Racconto IN TRENO, ORE 7, 05
L’uomo camminava ondeggiando sul ciglio della strada. Aveva bevuto e si era pure impasticcato, ma né l’alcool né la droga l’aiutavano a sentirsi meglio. Anzi, oltre a star male dentro gli girava la testa, aveva nausea e provava sensazioni sconvolgenti. Dinanzi a lui si stagliava la stazione. La guardò senza davvero vederla e gli sfuggì un lamento. Si piegò quindi da una parte per rimettere. Per fortuna era tarda notte e non lo vedeva nessuno, perché il suo carattere chiuso e introverso avrebbe mal sopportato simili incresciose figure.
Poco dopo si rincamminò. Continuava a sentirsi male, ma almeno era più lucido. Pensò alla sua esistenza e la giudicò inutile da essere vissuta. Si sentiva solo e abbandonato da tutti: nessuno lo comprendeva
Aveva pregato tanto, chiedendo aiuto al Signore di tutto cuore, ma anche Dio sembrava averlo dimenticato. D’altronde cosa aveva fatto di buono nella vita per meritarsi il suo aiuto? Ci pensò su. Si sforzò davvero di trovare un qualcosa per cui fosse valsa la pena di essere venuto al mondo e di restarvi ma non ci riuscì.
Gli vennero poi in mente Frank Capra e il grande Jimmy Stewart: “La Vita è meravigliosa”. Aveva amato moltissimo quel film, ma adesso il ricordo gli infondeva solo tristezza. Si sentiva un fallito sotto ogni punto di vista, incapace di realizzarsi nel lavoro in cui era l’ultima ruota del carro e privo di una degna vita sentimentale. Perché se avesse almeno avuto una famiglia, una moglie e soprattutto dei figli a cui voler bene e a cui pensare, a suo parere gli sarebbe stato più facile affrontare le difficoltà contingenti. Invece si era scoperto sterile e figli non ne avrebbe avuti mai, almeno in maniera naturale e anche a causa di ciò la sua consorte lo aveva abbandonato.
Gli veniva spontaneo pensare che nessuno avrebbe fatto caso alla sua morte così come nulla al mondo sarebbe cambiato in peggio senza la sua nascita. Da quest’ultimo punto di vista al più i suoi pochissimi amici si sarebbero dovuti cercare qualcun altro per trascorrere le loro serate di svago e sai che tragedia. Tanto, benché per un suo mal riposto senso di riserbo fosse incapace di sfoghi, con i suoi famigerati silenzi non era nemmeno di buona compagnia. No, davvero, nessuno ne avrebbe patito se lui non fosse mai nato. E comunque non ci sarebbero stati angeli senza le ali come nel film a fargli cambiare idea, lo sapeva. Meglio davvero non essere mai nato.
Incespicò, quindi si rimise in equilibrio e si guardò intorno, sorpreso. Era entrato in stazione senza neppure accorgersene e ora camminava fiancheggiando i binari. Pensilina e marciapiede erano terminati da un pezzo e così lui era inciampato su di un sasso del ghiaione più grosso e squadrato della media. Si volse all’indietro. La stazione era già lontana. Dopo esservi entrato aveva continuato a camminare per diversi minuti senza prestare attenzione a quanto faceva, immerso com’era nelle sue cupe meditazioni. Come se la sua psiche volesse trascinarlo via da lì, per ricominciare lontano, da qualsiasi parte. Ma gli sarebbe servito trasferirsi? No, non c’era alcun luogo dove andare, per lui: nessuno può sfuggire a se stesso.
La testa gli pulsava e la nausea lo scombussolava contribuendo ancor di più a farlo sentire senza arte né parte, destinato a fallire ovunque. Stava albeggiando. L’inizio di una giornata che a suo parere non sarebbe stata migliore delle precedenti.
Udì il fischio di un treno in partenza, si voltò e scorse la luce del locomotore farsi lentamente più vicina. Allora dal fondo della mente gli sorse improvviso un pensiero. Perché no? Tanto…
Ogni mattina milioni di pendolari o di viaggiatori occasionali si alzano presto per recarsi in una stazione ferroviaria. Quel giorno però in casa della famiglia Mollo la sveglia suonava e suonava, ma il suo proprietario non aveva neppure la forza di allungare un braccio per zittirla. Il caldo umido era opprimente e lui, Isaia, quella notte si era trovato in un bagno di sudore. Per addormentarsi aveva impiegato ore, vanamente trascorse a girarsi e rigirarsi nel letto e proprio quando, sentendosi un poco più fresco, era riuscito finalmente a chiudere gli occhi, quella maledetta sveglia era scattata.
Il treno delle 7,05 lo aspettava. Le 7 e 5 oh mio dio, che alzataccia. Doveva prendere quel dannato treno, sì, lo sapeva, ma gli mancava la volontà di alzarsi. Eppure si poteva ben fare, no? Non era poi un orario così terribile. Di sicuro ce n’erano tanti altri costretti a prendere quel treno, pensava, mentre si girava dall’altra parte e il suono della sveglia s’interrompeva. Beh, ci vadano loro a prenderlo, ci vadano loro se ci tengono tanto. Io non ne ho voglia. Ci vadano loro a…
Non riuscì neppure a terminare il pensiero, perché si era riaddormentato.
Lara e Miriam s’incontrarono come al solito ai piedi del ripido e striminzito giardinetto realizzato in mezzo ai nuovi palazzi dipinti a righe gialle e salmone, sorti in luogo della vecchia fabbrica traslocata nell’entroterra. Nei dintorni a quell’ora mattutina non si vedeva anima viva. Uniche eccezioni l’anziano solitario che ogni giorno portava a passeggio un cane spelacchiato e un tipo in completo blu e con la ventiquattrore, che montò in fretta su una Golf e partì rombando.
Le due ragazze si erano conosciute per caso due anni prima fra treni, corriere e aule universitarie. Seguendo all’incirca le medesime affollate lezioni del primo anno di corso gli era capitato alcune volte di sedere l’una nei paraggi dell’altra. Nella facoltà prescelta non conoscevano nessuno che frequentasse il loro stesso anno accademico, a parte un ex compagno di classe di Miriam, da quest’ultima trovato sempre profondamente antipatico e perciò evitato con accuratezza. Ciascuna delle due stava quindi piuttosto sulle sue e una volta seguiti i corsi rientrava diritta a casa, dove continuava con le antiche frequentazioni. Un venerdì mattino, sarà stata la terza settimana d’attività del semestre, Lara si era accomodata come al solito in uno scompartimento del treno, dove aveva riconosciuto, seduta vicino al finestrino, una ragazza già vista a lezione. D’istinto l’aveva salutata. Si trattava di Miriam. Avevano scambiato due parole e prima di giungere a destinazione avevano fatto in tempo a scoprire di abitare ad appena un paio di centinaia di metri l’una dall’altra. Ben presto le due giovani erano diventate amiche.
Quel giorno le attendeva l’ultimo esame della sessione estiva. Per suscitare una buona impressione sul professore si erano vestite con cura. Miriam come al solito era nervosa e angosciata. Quando una data d’esame s’avvicinava, per quanto freneticamente ripassasse aveva sempre la spaventevole impressione di non saper nulla, per cui diventava intrattabile. Lara in genere era invece fatalista perfino quando, come quel giorno, sapeva di avere alcuni seri buchi nella preparazione: vada come vada, è inutile preoccuparsi, tanto non cambierebbe nulla. In effetti, il modo di fare dell’amica l’infastidiva, anche perché tra le due era in genere proprio Miriam a ottenere i voti migliori. Concentrate com’erano negli studi senza ragazzi a distrarle, fino a quel momento avevano peraltro superato una dozzina d’esami a testa e, nonostante il rendimento leggermente superiore di Miriam, mantenevano entrambe una media apprezzabile.
Come sempre le accadeva, durante il percorso Miriam non fece che ripetere ad alta voce le sue mille preoccupazioni e Lara stoicamente stette ad ascoltarla senza fiatare. A piedi impiegarono una quindicina di minuti per giungere in stazione. L’abbonamento ancora per quel mese l’avevano rinnovato, quindi evitarono la biglietteria. Invero non avevano necessità di partire così presto, ma nei giorni degli appelli amavano presentarsi in largo anticipo e attendere il professore dalle prime file. E poi di solito il 7,05 aveva il vantaggio d’essere puntuale.
