano inferiore, giungendo giusto in tempo per vedere Alice proiettarsi fuori casa urlando terrorizzata.
«State indietro, ragazzi.» Ordinò Giacomo Canosa entrando nell’abitazione.
La belva si stagliava in mezzo al corridoio e lui non poté fare a meno di guardarla affascinato. Era terrificante, certo, eppure trovava che avesse anche una sua arcana bellezza. Inoltre non assomigliava affatto alla descrizione fattagli in precedenza dalla sorella. La mostruosità che gli stava innanzi non aveva nulla di umanoide. E tale constatazione lo fece sentire confusamente sollevato, senza peraltro comprenderne il motivo.
Poi lo spaventoso essere parve notare la sua presenza e iniziò a dirigersi verso di lui, ruggendo e ringhiando minacciosamente. L’uomo non se la sentì di affrontarlo e uscì nel vano scale.
«Andate via, ragazzi, presto, scappate.»
Gabriele non se lo fece ripetere due volte. Alessandro, invece, non seppe resistere alla curiosità e temerariamente si avvicinò. Voleva vedere cosa poteva sconvolgere così il suo papà. L’uomo cercò di fermarlo, ma il quindicenne si divincolò come un’anguilla e lo aggirò.
Appena il mostro lo vide s’immobilizzò e diede addirittura l’impressione di rimpicciolirsi. Iniziò quindi a sgretolarsi in un’esplosione di scintille, fino a scomparire.
Allora padre e figlio si precipitarono a soccorrere Francesca, che si era rimessa in piedi e si lamentava sommessamente. Dopo una prima visita sommaria, Giacomo si sentì sollevato. Sembrava essersela cavata con appena una spalla slogata, un paio di costole incrinate e una lieve bruciatura. Ma il mostro era pericoloso.
Nel frattempo era giunto anche Luca, indenne e assonnato. Ignorava cosa fosse accaduto.

