Su Mosè come persona e Mosè come eponimia (quinta parte)

Ogni scoperta scientifica, ogni progresso tecnico, sia nel campo della medicina che, più indirettamente, in qualsiasi altro campo, è nella contingenza un punto a favore segnato nella partita contro la morte.
E se da decine di migliaia di anni l’Uomo, tra sofferenze e fatiche indicibili, gioca questa partita, è perché ha la speranza, per quanto censurata ai suoi stessi occhi, di vincerla.

In questo contesto storico-esistenziale, si inserisce a fini esemplificativi, didattici e regolativi, il mito del protopeccato.
Tale mito, sempre più evidentemente, si paleserà come il lavoro intellettuale prodotto dal mosaismo (ma mutuato abbondantemente dalla mitologia sumero-babilonese) per sintetizzare le istanze del desiderio dell’umanità di voler diventare Dio e della proibizione che ad essa viene ingiunta di pensarsi Dio in fieri, sulla via cioè dell’onnipotenza e dell’eternità.
Poche straordinarie righe per parlarci della vita e della morte, della colpa e dell’innocenza, del bene e del male, e della solitudine, della speranza, della paura.

Comprendere il linguaggio di Mosè, la sua allusività, i suoi ossimori, le sue reticenze, la sua ambiguità, è di una difficoltà estrema; ed anzi esso risulta praticamente indecifrabile se non si possiede una chiave di lettura il cui codice voglia essere reperito non solo nel testo, ma anche nel contesto. Nel contesto soprattutto storico.
Senza di esso affermare, come è giusto affermare, che vi è fin nelle più intime fibre dell’Uomo un incontenibile bisogno di un Dio onnipotente, un Dio che sa (e non che saprà) qual è il bene e qual è il male; di un Dio che premia il giusto e punisce il malvagio già da subito ed esattamente per quanto loro spetta, non sarebbe possibile, e ci sfuggirebbe il nocciolo della dialettica interna al discorso mosaico, cioè al discorso di quel Mosè che pensa che se l’Uomo si scoprirà Dio in fieri, declasserà l’idea del Dio futuro. E simultaneamente cancellerà anche l’idea del Dio presente e trascendente, il quale altro non è che la proiezione del Dio futuro e perfetto nel presente, purgato dalla sua storia. Quindi l’Uomo, finché non sarà Dio, dovrà pensare a Dio come Altro.
A garanzia di questo, ecco allora una sorta di marchio indelebile: il protopeccato di cui tutti saremmo macchiati.
Con tale imposizione Mosè cerca di presentare come una punizione ciò che altrimenti sembrerebbe (e in realtà è) un formidabile, geniale avallo nonché una spinta verso l’indiamento.
L’Uomo è a questo modo comandato di procreare e progredire, e nello stesso tempo gli viene tolta la possibilità di capire che la procreazione e il progresso fanno parte, e anzi sono la parte essenziale, del suo tentativo (conseguente alla sua voglia) di divenire Dio.

Vi è però un altro dato da tener presente. Se il popolo di Israele avesse scoperto di essere il possibile futuro Dio, ma già in qualche misura (infinitesimale) divino, in unità necessaria con tutti gli altri popoli della terra, come lui animati dallo stesso blasfemo desiderio, sarebbe caduto inevitabilmente in una profonda crisi morale e politica.
Per Mosè sarebbe stato un danno irreparabile.
Avrebbe significato un Dio futuro che tutti gli uomini costruiscono, forte e grande per tutti allo stesso modo. Ma il semi-dio umanità, per quanto minuscolo, è compatibile con un capo, cioè con una parte molecolare di sé che detta legge all’altra parte? E’ compatibile con Mosè che detta, nel senso anche più stretto del termine, la Legge? Quella Legge che egli sostiene di aver ricevuto da Dio sul monte Oreb, scritta innanzitutto per gli israeliti i quali vogliono imporsi con il loro Dio più forte e più giusto, agli altri popoli?

