Qualcosa sulla quinta Operetta: “Dialogo di un folletto e di uno gnomo”
Folletto – Oh sei tu qua, figliuolo di Sabazio? Dove si va?
Comincia così la quinta Operetta. Con questa domanda un po’ fàtica che dà il via allo scambio di battute tra due ( l’altro è lo gnomo ) che si sentono così a casa nel proprio habitat da credersene i padroni.
Operetta breve, particolarmente riuscita con quel suo sguardo su temi sostanziali che ci accenna e insieme ci stimola ad approfondire, accompagnata ad un sentimento di rimbrotto rassegnato e tutto sommato clemente verso quei monelli che gli uomini sono e sono stati.
Questo nonostante il primo epiteto ad essi rivolto sia di furfanti, giustificato dal contesto di una frase in cui si scopre che tra le divinità c’è n’è una che li sospetta di qualche strana macchinazione.
Infatti, in continuità con il Dialogo di Ercole e d’Atlante, anche qui vi è una divinità, Sabazio, il quale, preoccupato dalla strana calma che pare regnare nelle viscere della terra dove gli uomini erano soliti calarsi ad arraffare oro e argento per farne monete utili ai loro commerci, e volendo capire se casomai non gli stiano approntando un qualche tiro mancino, ha mandato in sopralluogo uno dei suoi figli, uno gnomo, a controllare se sopra la crosta di uomini ve ne siano ancora e, nel caso, che cosa stiano combinando.
Il folletto che per natura sfarfalleggia di continuo nell’aria, lo sa. E glielo dice: son tutti morti.
E’ da lì, da questo punto, che il testo può cominciare a ragionare seguendo l’esperimento mentale con cui Leopardi si avventura per considerare cosa sarebbe il mondo senza l’uomo.
E sempre da lì inizia la demolizione che in pochi botta-e-risposta farebbe cadere di mano lo scettro alla razza umana se di essa non si fossero per sempre già perse le tracce.
Tuttavia, se per assurdo il genere umano potesse valutare la propria scomparsa, constaterebbe, suo malgrado, che il sole continua a sorgere e tramontare anche se non serve a dare agli uomini luce e calore; le stelle a brillare anche se nessuno si metterà a congiungerle per farne figure immaginarie; il vento a soffiare anche se non gonfierà le vele dei naviganti:
Mancati gli uomini – gli dice il folletto – la fortuna si ha cavato la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani; […] e tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a uovo.
Non solo; lo costringe anche a prender atto di come quelli che sarebbero stati mesi non avranno più i giorni, e quelli che sarebbero stati i giorni della settimana non avranno più nome.
E cose consimili.
Sebbene poi lo rassicuri: se non si potrà più sapere a quanti siamo del mese perché non si stamperanno più lunari, la luna non fallirà la strada; e se non si potrà più indicare i giorni della settimana per nome, quelli, anche senza essere chiamati, verranno lo stesso.
E cose consimili.
Finalmente, alla domanda ormai rassegnata su che fine abbiano fatto gli umani, lo gnomo ottiene per risposta una nutrita galleria di cause in bilico fra Masoch e De Sade:
Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male.
Gli uomini dunque avrebbero dovuto rinunciare a pensare che il mondo era stato fatto per loro, afferma lo gnomo.
Al che Leopardi ci regala un colpo di scena illuminante, ritagliato a pennello per certificare quanto lo specismo ( fuor di metafora l’antropocentrismo, il razzismo e l’egocentrismo ) anche se compreso e smascherato, sia una costante potentissima e forse insopprimibile.
Lo fa delegando proprio il folletto che tra i due s’era mostrato il più smaliziato, ad uscirsene dopo aver ascoltato la seguente deduzione dell’interlocutore, con queste parole:
le cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove [ quando ] essi [ gli uomini ] credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli
che paiono sagge fino a che ad esse il folletto non aggiunge queste altre:
E non volevano intendere che egli [ il mondo ] è fatto e mantenuto per li folletti.[ !! ]
Subito, come prevedibile, ribaltata dallo gnomo in favore degli gnomi.
In inevitabile situazione di stallo, il folletto abbandona saggiamente la contesa destinata a non veder la fine, per poter affermare finalmente vestendo gli abiti del filosofo, di tener per fermo
che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie.
Aggiungendo:
di tratto in tratto, per via de’ loro cannocchiali, [ gli uomini ] si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per migliaia e migliaia d’anni, non avevano mai saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie: perché s’immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende.
Lo gnomo raccoglie concorda e completa; talché si potrebbe dire che il dialogo nelle poche battute che restano raggiunge la sintonia di un monologo alternato e condiviso:
Gnomo – Sicché, in tempo di estate, quando vedevano cadere di quelle fiammoline che certe notti vengono giù per l’aria, avranno detto che qualche spirito andava smoccolando le stelle per servizio degli uomini.
Folletto – Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla…
Gnomo – E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.
Folletto – E il sole non s’ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte
di Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo.