Orti Folconi

La zona  degli Orti Folconi sono, da tempo, oggetto di chiacchiere più o meno produttive.
E se gli Orti restassero orti?

La zona  degli Orti Folconi sono, da tempo, oggetto di chiacchiere più o meno produttive.
E se gli Orti restassero orti?

Ogni tanto le mie passeggiate urbane e suburbane, compiute per necessità e incombenze varie, mi danno spunti interessanti. Le suggerirei, anzi, delle belle passeggiate, guardandosi intorno, a personaggi del mondo politico ed economico savonese che volessero mantenere la mente aperta, e riflettere serenamente. Più utili di tanti dibattiti e scartoffie.

Ma è pura utopia: quando li vedo in giro a piedi in centro, hanno la testa bassa, il passo affrettato, la ventiquattrore sventolante, l’immancabile telefonino incollato al padiglione auricolare. Neanche si accorgono del mondo circostante, tutti presi dai loro affari, la loro unica realtà. E forse questo spiega molte cose.

Mi trovavo dunque all’elettoralmente inaugurato (ma abbondantemente incompleto) terminal dei bus presso la stazione, per attendere un mezzo.

Transitando presso la stazione medesima ho avuto modo di meditare sulla “riqualificazione” (parola che darebbe i brividi al più scafato dei vampiri, se non altro per la concorrenza sleale che comporta) dell’edificio ferroviario. Mesi, anni, di lavori, di transenne provvisorie, impalcature e nylon sventolante.

Del resto, è un po’ una tradizione che si perpetua: di edifici in stato precario siamo pieni, dal S. Paolo a Villa Zanelli alla piscina, e ne andiamo giustamente fieri nel mondo. Come  a suo tempo potemmo vantarci proprio di una stazione nuova inaugurata dalle autorità, ma priva di binari e incoronata di pittoresche sterpaglie. Fin sui giornali australiani, altro che.

Ora, alle solite, la ristrutturazione realizzata da apposita società ha se possibile ristretto gli spazi, foderato di vetri, riempito ogni angolino disponibile sui due piani di superflui vani per negozi, la maggior parte ovviamente vuoti. Si tende a massimizzare lo sfruttamento, il profitto, ma per ottenere che? Per andare dove? E’ giusto di altri centri commerciali che abbiamo bisogno? ( Vi ricordo, nell’ordine, come accenno fra esistenti nascenti e futuri: Ipercoop, Metalmetron, le Vele a Vado, la darsena sempre semideserta…) Uno che aspetta la coincidenza o è andato a prendere la suocera non vede l’ora di fare shopping compulsivo, secondo loro? Un altro se ne partirebbe apposta da chissà dove per fare acquisti proprio in stazione, fra il via vai di viaggiatori spintonanti e senza usufruire di parcheggio? Posso ancora capire a Milano Centrale o Roma Termini, veri e propri centri smistamento affollati. Ma Savona?

Quando in stazione ci sono edicola libreria, bar ristorante, tabacchi e souvenir, servizi vari,può decisamente bastare, no?

Mah. Box vuoti, negozi vuoti, appartamenti vuoti, siamo assediati da una ipertrofia del nuovo, sterile inutile e luccicante. Avidità e profitto di pochi, e ogni idea di vivibilità, pianificazione oculata, senso della comunità, esigenze e dignità, cancellata. Calpestata. Il nostro territorio svilito e distrutto. Altro che mercanti nel tempio.

Persino gli ex negozi ormai chiusi, un tempo rivendite ma anche ritrovi di persone, cuore del tessuto urbano di periferia,  diventano minuscole seconde case per chi cerca il mare a buon mercato.

Loculi in cui rinchiudersi da vivi. Amen.

Fantasticavo di una stazione a misura di comunità, dove uno trova, appunto, spazi comodi per l’attesa, biglietteria, (magari sempre aperta!!!), informazioni, servizi utili, e al piano inferiore, un parcheggione di interscambio a tariffa agevolata convenzionato con i titoli di viaggio. O parcheggio dipendenti, o taxi, o disabili…

Più razionale certo. Più utile certo. Ma, ahimè, meno profittevole.

Sedevo dunque attendendo il mio autobus, e così ho potuto constatare un’altra curiosità legata al riparo vagamente avveniristico del terminal. Dando le spalle alla stazione, a sinistra  vi è uno spazio protetto, una nicchia d’attesa con sedili sui tre lati. C’e’ poi un’altra fila di sedili, parallela alla tettoia e debitamente incementata. Bene, questi sono posti con l’orlo del tetto sopra esattamente a metà. Non protetti, non esterni. A metà. La condizione ideale per bagnarsi bene in caso di pioggia, specie con il vento che ci caratterizza. Mi chiedevo, pensosa e filosofica sulla natura umana, il motivo di tanta sagace progettazione. Perché ci sarà un motivo valido, sicuramente. Sono io che non capisco.

E poi lo sguardo ha iniziato a spaziare davanti a me. Ed ecco la famosa zona detta degli Orti Folconi, che si estende fino a corso Ricci. Zona oggetto da tempo, da tanto tempo, di chiacchiere più o meno produttive.


Area degli orti Folconi

Anni fa, ricordo, forse dopo qualche alluvione, ogni progetto fu bloccato perché l’area era definita a rischio esondazione dal vicino Letimbro.

Poi, dopo un bel po’, si è ripartiti. Non ci sono più i Letimbri di una volta? Problema superato?

Comunque, sfrucugliando in rete, mi pare di aver letto che è stato o sta per essere commissionato uno studio proprio per esaminare i rischi connessi. Si vede che comunque è il caso di darci un occhio.

Intanto è stato iniziato, proprio per questa zona, un interessante esperimento, propiziato da alcuni consiglieri e dalla circoscrizione interessata: una sorta di progettazione partecipata, coinvolgendo i cittadini nel dibattito.

A dir la verità, un iter degno di tale nome dovrebbe partire dalla base, da zero, per permettere alla cittadinanza di esprimere le sue vere esigenze, con l’aiuto di tecnici e consulenti qualificati. Qui si arrivava a giochi più o meno già fatti, a premesse consolidate, giusto per metterci qualche pezza e ottenere dei contentini. Ma tant’è. Non facciamo i pignoli. Meglio di niente, sarebbe pur sempre un precedente.

Così è nato il progetto, edilizia convenzionata e residenziale, appositamente mescolate per non creare ghetti,  servizi per la cittadinanza, un 20% di zone verdi.

Ay, there’s the rub. Qui sta lo scoglio, direbbe Amleto. Le parole “verde” associate a percentuali diverse da zero o assimilati, specie se non si tratta del verde finto, due millimetri di terriccio sul tetto dei box, procurano fastidiose allergie ai cementificatori.  Figurarsi se unite con altre ferali espressioni come “servizi alla cittadinanza” , ossia edifici e strutture improduttivi e costosi.

Le aree, qualsiasi area, vanno acquisite al minimo prezzo, alle condizioni più allettanti e proficue,  e sfruttate sino all’osso, sia come estensione di cemento utile sia come altezze, cercando pure di far passare i servizi necessari come oneri di urbanizzazione, e cioè, reincassando quello che si dovrebbe versare.Una percentuale di edilizia popolare convenzionata, al massimo, è tollerata, se serve per farsi belli e ammorbidire le resistenze, e purché propedeutica, lasciapassare per altre più lucrose edificazioni. Ma pretendere il verde e i servizi… suvvia! E chi siamo, Babbo Natale?

Se no, pazienza. Si aspetta. Tanto non c’è mica fretta, verranno tempi migliori e più miti consigli. Vediamo l’operazione Papessa  e quella dei Solimano, come esempi.

Si aspetta. Come avvoltoi, mi verrebbe da dire. Tattiche e manovre consuete, ciniche e spregiudicate oltre ogni dire, aperte, ma soprattutto impunite, quando il potere politico è tale solo di nome.

Così si spiega che le aste per i terreni messi in vendita dalle Opere Sociali vadano puntualmente deserte, nonostante i ribassi. “Casualmente”, gli imprenditori e le sigle proprietari di aree limitrofe si tengono stretti i loro pregiati tesori, e aspettano.