L’Uomo per attuare quel Dio che egli contro ogni credere credibile, inconsciamente desidera diventare, ha bisogno di concepire Altro il Diavolo.
Può così scaricare e proiettare su di lui il proprio peccato di voler diventare Dio, anzi, di voler sperare di diventarlo (la precisazione è opportuna per allontanare ancora di più l’idea della realizzabilità di un progetto che è concretissimo in quanto a presenza e prepotenza nell’animo umano, ma evanescentissimo e prossimo alla pazzia in quanto ad attuabilità).
E tutto questo quando Dio e Diavolo fanno entrambi parte dell’Uomo!

Evidenziando nella prima coppia la colpa per la speranza di diventare Dio, Mosè ha fatto sì che gli israeliti avessero dinnanzi un chiaro esempio di fallimento e di punizione, dimodoché si rassegnassero allo loro condizione umana (che era il migliore, e forse l’unico modo affinché intanto procedessero senza saperlo verso la condizione divina).

E’, questo, un Mosè che si rivolge idealmente ad ogni Uomo, nonostante in concreto si sia potuto rivolgere solo, appunto, agli israeliti.
Un Mosè il quale più che da condottiero, agisce ora nella veste del profeta, sicché il tono del suo messaggio non ha il nitore del procedere logico ma il taglio del dire oracolare.
Un messaggio che non esplicita (perché esplicitarlo sarebbe azzerarne l’efficacia) ciò che gli detta la sua intuizione.
Il messaggio trasmesso dalle parole e insieme dalle gesta di Mosè, deve equilibrarsi nel difficilissimo compito di far sì che chi segue tale messaggio, produca gli effetti che Mosè stesso desidera, senza conoscere le cause che lo spingono a quegli effetti.
E il messaggio, decriptato, sostanzialmente è questo: ad essere Dio, l’umanità ci arriverà (se mai ci arriverà) attraverso il peccato da scontare e non attraverso il desiderio da esaudire.
Ai desideri, se troppo oltre le possibilità immaginabili, prima o poi si rinuncia; alle colpe e alle punizioni non si può rinunciare…

Ecco allora che la donna con la gravidanza commetterà e insieme sconterà il suo peccato di portare l’umanità verso Dio, così come l’uomo lo farà con l’opera faticosa delle sue mani.
Sebbene uomo e donna partecipino entrambi alla sfida a Dio con entrambi gli strumenti, scienza-tecnica e procreazione, l’uomo nella Genesi è ritenuto maggiormente responsabile per la scienza-tecnica, e la donna per la procreazione.
E’ comunque dalla sinergia di uomini e donne, dalla risultante di scienza-tecnica e procreazione, che Dio, inteso come YHWH e poi come il Dio Padre della civiltà occidentale, viene messo in “pericolo”.

Mosè sa come è fatto l’Uomo: ne conosce i desideri, le paure, il grado di sincerità, l’egoismo, l’orgoglio di appartenenza… Ha l’intuizione carismatica del leader che è frutto soprattutto della percezione psicologica dell’animo dell’individuo e dell’anima delle masse. Può perciò operare in modo mirato affinché si verifichi una scissione dentro ciascun ebreo (continuiamo a tener presente che infatti a Mosè è l’ebreo che interessa, sebbene poi il suo pensiero, preso l’abbrivio, fatalmente si estenderà ben oltre il popolo di Israele).

L’intento mosaico è sempre innanzitutto politico, ma inevitabilmente esso assume sempre più una valenza religiosa, sicché sarà nei secoli caratteristica peculiare dell’ebraismo l’inscindibilità dei due aspetti. Al punto che, anche linguisticamente, il dire di una persona che è ebrea viene spesso inteso nel senso che ella è seguace della religione ebraica; cosa che invece non consegue necessariamente.

Mosè non desidera che l’ebreo possa pensare ad un dio minore, ancora lontano dall’essere pienamente se stesso: se l’ebreo capisse che Dio altro non è che il massimo ultimo (eventuale , remotissimo e improbabilissimo) sviluppo dell’umanità, allora capirebbe anche che non esiste nessun popolo eletto, perché è, appunto, l’umanità intera a svolgersi, necessariamente senza distinzioni, verso l’indiamento.