In stazione si percepiva una strana tensione, ma loro avevano troppi pensieri per la testa per prestarvi attenzione. C’era ancora tempo per la partenza, ma il treno regionale era già in attesa. Montarono a bordo, si fermarono in una carrozza ancora vuota, tirarono fuori i libri e s’immersero nello studio.
Bé in estate lavorava bene ed era contento. Battendo le spiagge prima o poi qualche bagnante benevolo disposto a fare acquisti lo trovava sempre. Partiva ogni giorno in autobus o in treno e scendeva a rotazione nelle varie località rivierasche, visitandone almeno un paio al giorno. Quel dì puntava sulle località balneari del genovese. Offriva le solite carabattole, tipo cinture, portafogli e t-shirt e inoltre una collana di libri assente in libreria, dedicata agli scrittori africani.
Lui però era abituato al clima costiero asciutto e ventilato del suo Senegal e, da quando era venuto in Italia, aveva spesso sofferto sia il freddo intenso invernale sia l’opprimente caldo umido estivo. A Spotorno, all’inizio della settimana precedente, era stato fortunato, con giornate piacevolmente secche e arieggiate ma poi, a Loano e a Borghetto Santo Spirito, due per lui orrende cittadine di seconde case, aveva trovato un afa opprimente. Se però se ne lamentava i bianchi non gli credevano: ma come, con quella pelle nera il sole è il suo ambiente naturale, non può trovarsi male, di certo punta a farsi compatire per vendere di più.
D’altronde pure lui faticava a comprendere gli uomini bianchi, gente priva di autentica spiritualità e di memoria del passato, sempre in movimento e assurdamente legata allo scorrere del tempo, salvo poi trascorrere contraddittoriamente ore e ore immobili sotto il sole cocente per l’assurdo desiderio di diventare neri come lui.
Dalla biglietteria Bé era salito ai binari a testa bassa e senza guardarsi intorno, infilandosi poi in una carrozza a caso, dove si era stravaccato nel primo sedile trovato libero. Era in anticipo sui suoi orari abituali, perché sapeva che ad Arenzano c’era un bel parco pieno di pavoni e per una volta intendeva rilassarsi qualche ora, prima di iniziare la giornata. La primavera precedente, quando per la prima volta in vita sua aveva visto i pavoni, era rimasto assai colpito da quella loro incredibile ruota e desiderava ardentemente rivederla.
Qualcosa non andava, però. Un qualcosa trasmesso nell’aria gli causava un inspiegabile tensione interiore. Si era verificata un’acuta negatività, lì in stazione. Non sapeva quale, ma si trattava di un brutto evento, ne era certo. L’ansia cominciò a pervaderlo, come mai in genere gli accadeva, ma si sforzò di chiudere gli occhi e ignorarla.
L’ingegner Pietro Canevari quel mattino si doveva recare presso la corte d’appello del tribunale di Genova e non ne era contento: ma guarda un po’ se con tutte le faccende che avrei da sbrigare mi doveva capitare pure questa, pensava. Sorteggiato come giudice popolare, dapprima si era dovuto sciroppare un procedimento su una rissa con accoltellamento in un bar e ora gli sarebbe toccato seguire un nuovo dibattito. Un omicidio in ambito familiare, se aveva capito bene. Suo cugino era rimasto a disposizione per tre mesi senza mai essere interpellato e lui invece dopo tre settimane era già al secondo processo. La sua solita sfortuna.
Non avrebbe voluto accettare l’incarico ma, quando era stato convocato in tribunale a Savona, il delegato gli aveva chiesto se avesse ragioni serie e gravi per rifiutare e lui, beh, no, in tutta coscienza non se l’era sentita di addurre giustificazioni. Motivi così seri e gravi per rifiutare in fin dei conti non ne aveva.
Ora si augurava di finirla rapidamente, prendendosela con se stesso per gli eccessi di scrupoli che lo avevano portato a impelagarsi per – almeno – tre mesi proprio quando lo studio ingegneristico con cui collaborava lavorava a pieno ritmo, impegnato in un progetto importante legato ai grandi appalti aperti nell’area portuale.
Parcheggiò l’auto in piazzale Aldo Moro e salì con calma i gradini. Giunto in stazione si mise in coda in biglietteria e nell’attesa si assicurò che il suo spezzato grigio Armani fosse in perfetto ordine. Pietro Canevari teneva al proprio aspetto esteriore: non si poteva mai sapere chi si stesse per incontrare, perché rischiare una brutta figura? Subito dopo aver acquistato il biglietto rivolse lo sguardo verso il tabellone e solo allora si accorse che tutti i treni diretti verso o provenienti dal levante erano indicati in ritardo indeterminato.
Cosa diavolo starà succedendo, si chiese.
Sapeva dello sciopero previsto a partire da quella sera e gli sorse improvviso lo spiacevole dubbio che a sua insaputa lo avessero anticipato.
Ah no eh, maledetta gentaglia, brontolò tra sé e sé.
L’ingegnere odiava i ferrovieri. Per lui non erano altro che una manica di lavativi continuamente in sciopero da più di vent’anni.
Chiunque decidesse di contestare i propri datori doveva avere le sue buone ragioni, non lo negava, chiunque tranne i ferrovieri. Quelli a suo parere avevano torto a priori, qualunque fossero le loro motivazioni, perché chi si astiene di continuo dal lavoro per avidità o per le motivazioni più futili, danneggiando l’intera cittadinanza senza scrupolo alcuno, alla fine non è più giustificato neppure quando è costretto a incrociare le braccia per motivi davvero seri.
Siccome l’ingegnere aveva la fissa di essere informato su tutto e su tutti prese a chiedere spiegazioni a chiunque gli capitasse a tiro. Dopo molti boh e non so qualcuno infine gli spiegò che la linea per Genova era momentaneamente chiusa a causa di un tizio gettatosi sotto il treno.
Ecco, ci mancava solo questa, meditò irritato.
“E quanto ci vorrà per liberarla?”
Non si sentiva molto ottimista, ma la risposta era stata rassicurante.
“Mah, il corpo sta lì da un pezzo, a quest’ora i rilevamenti li avranno ben terminati. Il tempo di spostare il cadavere dai binari e si parte, non dovrebbe volerci molto.”
Andò a sedersi in treno sperando in bene. Si guardò intorno. I vagoni non erano suddivisi in scomparti ed erano a due piani. Scelse una carrozza ancora libera, in cui erano presenti soltanto un africano carico di borsoni, mezzo addormentato con i piedi allungati sul sedile di fronte e all’estremità opposta due giovani ben vestite immerse in un paio di tomi ponderosi. Il suo sguardo fu calamitato da queste ultime. Una soprattutto gli piaceva, una bella ragazza con il viso dolce e lineare ben evidenziato dai corti capelli castani e il bel corpo armonioso. Solo i seni erano forse troppo piccoli e quasi sparivano sotto la camicetta. La seconda invece era assai più racchia, con quel viso cavallino accentuato dalla pettinatura a coda, la fronte bombata, il naso troppo pronunciato e il corpo ossuto, ma l’attraenza dell’altra a suo parere bastava per entrambe. Volle sedersi vicino, gli piaceva godere della compagnia di ragazze giovani.
La signora Cerone, insonne casalinga di mezza età, si recava a Genova con un amica e vicina di casa, la professoressa d’inglese in pensione Maria Pia D’Aliesio. Contava di trascorrere l’intera giornata per negozi. Quando il gatto manca i topi ballano e con suo marito assente per affari fino a tarda notte e il figlio in vacanza all’estero con amici aveva l’intera giornata a disposizione. La vicina poi era nubile e priva di legami e poteva assentarsi quanto le pareva.