Più tardi, uscendo dal pronto soccorso, Giacomo, Francesca e Alice discussero della faccenda. Nella loro palazzina si aggiravano almeno due diverse entità, la belva dai denti a sciabola e una di forma molto più umanoide.
Per giunta altrove ne erano apparse altre, senza che le descrizioni combaciassero mai. Una persona in attesa al pronto soccorso aveva raccontato che nel web circolava perfino un video, in cui si vedeva un cane, enorme e raccapricciante, a tre teste come il cerbero della mitologia greco romana.
Alice andò a cercarlo. Il filmato, diventato subito virale, era già stato visionato da milioni di persone. L’essere che si vedeva era una specie di nebbia consistente e assomigliava effettivamente a un enorme cane tricefalo. Ma nonostante l’aspetto così diverso, i tre non ebbero alcun dubbio che fosse collegato a ciò in cui erano incappati loro.
«Alieni di tutte le forme, non capisco che senso abbia.» Brontolò Giacomo.
«Io invece temo di capirlo un poco. Beh, il cane non mi dice nulla, ma riconosco uno dei “nostri” alieni e non può essere una coincidenza.» Rispose Francesca.
«Cosa intendi dire? Pensi ancora ai tuoi gioviani?»
«Dimentica quelle sciocchezze, parlavo a vanvera. Stavolta ho guardato bene il presunto invasore e l’ho riconosciuto. Da quando mi sono separata, Luca ha un incubo ricorrente. Sogna quasi tutte le notti un mostro orrendo. Me lo ha descritto tante volte: è identico a quello che ci è apparso stasera e non può essere una coincidenza. A crearlo è stato Luca, ne sono sicura. Se ne stava chiuso in camera sua, collegato al pc che ci hai regalato per Natale, con il mostro che ruggiva e noi che gridavamo e un frastuono tremendo eppure non si accorgeva di nulla. Nulla! È stato mio figlio a materializzare il mostro. Non so come è possibile ma è così, ne sono certa.»
«Però l’altro era diverso, no mamma? Hai raccontato che pareva vagamente umano. Ed è diverso anche il cane a tre teste che si vede sul web. Allora cosa c’entrano?» Intervenne Alice.
E in quel preciso istante nella mente di Giacomo tutti i fatti si concatenarono. Gli parve quasi di udire il clic-clac dei vari pezzi mentre si incastravano tra loro nella sua testa. Era nulla più che un intuizione ancora da dimostrare, eppure ora tutto gli quadrava.
«Quelli sono gli incubi di qualcun altro.» Cominciò a spiegare.
Responsabili di tutto dovevano essere i modelli per famiglia di computer quantico appena usciti sul mercato. Essi sfruttavano le proprietà quantistiche degli atomi per memorizzare dati ed eseguire operazioni. Era la grande novità tecnologica del momento, la cui enorme potenza e capacità di calcolo – così almeno avevano annunciato fieri i loro inventori – avrebbe cambiato non solo l’informatica, ma l’esistenza stessa di chi ne avrebbe fatto uso e il mondo intero.
Quando sua sorella gli aveva descritto la “presenza”, come l’aveva chiamata allora, gli aveva subito ricordato qualcosa, ma solo ora ne afferrava il significato. Il particolare illuminante era stato l’escrescenza sotto l’orecchio che gli aveva descritto. Lui era in crisi perché si sentiva responsabile della morte di un paziente. Ebbene, costui aveva appunto avuto un’enorme escrescenza violacea sotto l’orecchio sinistro.
Quella sera Giacomo si era addormentato nell’ambulatorio mentre era ancora collegato, attraverso sensori, al suo computer quantistico appena acquistato.
Stava sognando di essere a casa a fare le valigie e poi di uscire per andarsene via per sempre, quando l’urlo della sorella l’aveva svegliato. E nell’incubo non era stato propriamente se stesso, lo sapeva. Poteva dipendere dal rimorso provato oppure no, ma comunque fosse aveva assunto un aspetto deformato e un po’ da zombie, a metà strada tra le sembianze sue e del defunto.
Dunque Francesca doveva aver visto quell’incarnazione dell’inconscio del fratello. Non a caso, infatti, era scomparsa appena lui, risvegliatosi, si era scollegato dal computer.
Certo, la simultaneità degli eventi poteva essere casuale; lui, però, non credeva alle coincidenze, al plurale. E invece la coincidenza si era ripetuta con Luca e proprio quand’era irato per un litigio.
Giacomo Canosa era medico, non informatico e non era in grado di capire perché ciò accadesse, eppure sentiva che la sua intuizione era giusta. Qualche particolarità insita nelle nuova tecnologia doveva essere sfuggita ai ricercatori, causando gli effetti collaterali sperimentati dai Canosa. E non solo da loro. Era pronto a scommettere che, ovunque i “fantasmi” apparissero, lì vi fosse qualcuno collegato ai nuovi pc quantici.
Gli venne in mente un grande classico del cinema anni ’50 di fantascienza, Il pianeta proibito, visto in tv con sua sorella, quando lui era ancora adolescente e lei una ragazzina. All’epoca, pur essendone rimasto molto colpito e avendolo apprezzato, nel contempo l’aveva giudicato anche sciocco e ingenuo, eppure ora non poteva evitare di pensarci.
Nel film i macchinari responsabili erano stati prodotti da una civiltà aliena, mentre nella realtà li aveva creati la civiltà umana, ma il risultato era il medesimo.
Nella fiction li definivano “mostri dell’id”, rammentò.
E proprio come accadeva in quel vecchio film, chissà come i nuovi computer materializzavano gli incubi e le paure inconsce di chi era collegato a essi, fornendo inoltre energia tale da farli risultare tanto fisicamente pericolosi quanto intensa era la rabbia repressa dei loro produttori. Perché anche la persona migliore del mondo può uccidere, nell’inconscio.
Occorreva avvertire le autorità e convincerle del problema: i nuovi computer quantistici andavano restituiti alla ditta e ritirati dal mercato prima che nel mondo si scatenasse il caos.

Fine.

Revisione terminata nell’estate del 2023, Massimo Bianco

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