Potremmo dire che il suo status di popolo eletto, il popolo ebraico può dopo più di tremila anni individuarlo nel fatto di avere avuto tra i suoi figli (in realtà come padre) anche colui, Mosè, che ha dato inizio ad un cammino guidato e forse destinato nei millenni a divenire consapevole anche alle masse.
Tuttavia in allora una consapevolezza di questo tipo avrebbe frenato, o forse fermato, non soltanto la conquista della Terra Promessa ma anche l’entusiasmo di progredire e migliorarsi del popolo ebraico medesimo, e, aggiungiamo, di qualsiasi altro popolo che la avesse acquisita.
L’ignoranza da parte del popolo che il Dio pensato da Mosè non era trascendente né onnipotente, permette a Mosè di perseguire con più agio il suo fine politico che, appunto, per essere attuato è stato inserito in, e quasi del tutto nascosto da, un’impalcatura religiosa.

Sappiamo che uno Stato per essere tale ha necessità di tre cose: la sovranità, il popolo, il territorio. Ebbene Mosè compie il miracolo di materializzarle dal nulla tramite la religione.
La sovranità la acquisisce presentandosi con somma maestria e tornaconto carismatico, come l’esecutore (unitamente al fratello Aronne) della volontà divina per mettere in atto le cosiddette Dieci Piaghe contro il faraone (acqua tramutata in sangue, invasione delle rane, invasione delle zanzare, ecc.) e regolamentando quelli che ormai sono i suoi sudditi con la Legge che sostiene di aver ricevuto da Dio sul monte Oreb, completata in seguito dalle prescrizioni del Deuteronomio.
Il popolo lo  crea istituendo un fine (la conquista della Terra di Canaan, indicata da Dio) al quale tutti tendano e per il quale tutti operino, sicché l’interesse spirituale e concreto di uno dei componenti risulti il medesimo di quello di tutti gli altri, e li accomuni, cioè li faccia comunità.
Il territorio lo acquisisce riferendo di come Dio abbia riservato alle dodici tribù di Israele, la terra che era stata, appunto, di Israele (l’altro nome di Giacobbe), per cui occuparla diviene una sorta di fatto naturale e di atto dovuto in nome ed onore del patriarca.

Mosè aveva capito che senza il collante della religione, mai sarebbe riuscito a convincere un popolo ad imbarcarsi in avventure come quella dell’esodo attraverso il deserto e degli scontri continui contro i popoli che lo separavano dalla Terra di Canaan.
D’altra parte sappiamo che la geniale idea della Legge dettata da Dio non era un fatto nuovo. Già cinquecento anni prima di Mosè la si trova in Hammurabi, come ci viene testimoniato dalla stele che raffigura il re di babilonia in procinto di ricevere dal dio Shamash le 242 leggi del suo famoso Codice.
Per aver saputo far tesoro di ciò, o per aver autonomamente avuto l’idea della Legge dettata da Dio, Mosè può essere considerato uno tra i più straordinari e straordinariamente intelligenti impostori che l’umanità abbia mai conosciuto.

Nel portare avanti la sua ideologia, il mosaismo ha usufruito oltreché del vantaggio del riaggiustamento della dottrina attribuita al suo eroe eponimo ogni volta che essa mostrava delle smagliature (per cui presumibilmente ne è risultata una versione finale purgata da certe scelte fatte dai vari capi, cioè dai vari Mosè, e poi accantonate), anche del vantaggio di usufruire di quella prospettiva che, a chi ha il potere, permette di vedere le cose da un punto di vista privilegiato: dall’alto.
Con una similitudine potremmo dire che, in determinate situazioni, vedere le cose dall’alto dà una maggiore intelligenza delle cose stesse: chi guarda dall’alto una città, ne capisce meglio la topografia di chi ci vive e tocca i muri dei suoi palazzi, e cammina sulle pietre delle sue strade. Quest’ultimo, per quanto faccia, e nonostante magari la sua perspicacia, non riuscirà a rendersi conto dell’estensione, conformazione, suddivisione della città nella stessa misura in cui ci riesce il primo.
Diciamo questo perché siamo davanti ad una formidabile intuizione, e non soltanto ad un pensiero che struttura, escogita e costruisce.
Ci sono uomini di potere che non saprebbero analizzare ad uno ad uno gli elementi fondamentali del proprio agire, e che tuttavia hanno la certezza, confermata poi dagli eventi, che ogni loro mossa è sostenuta da una logica sapiente come e più che se fosse stata lungamente calcolata.