Le due signore adoravano far shopping in maniera quasi compulsiva e riempivano le loro abitazioni di prodotti inutili, per la disperazione del dottor Cerone e del conto in banca della D’Aliesio. Accadeva perché ognuna delle due si sentiva frustrata. L’una continuava a lamentarsi dei presunti obblighi eccessivi da cui si sentiva schiacciata, pentita di aver messo su famiglia, al contrario la seconda si doleva per la propria scelta di restare nubile, per cui segretamente le due donne s’invidiavano l’un l’altra.
Solo facendo compere trovavano pace. Anna Cerone conosceva un paio di negozietti in centro assai carini, dove si potevano acquistare prodotti di ottima qualità a prezzo decente e contava di non rientrare a casa a mani vuote, mentre la professoressa D’Aliesio era ben lieta di verificare la qualità dei suddetti esercizi, non solo per se stessa ma anche per una nipote di cui si avvicinava il compleanno.
All’incirca davanti alla postazione dei taxi la signorina D’Aliesio incrociò una più giovane conoscente in tailleur color crema e la salutò.
“Oh ciao Virginia, come va?”
“Non mi dire niente, sono stanca morta. Quest’anno mi hanno chiamato all’Andrea Doria di Genova come membro esterno e non ne posso più, meno male che ormai abbiamo finito, oggi c’è la riunione finale prima di esporre i quadri.”
Quindi l’insegnante, Virginia, s’accomiatò e si allontanò. Pareva davvero spossata, nonostante fosse ancora mattino presto. All’improvviso si portò una mano alla fronte rammentandosi chissà cosa e un istante dopo prese in fretta il cellulare e compose un numero.
Dandole oramai le spalle le due amiche entravano intanto nell’edificio progettato da Pier Luigi Nervi. Giunta dentro la stazione madame Cerone si accorse di un insolito nervosismo da parte dei presenti. Mentre faceva il biglietto per tutte e due chiese al cassiere se era successo qualcosa e andò subito a riferire all’amica: un uomo si era gettato sotto il treno e la linea era bloccata.
“Beh” – sentenziò la D’Aliesio – “che c’importa? Non abbiamo alcuna fretta, l’importante è che a bordo ci siano posti a sedere, se poi anche si parte in ritardo va bene lo stesso, no?”
La casalinga non ebbe obiezioni da addurre e seguì la vicina di casa in vettura senza profferir verbo.
Marongiu si alzava ogni mattina da lunedì a venerdì ampiamente prima delle sette per andare al lavoro in ufficio a Sampierdarena. Accadeva ormai da sette anni. Per lo più si trattava di un inutile e ripetitivo disbrigo di carte. Tuttavia benché i primi tempi odiasse il suo lavoro ormai ci aveva fatto l’abitudine e non gli dispiaceva nemmeno più troppo. E poi, come spesso accade negli uffici pubblici, il compito non era impegnativo e tra sosta per la colazione, pausa caffè e interruzioni varie la giornata scorreva veloce.
A circa metà del percorso tra abitazione e stazione, si era trovato davanti, come già in precedenti occasioni, un altro pendolare. Si trattava di un tizio basso e grasso, calvo e con i baffi, anziano e dunque di certo ormai prossimo alla pensione. Lo vedeva sovente salire a bordo insieme a lui tenendo sotto braccio una cartella straboccante documenti e poi scendere alla medesima stazione sua. A quel punto svoltavano subito in direzioni opposte, per cui non sapeva né dove risiedesse esattamente né dove si recasse ogni giorno nel capoluogo regionale.
Quel mattino il tizio brontolava e imprecava a mezza voce tra sé e sé, arrabbiato per chissà quale motivo. Tampinandolo senza percepire cosa dicesse, Marongiu era salito ai binari passando come al solito dall’ingresso secondario, evitando così la biglietteria con i tabelloni degli orari. Tanto il 7,05 partiva senza sgarro dal terzo binario fin dal suo primo anno di lavoro e sapeva di trovarcelo. Tutto il contrario di quello successivo, soppresso un giorno sì e l’altro pure, a parte forse il lunedì, e per questo ormai disertato dalla massa dei viaggiatori.
Ed eccolo lì, infatti, come sempre. Guardò l’ora. Mancavano cinque o sei minuti buoni alla partenza, inutile correre. Quanto al ritorno: boh? Quasi ogni pomeriggio alla stazione di Sampierdarena, la terza per importanza tra le innumerevoli della grande Genova, negli ultimi anni aveva avuto a che fare con treni in ritardo spaventoso o addirittura soppressi. La vita da pendolare si era fatta ormai impossibile. Per quaranta miserabili chilometri impiegava in media quasi due ore. Pensando al ritorno gli tornò alla mente la disavventura peggiore capitatagli, quando il treno su cui viaggiava, peraltro in grave ritardo fin dalla partenza, si era arenato a Cogoleto e senza spiegazioni i passeggeri erano stati invitati a scendere e trasferirsi su un altro convoglio già in attesa. Avevano tutti attraversato rassegnati il binario per raggiungere il secondo locale a due piani. A quel punto un battagliero cinquantenne, passando dinanzi al locomotore, aveva preso a inveire ad alta voce contro i ferrovieri. Il macchinista si era adontato rispondendo per le rime ed era sceso a terra. Era finita a pugni e calci, trascinando nella rissa pure un amico del viaggiatore e il collega del macchinista e poi altri ancora, intervenuti per separare i contendenti. Infine era sopraggiunta la polfer, che aveva tratto in arresto quattro dei coinvolti, costringendo le ferrovie a trovare dei sostituti e ritardando ulteriormente la ripresa del tragitto, col risultato che quel giorno lui era arrivato a casa tardissimo, stanco morto e con un diavolo per capello…
Ma perché rivangare ricordi tanto spiacevoli? Marongiu salì a bordo con un agile balzo, figlio delle intense attività sportive praticate durante l’adolescenza. Il treno si stava affollando, ma disponeva ancora di posti a sedere. Si diresse verso coda e, giunto alla penultima carrozza, scelse un sedile a caso, di fronte a un paio di signore non più giovani e assai ciarliere. Occupò il posto di fianco al suo per il collega che altrimenti, quando sarebbe salito, tre fermate più avanti, sarebbe stato di sicuro costretto a restare in piedi. Estrasse quindi di tasca il giornale per dedicarsi ad una tranquilla mezz’ora di lettura.
Intorno al luogo in cui giace la vittima si è formata una calca spaventosa e gli uomini della polfer hanno avuto il loro daffare a tenere la gente indietro. L’ufficiale al comando stenta a capire il modo di ragionare degli esseri umani. Se lui avesse potuto avrebbe volentieri girato al largo da lì, invece di ronzarvi intorno come un moscone sulle feci di un cane. E quel dannato capostazione poi, rompe e protesta di continuo! Comincia davvero a scocciarsi. Per fortuna il medico legale è arrivato e in quel momento se ne sta accovacciato a fianco del cadavere.
…Dddrrriiiiiiinn … dddrrriiiiiiiinn, aaaahh di nuovo, porca miseria, mi sono appena riaddormen… dddrrriiiiiiiinn, maledetta sveglia, ddrrriiTlak. Aaaahh. Stavolta non ricominci più, carognetta…Non ho voglia di alzarmi, aaaahh, non ne ho proprio voglia, zero…
…A dirla tutta non ne ho mai voglia, da un po’ di tempo in qua. Quanto avrò dormito? Dieci minuti, forse, a giudicare da come mi sento. È come se fossi appena andato a letto. Aaaahh, eppure almeno un po’ di più devo ben esserci riuscito.
E ora… mmf… ora mi tocca andare a Genova fin dal mattino. Chi me l’ha fatta fare a prendermi l’impegno… Mi sento depresso. …A Genova… in treno… a fan culo… e proprio dopo una sera di lavoro mentre oggi non dovevo tornarci più… quasi quasi mi giro su di un lato e mi rimetto a dormire e al diavolo l’appuntamento, ecco, aahh, così…
… silenzio … silenz…
“Isaia, tesoro, ma non dovevi uscire presto stamani?”
“Mmf, lasciami in pace mamma per favore.”
“Ma come! Ognuno deve obbedire ai propri doveri, non lo sai? E chi dorme non piglia pesci, io ultimamente proprio non ti capisco, alzati e falla finita, Isaia.”
