Paradossi dell’onnipotenza

La questione scandalosa di un Dio onnipotente che, proprio a causa della sua onnipotenza, non poteva essere buono o completamente buono, è una questione antica e irrisolta.

Risale come minimo al mazdeismo, quindi a più di cinque secoli avanti Cristo. Si potrebbe quasi dire che è, dal punto di vista teologico, la questione delle questioni. Ma perché non si è mai trovato veramente il modo di conciliare le due cose?

Il motivo è abbastanza semplice: presenta delle aporie, dei nodi, che nessuno è mai riuscito a sciogliere; e se qualcuno ha ritenuto che non ci fossero, è perché non è riuscito a vederli. Eccone alcuni.

Può un Dio che sia completamente buono e onnipotente

–   Non mantenere un patto?
–   Far sì che un episodio accaduto nel passato non sia accaduto?
–   Creare un altro Dio più potente di lui?
–   Volere (o permettere) il male?
–   Non essere d’accordo con se stesso?
–   Suicidarsi?
–   Negare l’infallibilità del papa quando parla “ex cathedra?

Altri se ne potrebbero aggiungere, ma questi sono più che sufficienti (anzi, a rigor di logica ne basterebbe solo uno) per mettere in crisi o comunque problematizzare la dottrina fondamentale del Credo di Nicea e quella didattica, comunemente chiamata “Catechismo”, e che per esteso è il “Catechismo della Chiesa Cattolica”.

Esso (prendiamo per riferimento l’ultima versione, ovvero il Catechismo del 1992 di papa Giovanni Paolo II), recita al paragrafo 202: “Crediamo fermamente e confessiamo apertamente che uno solo è il vero Dio, eterno e immenso, onnipotente, immutabile”, dove il “crediamo”  e “confessiamo” suonano più come constatazioni-ingiunzioni, che come esortazioni, per cui vengono surrettiziamente anteposte alla dimostrazione, sottintendendo che di dimostrazione-spiegazione non ce n’è bisogno.

Succede però che con l’indicazione di onnipotenza, come si vede, contestualmente ci si imbatte nell’indicazione di immutabilità. Quest’ultima aiuta a capire l’evidenza incontrovertibile dell’onnipotenza di Dio? Se si guarda a certi passi presenti nella Bibbia, no. Anzi! Si potrebbe dire che solleva altre questioni che si mostrano irrisolte, e in una reazione a catena, legittimano a catalogare il Catechismo sotto il genere letterario del prontuario. Non dimentichiamo, per esercitare un po’ di prudenza, che il quinto postulato di Euclide, che pareva l’insuperabile quint’essenza della certezza e quindi non passibile di dimostrazione, è stato negato dalla geometria sferica…

Se consideriamo, per esempio, il versetto di Giona 3, 10: “Dio vide ciò che facevano, vide che [i niniviti] si convertivano dalla loro malvagità, e si pentì del male che aveva minacciato di far loro; e non lo fece”, notiamo subito che il verbo “pentirsi” stona con l’idea di Dio, il quale se è onnipotente è giocoforza pure onnisciente, nel senso che conosce tutto, anche ciò che accadrà. E allora per quale motivo fare qualcosa che sa poi si pentirà di aver fatto?

E’ vero che c’è chi sostiene come la più fedele traduzione dall’ebraico non sia “si pentì”, ma “si rammaricò”, postillando con una certa forzatura che ci si può rammaricare di qualcosa senza tuttavia pentirsene.

Ma ciò, se mai “salvasse” la coerenza di Dio, non salverebbe la sua immutabilità. Infatti nel momento in cui Dio comincia a rammaricarsi (nella fattispecie, per il male che aveva minacciato di procurare agli abitanti di Ninive) smette di… non essere rammaricato.

Chiaro che il discorso è così complesso, pur partendo da affermazioni apparentemente evidenti da sembrare postulati, che chiunque credesse sia facile scioglierne i nodi dopo che vi si sono cimentati, tra gli altri,  Abelardo, Duns Scoto,Tommaso d’Acquino, Bruno, Spinoza, sino ad arrivare a Bonhoeffer e poi, ai giorni nostri, Severino, Quinzio, Jonas… sarebbe ridicolo.

Ma qualcosa di lecito e finalmente certo c’è: trattandosi di una problematica aperta sarebbe, ricorrendo a La Palice, un fatto di onestà intellettuale non darla per chiusa; soprattutto se i destinatari del discorso sono bambini in età di Comunione. Si tratta semplicemente di prendere atto che di aporie ce ne sono, e parecchie, e di non ometterle magari nella speranza che accada quello che di solito accade: che il bambino diventato adulto non abbia tempo, voglia o modo di rivedere ciò che gli era stato presentato in guisa di risposta pronta all’uso come, appunto, fanno i prontuari. Tenere conto di ciò è il necessario discrimine da tracciare fra dottrina e indottrinamento.

Fulvio Baldoino

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