D’altra parte quanto diciamo sarebbe poco verosimile e poco credibile se a Mosè non si attribuisse, quasi come fatto scontato, una tale capacità intuitiva che ci costringe a razionalizzare in un discorso complesso quella che per lui può essere stata un’intuizione relativamente semplice, nonostante la sua profondità.
Insomma, che noi si sia costretti ad un’analisi difficile e spesso complicata, non comporta che l’oggetto dell’analisi (in questo caso il messaggio mosaico) abbia dovuto subire lo stesso travagliato percorso con cui si cerca di interpretarlo.

L’intuizione rispetto all’analisi, ha almeno il vantaggio della brevità.
La grandezza di Mosè dunque deriva dalla sua notevolissima capacità intuitiva, dal tempo e dal potere di cui disponeva (trattandosi di una “persona collettiva”), e dalla cultura di cui certo era fornito: probabilmente infatti tutti coloro che hanno lavorato al Pentateuco erano, a cominciare dal Mosè canonico, o scribi o sacerdoti, e questi ultimi, spesso, magi, cioè figure in bilico tra scienza ed esoterismo.

Per Mosè non si tratta più di guidare una tribù, ma un popolo, ormai; ed egli pensa ad un popolo in continua evoluzione, sempre più numeroso e sempre più forte, e sempre più numeroso per essere più forte.
Solo così potrà sopraffare tutte le genti che si frappongono tra lui e la Terra Promessa. Questo a Mosè innanzitutto e consapevolmente interessa.

Non si vuole tuttavia negare che nel Pentateuco possa esistere vero pathos religioso. Semplicemente si evidenzia come tale pathos sia funzionale alla strategia politica che riguarda specificamente il popolo israelita.
E’ per l’impostazione di questa acquisizione strategica che, al di là delle consapevoli mire di Mosè, vi è un’ulteriore tensione verso l’acquisizione del Regno di Dio, di una Terra Promessa che non sia semplicemente Canaan, ma il realizzarsi del desiderio dei progenitori, cioè della più profonda e antica parte di tutti noi, sopita ma mai del tutto spenta.
Parte che si risveglia nel momento in cui il bambino cresciuto a sufficienza per sentirsi piccolo, deve compensare la rinuncia alla sua personale illusione di onnipotenza, con un escamotage per mentirsi ancora: diventa padre di un altro se stesso, e gli trasmette la sua illusione perduta.

Per divenire una nazione, il popolo di Israele aveva bisogno di moltiplicarsi.
Mosè nel Pentateuco, l’impianto teologico-giustificativo del suo progetto, non a caso insiste moltissimo su questo.
O in modo diretto, cioè inserendolo come concetto centrale di svariati dialoghi di Dio con Adamo, Abramo, Isacco etc.
O in modo indiretto, per esempio mostrando l’invidia di Rachele, temporaneamente sterile, per la sorella Lia.
La motivazione politica, però, da sola non è sufficiente a giustificare e a spiegare la potenza trascinante che il messaggio mosaico ha avuto.
Il fatto è che le direttive o i divieti imposti da Mosè, facile o difficile che fosse rispettarli, erano comunque, in qualche misura (e ci riferiamo in special modo a tutto ciò che ha a che fare con l’idea di progresso) in sintonia con l’animo dell’Uomo.
Mosè ha saputo far leva, quindi, sia sulle ansie delle moltitudini che temono per la loro sopravvivenza politica, economica, etnica, culturale; sia sulle ansie del singolo, uomo o donna, ogniqualvolta si trovi alle prese col pensiero della sofferenza, della solitudine, della morte, dell’eternità.

Continua

FULVIO BALDOINO

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