“Va bene, va bene, ora mi alzo.”
Farla finita. Già proprio così, ma non come la intende lei. …Suicidio. Perché mi sento sempre così?… Sono stanco della vita, ecco la verità. Sì, ne sono stanco e mi vorrei suicidare. Suicidio. Una parola che non oso mai pronunciare ad alta voce, che quasi non oso neppure pensare ma che pure mi affiora in superficie sempre più sovente. Da tanto tempo ormai ci medito sopra. Da quando? Direi da quando Agnese mi ha lasciato? …Ma non è stata lei la causa, no. In Agnese in fondo non credevo perché, beh, perché in fondo al cuore sapevo che era una stronza, una grandissima stronza egoista. Si era messa in testa di rimodellarmi a sua immagine e somiglianza perché amava solo se stessa. Nella sua mente ero soltanto una appendice di lei e io lo sapevo, lo intuivo. Ho cercato di venirle incontro, di accontentarla il più possibile, l’ho cercato sul serio, perché desideravo tanto una compagna e ci volevo credere…
…Mi è bruciato che sia durata così poco, nonostante le mie illusioni. Non era innamorata di me, però le piacevo. Le piacevo, sì… ma l’ho delusa. Io deludo sempre tutti. Mi ha desiderato tanto tempo. È stata lei a venirmi dietro, mica ci pensavo, io, ma quando poi ci siamo messi insieme io ne ero felice per davvero, tuttavia per lei evidentemente non è stato come pensava e si è stufata. Per l’ennesima volta una donna non ne ha più voluto sapere di me e allora ho cominciato a lambiccarmi sul perché deve finire sempre così e ci ho sofferto in maniera cocente. Amor proprio ferito, ecco! …
…Un brutto colpo, lo ammetto, perché perdere l’amor proprio è la cosa peggiore, ma… mmf, no, non deve essere stato quando lei… no. Non solo, almeno. È stato dopo che… ho iniziato a pensarci sul serio a… a…. Dopo, quando… quando la compagnia teatrale si è sciolta. Ecco quando. L’anno scorso, a fine estate. Ero tornato scapolo da un paio di settimane o poco più e mi sentivo ancora abbacchiato.
Colpa di Paolo e Marina, che non avevano più voglia di andare avanti. Gli altri li hanno seguiti a ruota e io, io non avrei voluto rinunciare, ma… alla fine eravamo rimasti solo in due e stavolta non ce la siamo sentita di rifondare il gruppo un’altra volta, né io né Giorgio. Perché due fallimenti erano già stati troppi. Tuttavia ormai la sentivo come la mia compagnia, mia. Lei mi aveva riempito le giornate e mi aveva illuso. Illuso ancora, sì, io m’illudo sempre, qualunque cosa faccia. È il mio difetto principale, perché rende i risvegli più amari. Ma quello era diventato più di un hobby, per me. Recitavamo bene e avevamo avuto un paio di eloquenti successi a livello locale. Per questo avevo costruito castelli in area, sogni. Stupido, sono un maledetto stupido…
…Abbiamo fatto teatro per tanto tempo. La compagnia per me è stata uno sfogo. Ha riempito la mia vita per dieci anni e quando tutto è finito la vita stessa ha cominciato a sembrarmi vuota.
Suicidarmi, morire. Da quel giorno ci penso di continuo. Mi sento inutile. Se morissi… forse allora Paolo e Marina si pentirebbero di avermi distrutto la compagnia, di avermi scaricato all’inizio delle prove lasciandomi con il sedere per terra per la commedia. Forse allora si sentirebbero in colpa…
…Se almeno mi madre mi lasciasse in pace. Io lo so cosa pensa di me, so quanto mi disprezza, come si vergogna dinanzi alle amiche e alle conoscenti di doversi tenere in casa un figlio ancora scapolo e disoccupato o al più semi occupato. Un inutile scapestrato giunto ormai alle soglie dei quarant’anni, ecco cosa sono io per lei.
E che rabbia mi fa, quando per insultarmi mi aggiunge un anno.
“Hai trentotto anni, che aspetti a trovarti un lavoro serio?
“Trentasette mamma.”
“Ma ormai vai per i trentotto.”
“Ma finché non li ho compiuti ne ho trentasette, accidenti.”
E da quando due mesi fa ne ho compiuto trentotto per davvero, arrotonda addirittura a quaranta, si vede che trentanove gli suona male.
Forse è solo da quando ho cominciato a pensare ai quarant’anni che ho cominciato a meditarci seriamente, al suicidio, prima in fondo era un pensiero ricorrente ma capzioso.
“Hai quarant’anni, cosa aspetti a dare un senso alla tua vita?” Mi ha chiesto ieri.
“Ma va a fan culo, mamma. Smettila una buon volta di aggiungermi gli anni. Perché non arrotondare addirittura a cinquanta allora, già che ci sei, così facciamo cifra ancor più tonda.”
“Perché no? Tanto fanno presto a venire, pure loro.”
Maledetta! E questo numero, quaranta, mi gira sempre di più per la testa. 40. Quarant’anni, tempo di bilanci. E va bene, io sono un fallito, lo so, ha ragione lei. Un figlio che non è riuscito a completare gli studi, né ha trovare un lavoro decente, né a sfondare con il teatro, tantomeno crearsi una famiglia come ha invece fatto la sua sorella minore, residente a Milano, un figlio fallito in ogni campo. E non perde occasione per ricordarmi tale onta:
“Oggi, Isaia…” – Isaia mi chiamo, vi rendete conto? Isaia Mollo, che nome del cavolo. – “…Oggi, Isaia, ho visto da lontano la signora Profeta e allora mi sono affrettata a cambiare marciapiede e a fissare dritto davanti a me, perché quella tutte le volte che mi vede mi ferma per raccontarmi i trionfi di suo figlio e pare me lo faccia apposta, perché sa che io invece sono stata sfortunata. Quando la smetterai di farmi vergognare?”
Solo a questo pensa, che la faccio vergognare con le sue amiche, ma lei crede di farmi del bene comportandosi così? Crede davvero che io sia orgoglioso di me stesso? Io soffro ma nessuno pare mai accorgersene, anzi, mia madre non perde occasione di offendermi, come se io lo facessi apposta a non volermi trovare una compagna e un lavoro ben remunerato per il piacere maligno di gravare su due poveri vecchi che sopravvivono a stento con una misera pensione. Mi ha detto proprio così qualche giorno fa: gravare su due poveri vecchi.
Al colmo dell’ira mi sono messo a urlare, l’ho mandata a quel paese e mi sono trattenuto a stento dal colpirla. Gli ho piantato una mano sulla spalla, furibondo. A quel punto per fortuna mi sono controllato, ma per qualche istante ho desiderato farle del male, tanto male. L’avrei fatta fuori volentieri. C’è mancato poco, neppure se lo immagina quanto poco c’è mancato.
E poi di nuovo ho pensato: meglio rivolgere a me stesso questa dannata rabbia e farla finita una buona volta con tutte le mie sofferenze. Le sfuriate tanto non servono a nulla, mia madre non fa nessuno sforzo per comprendermi.
“Invece di prendertela con me, perché stasera non esci e non ti trovi una ragazza, una buona volta.”
Ecco, infatti, in quell’occasione, tutto ciò che ha avuto da dire in risposta alle mie urla, l’incosciente.
“Ma certo, adesso esco da casa, schiocco le dita e le donne arrivano a frotte. Ma come cazzo te lo devo ripetere che non ne conosco di ragazze libere, a parte Valentina, che mi considera un amico e basta? Come te lo devo dire che non ho l’opportunità di trovarmela? E anche se ce l’avessi chi lo dice che io le piacerei? La fai facile, tu, ma che cazzo ne sai della mia vita?”
“Ehi, modera i termini, niente brutte parole a tua madre, come ti permetti.”
“Ma va al diavolo.”
“Ci andrò, ci andrò e sarai tu a farmi morire piena di peccati. Anche con i tuoi amici e con le ragazze ti comporti così? Per forza che nessuno ti sopporta.”
