Statue di carne

Rovesciamo le cose: immaginiamo che Adamo ed Eva avessero ubbidito lasciando il frutto attaccato al ramo.
Cosa sarebbe successo?

I progenitori avrebbero continuato a fare quello che facevano: vegetare felici senza sapere di essere felici perché non avevano il metro mai sperimentato della sofferenza.
Se uno non sa di essere felice, non può che vegetare. Forse ( in realtà neanche quello, ma siccome qui procediamo sul confine tra realtà, mito e ironia, lo concediamo ) può passeggiare, guardarsi attorno e poco più. Perché non gli manca nulla e perciò non cercherà nulla: né cibo, né riposo, né sesso, né successo, né avventura, né affetto, né conoscenza, né realizzazione. Senza storia passata ( sia l’uno che l’altra nascono già adulti ) e senza prospettive, di avvenire non ne avrebbero avuto.
Sarebbero rimasti lì, in un eterno presente, in uno stato di ebetudine.
Per contro la loro disubbidienza è servita all’uomo per essere sulla terra, con tutte le sue speranze e delusioni, col suo bisogno continuo di qualcosa e di qualcuno. E col suo bisogno di Dio, che i due colpevoli, non avendo bisogni, non avrebbero sentito e consentito a noi di sentire.  
Chi allora maledice Eva ed Adamo e insieme benedice l’esistere, dice male. Si contraddice.

Si renda conto costui che il nostro esserci è possibile solo (ed anzi è il frutto) della disubbidienza. Esserci è il peccato.
E anche l’unico modo di sapere che essi non dovevano peccare, condizione ineludibile per rimanere così ignoranti da non sapere che erano perfetti in quel limbo dorato. Cosa che in maniera simile si rimodella in chi, a livello evidentemente più basso di vissuto storico personale, imponendosi di non pensare più a una certa cosa, di nuovo è costretto a pensarla.
Peccare per essere, ed essere come unico modo per capire che non dovevano peccare, perché avrebbe loro evitato di essere. Nel senso che essere pienamente e perfettamente senza sapere di essere pienamente e perfettamente, coincide col nulla.
La condanna dei progenitori perché ci avrebbero trascinato nella loro condanna, è insieme giusta e ingiusta, in quanto l’unico modo di essere ( restando nella metafora biblica ) è essere peccatori.
Loro erano completamente soddisfatti di tutto, e perciò non avevano bisogno di niente. Avevano tutto il ben di Dio e perciò non avevano neanche il bisogno di sognare e di pregare. 

Se dove ci si trova si ha tutto quello che si desidera, è ovvio che si resta lì. E insomma erano come delle statue compiute, ben levigate. Però vive.
E come si può mettere insieme un vivo con una statua?
Diciamo che erano vivi come le bestie e che come loro mangiavano, dormivano, copulavano ma tutto nel presente, per cui non sapevano del loro mangiare, bere, dormire, copulare se non nel momento stesso in cui avveniva.
Insomma, erano eterni come lo sono le bestie, le quali infatti conoscendo solo il presente non sanno della morte; e onniscienti, perché non dovevano andare col loro pensiero oltre l’attimo che vivevano, che perciò era tutto quello che dovevano sapere e che erano.
Bestie, in breve, beate ed ebeti.
Quando si lasciano traviare dal serpente, si ritrovano morituri e consapevoli, perché scoprono il tempo. E la morte.
Dio aveva detto che la conseguenza sarebbe stata la morte, ma loro la morte non la conoscevano. Non avevano mai visto morire nessuno.

E il punto è proprio questo: come potevano temerla?

Fulvio Baldoino

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One thought on “Statue di carne”

  1. Bellissima introspettiva in quell’eterno presente che ci viene prospettato dalla religione cristiana come il paradiso a cui tendere se si vive secondo i precetti, peraltro formulati da mente umana. Smettiamo dunque di desiderare un paradiso nel quale cesserebbe ogni desiderio, essendo appagati della visione della luce divina, oltre la quale nulla c’è più da desiderare. Curiosamente è proprio la luce a sperimentare nel mondo sensibile l’eterno presente, essendo essa stessa senza tempo, lasciato a tutto ciò che essa sfiora nel suo cammino senza sosta e senza fine, se non quando impatta sulla materia, cioè col transeunte. Chi muore però è proprio la luce, quel raggio presunto eterno che si disperde in forma degradata in ogni direzione nell’infinito spazio cosmico. Di qui potrebbero partire ulteriori elucubrazioni, ma preferisco averne semplicemente indicato lo spunto.

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