Non saprei esprimere bene a parole i sentimenti che mi provoca la grettezza di pensiero sistematicamente sfoggiata in ogni operazione cittadina, oltre ogni pudore. Oltre ogni rispetto per la cittadinanza, spesso la propria cittadinanza, le proprie radici, le terre e l’anima dei padri.

I più avidi nobili e ricconi del passato spesso sapevano essere mecenati, filantropi, benefattori a vario titolo, come per testimoniare la loro appartenenza, restituire una minima parte della loro fortuna alla comunità, ai più deboli, o anche solo regalare bellezza. Da vivi e da morti.

Questi sanno solo spremere, distruggere e inondarci di bruttezza trionfante e quasi cattiva, come il castello della strega, indifferenti al concetto stesso di comunità. Non a caso siamo nell’epoca che vuole privatizzare l’acqua. E spesso si fregiano anche di origini o appartenenze societarie che vorrebbero essere popolari. Che vergogna.

Non mi rivolgo neppure a loro, a questi speculatori, perché certo se avessero a cuore il rispetto e il plauso della comunità non agirebbero così. Certo non è il bisogno a muoverli, ma l’avidità e l’aridità d’animo. Insensibili.  Senza speranza. Spero solo che, un domani non lontano, la crisi e i cambiamenti li colpiscano in ciò che hanno di più caro, il portafoglio. Ma non mi illudo più di tanto.

Mi rivolgo agli amministratori comunali, a quella gestione delle Opere Sociali, un nome che, come dice la parola stessa, gestisce beni messi un tempo a disposizione delle fasce deboli, del bene pubblico, anche come risarcimento dei danni causati dall’utile privato, e che ora a quello stesso utile privato si stanno nuovamente travasando. Mi rivolgo ai cittadini che hanno partecipato alla progettazione, perché facciano sentire la loro opinione.

Lo dico più come riflessione e provocazione, che con la minima speranza di essere ascoltata.

Ora si parla, al solito, di degrado, il miglior alleato del ricatto devastatorio. Si lasciano a bella posta le aree incolte, i capannoni arrugginiti coperti di rampicanti, i ratti a scorrazzare, propiziati dal vicino fiume, i cittadini infuriati e isterici. Tutto perché, in un triste copione, la colata finale sia accolta con sollievo e rassegnazione. La sento proporre come inevitabile persino da tanti benintenzionati.

Ma guardando una foto aerea, pubblicata su un giornale tempo fa, era soprattutto il verde a emergere. L’altezza cambia prospettive e proporzioni.

E allora, ha senso aspettare i comodi e i ricatti degli speculatori, in cambio di poche briciole, subito inghiottite dalle spese di urbanizzazione? Non si potrebbe ripartire, requisire le aree, avere il coraggio di tentare un recupero del tutto innovativo, basato appunto su servizi a viaggiatori e passeggeri, immersi nel verde?

Immaginate, che bel biglietto da visita, per chi arriva in città col treno,  trovarsi di fronte una zona verde, ordinata, con tutte le informazioni e le comodità, interscambio di mezzi compreso, magari anche bici a noleggio che portino al centro (pedonalizzato) e a vere piste ciclabili, magari qualche chiosco di ristorazione con piatti tipici, o altre idee che possano venir fuori? Sarebbe bello persino  dare in gestione dei piccoli appezzamenti ordinati come orti, integrati con la città, l’antica destinazione dei luoghi secondo il toponimo.

Sì, va be’, lo so che in tanti, inariditi e incapaci di sognare e sperare, scrollano la testa. Tanto per  cominciare, aiuterebbe togliersi dalla testa l’idea che il verde sia improduttivo. Aiuterebbe comprendere che da questa crisi profonda non si esce continuando imperterriti con gli stessi meccanismi che l’hanno generata. Ma con coraggio, lungimiranza, fantasia, voglia di osare.

Soprattutto il coraggio di tornare a sperare.

Ma sì, lo so, sto sognando. Eppure credo fermamente che un domani non lontano dovremo cambiare rotta, acquisire nuovi parametri di sviluppo e civiltà. Se non sarà troppo tardi.

Perché comunque queste strade non ci portano da nessuna parte, e mi pare ampiamente dimostrato fuor da ogni dubbio.

  Milena Debenedetti  

Il mio ultimo romanzo  I Maghi degli Elementi

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.