“E smettila per dio. Cosa ne sai tu se nessuno mi sopporta! Io ci vado d’accordissimo con i miei amici!” Ah, che pressione allo stomaco.
“Agnese mi sembrava una così brava ragazza, non dovevi lasciarla. Perché non la chiami?”
“Buona questa, sarei io adesso a… ma non l’hai capita che è stata lei a non volermi più?”
“E certo, lo vedi se non ho ragione? E chi lo vorrebbe poi un morto di fame come te? Quando ti trovi un lavoro vero?
“Il mio È un lavoro vero.”
Attualmente faccio la maschera in una multisala. Part time, quando le sale sono più affollate, quindi il venerdì in occasione delle prime, il mercoledì sera, quando il cinema costa meno, nei fine settimana e nelle festività. Non è un granché, ok, ma è pur sempre un lavoro.
“Ma fammi il piacere. Che aspetti a vincere un concorso e guadagnare bene? Quando potrò essere orgogliosa di te?”
Come se dipendesse esclusivamente da me. Dio come la odio. Ogni volta quella donna mi fa sentire male allo stomaco. Mi sta provocando un ulcera, la maledetta.
Stamani, dopo essere stato chiamato, me ne sono rimasto a letto altri cinque minuti interi, per puro dispetto, ma poi non mi è rimasto altro che alzarmi, prepararmi e uscire per recarmi alla stazione. Con tutto quel tempo sprecato devo avere ormai perso il treno. Pazienza, prenderò il prossimo, tanto l’appuntamento è tra le 9 e le 9,30 e poi di fare prima colazione me ne infischio.
Ma voglio davvero andarci, poi, a quest’ennesimo colloquio di lavoro? …Mmf. …Sono ancora in tempo a cambiare strada e zonzolare tutta la mattina, tanto so già che… Ma sono i continui fallimenti a farmi diventare disfattista… prima o poi però dovrà pur… No, no, inutile illudersi, lo so. Ormai vado avanti per pura forza d’inerzia, ma non ci credo più…
Nessuno capisce sul serio i miei problemi. Perché se nemmeno tua madre ti capisce, chi altro lo può fare? …La mia vita. Cosa ho fatto di buono nella vita? …Nulla… nulla di buono… Vorrei morire, sul serio, oggi stesso. Non gliela faccio più. Ma come suicidarmi? Quale potrebbe essere il sistema migliore?…
…Il gas. Il gas è buono. Ma la mamma ormai esce solo per fare la spesa e poco altro e papà l’anno scorso è andato in pensione, non stanno mai fuori abbastanza a lungo da permettere al gas di fare il proprio dovere e se anche fosse c’è il rischio che i vicini sentano l’odore e chiamino i pompieri.
Allora potrei gettarmi dalla finestra. Ma non certo da casa mia. Dal secondo piano non mi ammazzo di sicuro e, anzi, sfigato come sono, magari mi salvo, ma mi rompo l’osso del collo e resto tetraplegico. Ci mancherebbe solo di campare immobile dal collo in giù per i prossimi quarant’anni! Potrei allora salire all’ultimo piano e gettarmi dal balconcino delle scale che dà sul cortile. Magari di notte, quando nessuno mi vede. …Tuttavia lì è stretto, stretto e pieno di tubi, di ostacoli, due piani sopra il mio addirittura ci hanno steso le corde per il bucato e non capisco come non temano di farselo rubare. No, potrei talmente rallentare la caduta da non ammazzarmi lo stesso e passare i prossimi sei mesi ricoverato in ospedale. Ah, ecco l’edicola. Appena se ne andrà il tipo dalla chioma fluente, di cui vedo disegno sul retro della sua maglietta Warner, toccherà a me. Ora.
“Mi dia… Tutto. Quant’è? … Grazie, arrivederci.”
Non riesco neppure più a leggere libri, solo quotidiani e riviste. Sono inutile, da ogni punto di vista.
Forse era destino che tutto mi dovesse andare male, nella vita. Il fato ha cominciato a dimostrarsi avverso già prima di venire al mondo, quando i miei futuri genitori litigavano di continuo sul nome da dare al nascituro. Alla fine hanno optato per la “geniale” idea di chiamarmi in base al santo celebrato nella data in cui sarei nato, comodo, no? Così, si sono detti, il nostro bambino festeggerà compleanno e onomastico in una volta sola. E io, accidenti alla mia dannatissima sfiga, ho avuto la sventura di nascere proprio il 9 maggio, giorno di Sant’Isaia profeta, per cui devo sopportare a vita questo nome imbecille. E mi è andata pure bene, perché il 9 di maggio era dedicato anche a San Pacomio e con il pessimo gusto di cui sono dotati i miei genitori… anche se magari sarebbe stato meglio, perché avrei potuto abbreviarlo in Paco… Almeno mi avessero battezzato Gregorio. E invece no, accidenti.
Isaia Mollo, dunque. Questo è il mio nome completo. E come attendersi successi da uno che si chiama Isaia di nome e per giunta Mollo di cognome?
D’altronde la stessa genetica mi è avversa. Non ne ho ancora quaranta è già sto perdendo i capelli senza possibilità di scampo. Chi non mi ha più visto negli ultimi anni stenterebbe a riconoscermi, da quando li ho dovuti tagliare nel disperato, e vano, tentativo di salvarli e la fronte mi è diventata, ecco, piuttosto alta. Ad Agnese così non piacevo più. Mi ha lasciato anche per questo, credo. Tendo pure ad ingrassare. Ho ereditato la tendenza alla pinguedine e alla calvizie di mio padre e non vi trovo rimedio. Mangio pochissimo, eppure…
…Eccomi arrivato e… accidenti. Di corsa sui gradini a due a due che qui mi perdo anche questo…
“Ehi, fate un po’ attenzione accidenti.”
“Ma se ci sei venuto addosso te, scemo.”
“Guarda dove vai, rimbambito.”
Maledetti ragazzini. E così sarei io adesso ad averli urtati. Beh, in effetti ero distratto, non so… ma dio, perfino due poppanti riescono a mettermi i piedi in testa!…
…Come mai questi ritardi indeterminati? Boh, non voglio sapere. Chissà, magari mi scampo il colloquio con una scusa incontestabile, non sarebbe male…
Non voglio andarci, non voglio, non ne posso più di rifiuti, non ne posso più, non ne posso più di nulla. Morire, subito, oggi stesso, sì, da qualche parte, anche qui, in stazione, sotto un treno, perché no? È il modo più sicuro… per non soffrire… per morire sul colpo…
“… allora, dove deve andare?”
“…Eh?”
“Si è messo in coda, vorrà un biglietto, no?”
“Oh, mi scusi. Brignole, andata e ritorno.” …
“…Ecco a lei.”
“Grazie.”
…Tutto pieno, ovviamente… gente in piedi, andiamo avanti, verso il fondo… ah ecco un posto… mmf… mi sento già stanco… Ho quarant’anni, quaranta… quasi. E ancora senz’arte né parte. Però finire sotto il treno mi fa paura. Andare a schiantarmi da qualche parte in auto, magari? Ma pure così non è sicuro. A meno di trovare un burrone su cui saltare…
…Ma perché il treno non parte? … Ascolto i discorsi intorno a me… Tutto bloccato… Un suicida, un uomo si sarebbe suicidato gettandosi sotto un treno… possibile? Possibile? Mi sento male, mi sento mancare, forse dovrei scendere… Ma se non vado al colloquio mia madre non me la perdona… E intanto questi commenti… Li ascolto parlare, un po’ tutti, li vedo e li ascolto e non mi piace nulla di quel che vedo e sento, nulla. La ragazza giovane, bella, si agita nervosa, si alza, guarda fuori dal finestrino, si risiede, lei pensa ai suoi impegni in bilico e l’altra le risponde, così indifferente, così indifferente. …e quelle altre due… le due streghe parlano del poveraccio suicidatosi come se nulla fosse e anche di altre tragedie… ci ironizzano sopra… e quell’altro poi… guarda lì come legge placido il giornale… farà caso ai morti nel mondo con il medesimo interesse di questo qua, immagino… No, no, non mi piace nulla di quel che vedo e sento, proprio nulla…
Lara cominciava ad agitarsi. Si alzava, sbirciava fuori dal finestrino, si risedeva, si guardava intorno e perciò già una volta l’amica l’aveva invitata a calmarsi. Gli altri viaggiatori in apparenza se stavano tranquilli, eppure sentiva di non essere la sola in agitazione. E poi nei treni a due piani si sta troppo strizzati, lei udiva tutto quanto le due vicine dicessero e, insomma, non riusciva a concentrarsi. Alla fine decise di rinunciare per un poco al ripasso e stette ad ascoltare.
“Il mondo è diventato proprio invivibile, omicidi, rapine, attentati, suicidi.”
“Che tristezza… e chissà poi perché quel poveretto si sarà ucciso?”
“Gli sarà capitato qualcosa di spiacevole e al giorno d’oggi si fa presto a farsi prendere dallo scoramento, pensa che tre anni fa il nipote della mia collega di matematica Trudy Gonzaga, la conosci vero?”
“Non è la moglie di quel tizio che l’anno scorso è stato colpito da ictus allo spettacolo di lirica?”
“Proprio lei. Una scena incredibile, e nel bel mezzo di un acuto del tenore.”
“Mi hanno raccontato, sì. Roba da matti, all’inizio i vicini di posto credevano stesse esprimendo in maniera troppo plateale la propria insoddisfazione per lo spettacolo, poi hanno capito.”
“Bene, suo nipote, pensa, tre anni fa ha tentato di uccidersi con dell’insetticida contro gli scarafaggi e le formiche perché…”
“Con un insetticida hai detto? O questa è bella, non la sapevo, trattarsi da scarafaggio, che orrore.”
“Vero? Anche ‘sto tale però, che modo di morire!”
“Triste, sì, ma pensa che un cugino della moglie del dottor Canesi si è ammazzato provocando apposta un corto circuito. Ha infilato un cacciavite nella presa ed è rimasto fulminato all’istante.”
“Io invece ho letto di un uomo davvero matto. Tu non ci crederai, ma è riuscito a uccidersi…”
In quel momento a Lara squillò il telefonino e smise di ascoltare, mentre lo scovava affannosamente dalla borsa e rispondeva.
“Sì, ciao… no guarda, siamo in ritardo di brutto, ho paura che non riusciamo a incontrarci al bar prima dell’appello… sì pare che un tizio si è gettato sotto il treno… proprio… se non si decidono finisce che ci perdiamo l’esame… va bene… ciao.”
Stette immobile qualche istante poi sbuffò, sempre più impaziente. Non gliela faceva proprio più. Ci muoviamo sì o no? Si guardò intorno. Le due donne ciattellavano serene come se il ritardo fosse causato da una faccenda insignificante, un altro tizio dall’altra parte leggeva placidamente il giornale, mentre l’unico interesse del tipo incravattato e in spezzato firmato Armani lì di fronte sembrava guardarla. Non le toglieva gli occhi di dosso, insopportabile. Quanto a Miriam, da quando si erano sedute non aveva più né aperto bocca né interrotto il ripasso. Era completamente immersa nello studio. Solo lei c’era rimasta male alla notizia di quel poveretto, allora? Lara cercò di dare una sbirciata per vedere quale capitolo l’amica stesse ripassando. E ancora lo sguardo dell’uomo puntato su di lei. Oh ma basta!
“Mi sa che qui non si parte mica.” Sbottò infine, parecchio ad alta voce, non osando lanciare rimproveri diretti a Giacca Armani. Fu udita da mezza carrozza.
“È una bella rottura. Ma quel coglione doveva gettarsi sotto il treno proprio oggi? Io tra poco devo essere in tribunale.” Commentò Giacca Armani, cioè l’ingegner Canevari, a cui non pareva vero di avere un’occasione per scambiare due parole qualsiasi con quella bella ragazza.
Lei lo guardò irritata ma anche pensando con soddisfazione come per lo meno pure gli altri passeggeri di dimostrassero stufi marci. Lo vide allentarsi il colletto della cravatta. Come facessero gli uomini a sopportare giacca e cravatta in piena estate per Lara era un mistero insondabile.
“C’è caldo, vero? Non ha scopo tenerci fermi qui a sudare.”
“Colpa della burocrazia, ragazza mia. Tu sei giovane. Sei una studentessa universitaria, vero? Ancora non conosci il mondo. La burocrazia è la piaga del paese. In fondo bastava che qualcuno ordinasse di togliere di mezzo il corpo e facesse ripartire i treni e invece restiamo tutti bloccati.”
“Un giorno vengono giù le linee elettriche, un altro scioperano e quando tutto sembra a posto piuttosto vengono perfino ad ammazzarsi sui binari. E per colpa di questo stronzo anche stasera dovrò trattenermi in ufficio oltre l’orario consueto.” Esclamò all’improvviso il pendolare grasso e basso prossimo alla pensione, trascurando per un momento il foglio che compilava.
Il medico legale ha terminato il suo compito e il funzionario di polizia se ne sta in disparte a osservare i miseri resti. Alle sue spalle il capostazione impreca infuriato e chiede di continuo a gran voce di spostare il cadavere un po’ più in là, in modo da far ripartire i treni, altrimenti manderanno in tilt l’intera linea.
Certo ha un bel pelo sullo stomaco quell’uomo. Nonostante la spaventosa vista del cadavere maciullato non ha battuto ciglio. Il poliziotto ne è rimasto sorpreso, perché neppure gli addetti ai lavori saprebbero affrontare un simile spettacolo con una così assoluta indifferenza.
Sta per un poco ad ascoltare i ricorrenti sproloqui del capostazione:
“I ritardi si riverberano all’intera giornata e dio sa se i viaggiatori non ci odiano già così.” “E’ uno scandalo che per uno stupido suicidio si perda tutto questo tempo.” Eccetera, eccetera.
E guardarlo male o rimproverarlo è inutile, quell’uomo pare impermeabile a ogni genere di disapprovazione. All’ennesima lamentela del ferroviere il poliziotto finalmente si decide. Dopo tutto gli pare un caso lampante di suicidio e non vale la pena di perderci il sonno.
“Ok, qualcuno ricopra il corpo con un lenzuolo e poi lo sposti da lì, grazie.”
Intanto un nero era andato a sporgersi dalla porta d’accesso e passando davanti al tizio grasso e baffuto, intuendo che parlava del ritardo domandò cosa succedeva.
“Un uomo si è gettato sotto un treno.”
Il ragazzo senegalese, si trattava di Bé, lo guardò con tanto d’occhi e borbottò qualcosa d’incomprensibile mentre, chissà perché, il ricordo dei pavoni emergeva dalla sua memoria.
“Già, si è gettato, che sarà mai. Perché fai quella faccia, non si suicida nessuno dalle tue parti? È terribile, certo, ma ogni giorno ce n’è una.” Ribadì allora l’obeso.
Lara lo fissò disgustata. L’indifferenza dell’uomo era sgradevole, per non parlare poi dell’altro tipo, che oltre a fissarla con pervicacia ora le sorrideva pure in maniera ammiccante. Ma forse si viveva meglio occupandosi solo di se stessi e lei dopotutto aveva gli studi a cui pensare. Sospirò profondamente, decisa a non farsi condizionare dall’evento del mattino: le tragedie, come ogni altro evento spiacevole, se le ignori e non si vedono è come se non fossero mai accadute.
Quanto poi all’affermazione del signore, in effetti viaggiare sulla linea Genova Ventimiglia era diventato impossibile. Tutti i momenti ce n’era una. Certo, stavolta si trattava di un caso particolare, però secondo suo fratello, di quindici anni più anziano di lei, ai tempi in cui lui frequentava l’università le ferrovie funzionavano molto meglio e i treni erano sempre accettabilmente puntuali. Più si va avanti e più si peggiora, incredibile.
In quel momento l’attenzione di Lara fu attratta da un uomo seduto dall’altro lato del corridoietto, perché fissava i passeggeri con un’aria così sconvolta e allucinata da metterla a disagio. Lo guardò incuriosita, spalancando i suoi splendidi occhi grigio celesti. Questi pareva la tristezza fatta persona ed era soprappeso, spettinato e con la calvizie incipiente, due occhiaie profonde e la barba di almeno tre giorni. Portava vestiti che parevano scelti a caso: una giacca a doppio petto blu economica e una camicia bianca, una cravatta a rigoni verdi e gialli, pacchiana e piuttosto stonata, blu jeans sdruciti e un paio di mocassini che avevano conosciuto tempi migliori, da uno dei quali si vedeva spuntare, grazie alla gamba destra accavallata, uno stinto calzino amaranto, in origine macchiettato di verde, ma dal filo che formava i pois ormai sfilacciato. Costui non aveva cura di se stesso e doveva soffrire, lo si sentiva, ma non era affar suo.
Lara fece mentalmente spallucce e tornò alle sue preoccupazioni. Si rivolse dunque all’amica, la quale non aveva ancora distolto la concentrazione dal libro di testo.
“Finisce che ci perdiamo sul serio l’appello, Miriam.”
“Chissà, forse è meglio così, non so nulla.”
“Ma non dire sciocchezze, che ormai ne saprai più del professore.”
“Non è vero, non mi ricordo più niente, ho una fifa nera, accidenti. Forse è una fortuna che quello sfigato si è gettato, così ho una scusa per rinviare l’esame e studiare un altro po’.”
Udendo Miriam, il tipo intento a leggere il giornale interruppe la lettura, la fissò per un momento e infine sentenziò:
“Se uno non ha proprio niente di meglio da fare che uccidersi, potrebbe almeno ammazzarsi in casa propria dove non disturba nessuno, qui io ci perdo la giornata.”
“Per arrivare a tanto doveva soffrire molto, forse aveva una malattia incurabile.” Lara si sforzava di immedesimarsi in quel poveraccio, ma arrivare a togliersi la vita le pareva inconcepibile.
“Cazzi suoi, chi se ne frega, diavolo. Per colpa sua io oggi farò tardi al lavoro, si rende conto?”
“A me invece mi hanno incastrato a seguire un processo come giudice popolare. Mi aspetteranno per iniziare? E se arrivo in ritardo in tribunale sarò giustificato? Accidenti, se non partecipo alla seduta forse non sono giustificato neppure nel mio studio. Non ne ho proprio idea. Che casino. Quasi quasi forse faccio meglio a scendere e prendere l’auto.”
“E se andassimo in auto anche noi?” Suggerì Lara all’amica.
“Prima che arriviamo a casa, recuperiamo le chiavi e l’auto e partiamo è capace che passa mezz’ora e poi in autostrada a quest’ora intorno a Genova c’è traffico. L’appello ce lo perdiamo lo stesso.”
“Potrei darvi uno strappo io, ragazze.”
“Non occorre, grazie.” Rispose Lara, brusca. Senza il rischio di restare in piedi si sarebbe allontanata. Quell’uomo avrà avuto 20-25 anni più di lei, ma che voleva! Cominciava a odiarlo.
All’improvviso si udirono rumori e voci concitate alle loro spalle. Tutti allora si voltarono a guardare. Il giovane africano stava dando in smanie sul fondo della carrozza.
“Cosa gli piglia a quel benedetto ragazzo? Si chiese ad alta voce l’ingegnere.
“Perché ‘sti negri e arabi di merda non se ne stanno sui loro alberi a mangiar banane, invece di venire da noi a piantar grane?” Sbottò invece il lettore di giornale. Si trattava di Marongiu, l’impiegato: era un razzista convinto e non perdeva mai occasione di dimostrarlo.
A quelle parole l’ingegnere, Lara e Miriam si agitarono scandalizzati. Nei sedili dietro a loro pure Virginia, l’insegnante in tailleur crema incontrata presso i taxi dalle due vicine di casa, guardò male Marongiu senza però interloquire. Altrettanto fece un passeggero con occhiali fotocromatici, capelli assai lunghi trattenuti da un fermacapelli blu e una t-shirt blu con su stampati tanti Titti inseguiti da un Silvestro, che da quel momento sospese la lettura del suo giornale con aria stizzita.
“Certo il mondo è cambiato, siamo invasi dagli extracomunitari, la gente prende e si getta sotto un treno, un tempo era tutto diverso.” Fu invece la perla offerta da Maria Pia D’Aliesio.
“Il suicidio è peccato mortale e quell’uomo finirà di sicuro all’inferno.” Sentenziò Anna Cerone.
“Oh meno male, guardate, stiamo partendo.”
“Era l’ora. Se arrivo tardi in tribunale querelo le ferrovie, parola mia. Scioperi, disservizi, sporcizia, bisognerebbe licenziare tutti i ferrovieri e sostituirli con qualcuno che voglia lavorare sul serio.”
“E magari vendere alle ferrovie tedesche. In effetti scommetto che con i crucchi i treni diventerebbero efficienti, almeno finché lo stato non ci mette becco.” Aggiunse il capellone.
“Ehi, chissà se riusciamo a vedere il morto.” Esclamò a quel punto un ragazzino lì accanto.
“Dai, guardiamo.” Rise l’amico.
I due, l’uno piccino di statura, con il codino, italiano ma pallido di colorito e biondissimo, perfino più della maggior parte degli stessi scandinavi e l’altro snello pure lui ma assai più alto, bruno e con una piega corta fresca di barbiere, si affacciarono al finestrino.
Erano i quindicenni urtati in stazione da Isaia Mollo. Con le scuole finite da un pezzo quel giorno avevano optato per una gita a Genova, a zonzo in mattinata e all’acquario nel pomeriggio, dove speravano di riuscire a entrare senza pagare. Ai due si era unito un coetaneo abbronzato e atletico, giunto in stazione più per tempo rispetto a loro e poi costretto ad attenderli a lungo.
Questi pure si volse a guardare da una parte e dall’altra nel tentativo di individuare la salma.
“Ehi, eccolo!” Esclamò infine, alzandosi di scatto.
“Guarda che figata, il cadavere è senza testa.”
“Con quel lenzuolo non si capiva mica.”
“Era senza testa ti dico, ne sono sicurissimo.”
“Non fate così ragazzi, un uomo soffriva ed è morto per questo, non dovreste riderci sopra, non sta bene. Non è giusto restare indifferenti di fronte ai dolori altrui, almeno voi, che siete ancora così giovani.” Intervenne la signora Virginia, seduta di fianco ai ragazzi.
Sinceramente dispiaciuta per quanto accaduto quella mattina, aveva in parte ascoltato il surreale chiacchiericcio sviluppatosi alle sue spalle e ne era rimasta scioccata. Soprattutto era scossa dall’insensibilità mostrata dall’ex collega, perché non la immaginava tanto vuota.
Il biondino la guardò con aria canzonatoria ma un poco anche incerta e poi fece spallucce senza dir nulla. Poi lui, il bruno e il ragazzo atletico tornarono a sedersi e ripresero a commentare tra loro più a bassa voce l’eccitante novità, finendo però presto per annoiarsene e cambiare argomento. Intanto Marongiu, così come gli altri passeggeri solitari, si disinteressava ormai alla conversazione ed era tornato alla lettura del suo giornale, mentre le persone venute in compagnia si limitavano a dialogare tra di loro. Ben presto il volume del chiacchiericcio si attenuò fino a essere sovrastato dal frastuono prodotto dal treno in movimento. Il regionale trascinava con sé tutti i passeggeri.
Miriam rimase assorta a guardare attraverso il finestrino finché non entrarono in una galleria.
“Ha tre quarti d’ora di ritardo. Forse siamo ancora in tempo per l’appello.” Esclamò poi.
“Speriamo.”
“Sarà meglio riprendere a ripassare.”
“Senti Miriam, ci sono un paio di cose che non ho ben capito e vorrei chiederti…”
…Più tardi Marongiu si affacciò al finestrino, scorse chi attendeva e prese a sbracciarsi.
Un minuto dopo l’amico lo raggiunse.
“Come mai questo ritardo?”
“Niente di serio, uno sfigato si è buttato sotto il treno.”
“Ah, meno male, mi preoccupavo. Se cominciano problemi sistematici pure all’andata siamo fritti. Proprio ora poi che da un paio di settimane si viaggia abbastanza in orario.”
“Non c’è comunque da fidarsi. Stasera comincia un altro sciopero di ventiquattrore, hai sentito?”
“No, mi era sfuggito, cazzo. Bastardi, morissero tutti…”
Ah no, adesso basta. Da un pezzo ascolto trasecolato i discorsi dei passeggeri in viaggio insieme a me. Morissero tutti e niente di serio, uno sfigato si è buttato sotto il treno?! Niente di serio?! Un essere umano è morto, morto! Lo capiscono o no? Un’esistenza intera, gioie e dolori, legami, amicizie, successi e delusioni, è tutto cancellato per sempre e non gliene importa niente a nessuno. Per tutti è solo un fastidio, una scocciatura o addirittura un motivo di divertimento, come per quei tre ragazzini.
Terribile. Mi verrebbe da urlare, urlare, insultare tutti, ma me ne vergogno.
E poi capisco che forse sarebbe così pure per me, se solo fossi in pace con me stesso. In un altro momento avrei partecipato ai loro discorsi con la medesima indifferenza. Credo sia inevitabile. È la psiche umana. Se non proprio giusto almeno inevitabile, davvero: siamo tutti troppo presi da noi stessi, troppo egoisti, è una forma d’autodifesa. Lo sono anch’io, sì, io che mi crogiolo da mesi nel mio dolore, io che so pensare solo a quanto sono sfortunato, a quanto il mondo sia contro di me ed esclusivamente contro di me…
Egoismo, puro egoismo. Ognuno pensa solo ai fatti suoi, ecco la verità. Uomini, davvero noi siamo uomini? Appartenenti alla specie Homo sapiens? Tutto questo vuol dire essere uomini?…
…Avrei voluto parlare con quello sconosciuto, sapere, capire… aiutarlo, magari, dirgli che esiste sempre un rimedio a tutto, finché si è al mondo…
… E vorrei cambiare. In fondo per capirsi basterebbe conoscersi, ma io sto troppo chiuso in me stesso. Sabato scorso… solo ora me ne rendo conto… sabato Valentina era preoccupata per me! Gliela si leggeva in faccia la preoccupazione.
“Sei sempre giù, qualcosa non va? Perché non vieni a casa mia una di queste sere a parlarmene?”
Io non l’ho neppure ascoltata. Ero troppo preso a compatirmi, troppo avanti lungo la mia china discendente per ascoltare qualcuno. Ma stasera la chiamo, ho bisogno di parlare liberamente con chi mi può capire. Ho bisogno di ricevere due coccole, metaforiche magari, ma pur sempre coccole…
…Tutto ciò mi sta facendo uno strano effetto… sì, non sono più così sicuro di voler morire…
…Vivere, conta solo vivere, il più a lungo possibile. Ora lo so. Tirare avanti e pazientare. Se c’è tempo, tempo a sufficienza, tutto passa. Non sarà questo mondo di merda ad averla vinta!
Ogni problema si risolverà… o forse no… ma mi adatterò, mi abituerò, e sarò ancora vivo. Stasera dopo cena potrò di nuovo sedermi sul balcone di casa mia e guardare il volo felice delle rondini. Può sembrare stupido, ma mi piace guardare le rondini, le contemplerei per ore…
…E niente più donne tra i piedi. In fondo da solo sono sempre stato bene, quando ci credevo, quando non me ne crucciavo a priori. Invece ogni volta che mi son messo con una donna me né son pentito e la vita mi è diventata un inferno… Niente più pretese, allora e poi quel che sarà, sarà…
Invece l’anno prossimo voglio andarmene da qualche parte con gli amici. Sono tanti anni che non faccio una vacanza. Conoscere gente nuova, paesi nuovi. Mi piacerebbe andare in Scandinavia… pure la Spagna deve essere bellissima. Siviglia, Madrid, Toledo… o magari… in Messico … o in Russia … in mille posti, mille. Risparmierò per potermici recare. Dovrà pur andarmi bene, prima o poi. Anche in teatro. In fondo forse non è impossibile ricominciare. Potrei parlarne con Giorgio, tanto ci vediamo spesso. Provare a organizzare un corso insieme a lui… comunque non arrendermi… Organizzare un corso, sì, forze nuove ed entusiaste, strano, non ci avevo mai pensato.
Soprattutto non voglio morire, non più. Voglio poter vedere il mondo di domani e non voglio far soffrire chi mi vuole bene, come Valentina, come Giorgio o come mio padre… E poi non sopporto il pensiero dell’indifferenza generale, il disinteresse della gente. Essere il soggetto dell’ironia altrui. Solo essere vivi conta, fare, pensare, ammirare le rondini, anche solo respirare, accidenti, ora lo capisco. Quando sei morto non sei più nulla, solo polvere. Gli altri vanno avanti e presto tu sei dimenticato. Mi vengono in mente un paio di persone che conoscevo. Sono decedute da pochi anni eppure non le ricordo nemmeno più, come se la loro scomparsa fosse lontanissima, cancellata, perduta nei meandri dello spazio tempo. Prima o poi sarà inevitabile per tutti, ma perché affrettare i tempi? Io non voglio essere cancellato, trovo il solo pensiero insopportabile.
Quella conoscente di mia madre, la signora Profeta. Figurarsela mentre incontra ‘ste due streghe:
“Conoscete la signora Mollo? Pensate che suo figlio…” Due finti compatimenti per poi finire nel dimenticatoio e via con un altro vacuo discorso. No, no, per carità.
E poi un credente può sempre sperare nell’aldilà, nel trovare dopo la morte quanto gli è mancato sulla terra, ma io no. Io non credo in Dio, io sono ateo. Per me conta solo restare vivi. Abbiamo solo questa esistenza e dobbiamo tenercela stretta, perché dopo non c’è nulla, c’è il nulla.
…Sì, continuerò a vivere, nonostante tutto, ho deciso… E qualcosa di buono prima o poi dovrà accadere… dovrà, ne sono sicuro.
Era già metà pomeriggio quando Isaia Mollo risalì in treno, dopo aver trovato anche il tempo di mangiarsi un panino in un bar e poi fare quattro passi in centro, che tanto non aveva alcuna fretta. Dubitava circa la riuscita del colloquio, ma non gliene importava. Era anzi meglio così, non sarebbe stato il lavoro giusto per lui, lo sentiva. Qualcosa di preferibile sarebbe saltato fuori, prima o poi. Si sentiva più sereno e rilassato, con quell’appuntamento ormai alle spalle e dimenticato. E sua madre dicesse pure ciò che voleva, tanto a lui non importava più. Invece appena tornato a casa avrebbe chiamato la sua amica Valentina e le avrebbe chiesto se poteva andare a trovarla. Aveva tanto da confidarle, tanto da sfogarsi. E poi avrebbe contatto pure Giorgio.
Percorrendo le carrozze vide le due streghe dell’andata entrare in uno scompartimento trascinandosi una montagna di pacchetti. Nello scomparto successivo riconobbe pure l’uomo elegante diretto in tribunale. Gli rivolse una rapida occhiata. Pareva perfino più irritato di quanto già non fosse stato la mattina presto, qualcosa di certo gli doveva essere andato storto. Isaia tirò dritto, deciso a tenersi il più possibile lontano da quelle spiacevoli persone.
Si accomodò due carrozze più avanti. Poco dopo gli sedettero casualmente a fianco le studentesse dell’andata. Chiacchieravano allegre, felici dell’esame superato con successo. Avevano un’aria vitale e gli venne da salutarle come se le conoscesse. Entrambe risposero educatamente al saluto.
Lara all’andata era rimasta colpita da quell’uomo e lo riconobbe. Lo trovò però diverso, più sereno. Pareva ringiovanito di diversi anni. Le poche ore trascorse lo avevano trasfigurato. Lara d’istinto gli sorrise amichevolmente, prima di riprendere la conversazione con l’amica
26/6/07 Fine. Massimo Bianco.