NON SONO UN VIGLIACCO Un cupo, crudo e tragico RACCONTO noir di Massimo Bianco

Un cupo, crudo e tragico RACCONTO noir di Massimo Bianco
Lettura forse inadatta ai minori e ai più emozionabili
NON SONO UN VIGLIACCO

CAP. 1

 I ragazzi chiacchieravano con artificiosa spensieratezza immersi nella bella campagna toscana, lungo il viottolo parallelo alla strada provinciale lucchese, a stento distinguibili nella notte senza luna. In assenza del loro vociare adolescenziale il luogo sarebbe stato silenzioso, a parte lo sporadico rombo di qualche automobile sfrecciante da e verso la città.
In testa marciavano gli inseparabili gemelli monozigoti Giuliano e Leonardo, leader incontrastati del gruppo e gran casinisti. L’idea gli era venuta dalla visione di un vecchio film. Ben decisi a metterla in pratica, avevano sfoderato quel carisma che da sempre gli permetteva d’imporsi su chiunque, spingendolo ad accompagnarlo in qualsiasi avventura s’imbarcassero. I due, alti e robusti sedicenni dagli intensi occhi scuri e i lineamenti ben marcati, procedevano fianco a fianco, sfrontati e sicuri di sé, guardandosi intorno con la torcia elettrica puntata per individuare lungo la zigzagante arteria prescelta la curva più adatta ai loro scopi.

Alle loro spalle procedevano in ordine sparso gli altri quattro, Carlo, Fabrizio, Samuele e, ultimo della fila, Erasmo, cugino di primo grado dei gemelli, dal triste volto rotondo ricoperto di acne e i corti capelli castano chiari dritti come fili di ferro. Era il più giovane della compagnia e con quel suo fisico mingherlino e i dentoni da coniglio aveva un aspetto ancora molto infantile.
Le 23,00 erano già passate da un pezzo e la serata si prospettava ancora lunga. Sua mamma, meditava preoccupato e pentito, non sarebbe stata contenta. “Giuliano e Leonardo sono più grandi” – gli ripeteva sempre –  “non puoi seguirli dappertutto. Aspetta almeno a fine anno scolastico quando ti compreremo lo scooterino, se sarai promosso; non farti sempre scarrozzare da quei due scavezzacolli.” Invece eccolo lì ad assecondarli nel loro ennesimo azzardo.
Alla sua prima partecipazione si era accontentato di fare da spettatore, ma Loro l’avevano irriso e minacciato di non portarlo più da nessuna parte, perciò non aveva più potuto tirarsi indietro, trasformando i giorni e le ore precedenti al fatidico momento in una snervante attesa. Adesso la paura era tale da suscitargli perfino l’impressione che le fronde degli alberi, mosse dal vento, si piegassero malevoli verso di lui, tentando di scacciarlo:
“Vvrr, vvrrr, cosa fai qui, vvrrr, vattene o sarà peggio per te”.
E “Uuh, uuh, viaa dal mio regno.” Sembrava ribadire un gufo solitario.

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Giunti di lato a una svolta, Leonardo volse per un istante lo sguardo sul fratello e ordinò l’alt, in apparente autonomia. Egualmente strafottenti e autoritari, collerici e aggressivi ma al contempo pieni di charme e simpatia, i gemelli sembravano possedere entrambi una personalità dominante. Nessuno aveva ancora capito che l’autentico leader carismatico era Giuliano, mentre Leonardo ne era solo la fedele ombra, straordinariamente percettivo nel comprenderne le intenzioni al punto da anticiparne i desideri come se fossero suoi.“Ok, fico, è proprio il punto giusto. Sì, mi piace.” Confermò, infatti, di lì a poco Giuliano, evidenziando con l’intonazione di voce e con l’aspirazione della c dura l’origine toscana.Udita la decisione, i ragazzi si guardarono intorno, tanto curiosi quanto agitati. Il luogo era per tutti nuovo: cambiavano ogni volta destinazione per evitare che la voce della loro presenza si diffondesse, favorendo eventuali appostamenti della polizia.
Da entrambe le direzioni, dopo un breve rettilineo, la strada piegava in un’ampia doppia curva,  impegnativa a sufficienza da costringere le macchine a scalare di marcia e a rallentare e al contempo abbastanza scorrevole da permettere una discreta andatura. Ma la caratteristica saliente per cui Giuliano si era convinto a scegliere quel proscenio era l’impossibilità per qualsiasi automobilista di notare la presenza di ostacoli fin quasi all’ultimo, mentre gli ostacoli in questione, loro sei, avrebbero avuto a disposizione gli istanti necessari per togliersi dalla traiettoria in tempo, se fossero stati sufficientemente pronti e rapidi di riflessi. E per chi avesse dimostrato più fegato allontanandosi per ultimo, il prestigio era assicurato. Il gioco era troppo perversamente e paurosamente emozionante perché i gemelli vi rinunciassero con facilità.
I sei si distribuirono tra i due curvoni, in mezzo alla carreggiata, sdraiati a terra immobili e silenziosi sotto al cielo ingemmato di stelle, le orecchie tese ad ascoltare ogni minimo rumore e il cuore rimbombante nel petto come uno stantuffo.
Tum… tum… tum… Erasmo udiva i propri battiti cardiaci. Parevano talmente energici e accelerati da riverberarsi sull’asfalto sottostante fino a chilometri di distanza. Le pulsazioni sembravano riempire con la propria tonante potenza l’intero campo sonoro, al punto da coprire il rumore delle eventuali auto in avvicinamento. Ragionandoci sopra si rendeva conto della falsità della percezione. Per giunta capiva che avrebbe potuto con accettabile anticipo sia vedere le luci dei fari sia, forse, avvertire le vibrazioni prodotte sull’asfalto dalle auto in avvicinamento. Malgrado ciò il terrore d’essere travolto lo pervadeva in maniera quasi insostenibile.
Eppure dentro di lui era presente, a dargli forza, anche un’altra sensazione, da lui stesso riconosciuta come pazzesca. Infatti, nonostante tutto Erasmo si sentiva eccitato. Era inoltre spinto dall’amor proprio ferito perché, durante la sua unica precedente partecipazione attiva, si era lasciato prendere dal panico al punto da essere il primo ad alzarsi per catapultarsi oltre il guardrail, in largo anticipo sul sopraggiungere dell’automezzo. Così i giorni successivi aveva dovuto sopportare la derisione dei compagni e sentirsi dare della femminuccia, del fifone o, peggio, del bebè. Ma stavolta avrebbe dimostrato di non essere un bambino e di avere più sangue freddo di tutti loro messi insieme.
Tum… tum… tum. Da quanto se ne stava pietrificato senza quasi neppure osare respirare? Gli pareva trascorso un lungo periodo, forse perfino un quarto d’ora. Infine non resistette alla tentazione di distrarsi per guardare le lancette fosforescenti dell’orologio: due minuti! Erano lì da appena centoventi secondi, eppure gli era sembrata un’eternità. Dio, fa che un’auto passi al più presto, così non ci penso più. Gettò un’occhiata agli amici più prossimi. Possibile che solo lui provasse tanta paura? In pubblico il dinoccolato Carlo dava mostra di sprezzante superiorità, ma ora che si credeva non visto non aveva assunto un atteggiamento di preghiera? Oppure quanto gli era parso di scorgere era solo il riflesso delle proprie sensazioni? Di fianco a lui, sull’altro lato lo snello e riccioluto Fabrizio, con lui sempre gentile e che anche per questo trovava assai simpatico. Sapendolo titubante perché alla prima esperienza, Erasmo lo scrutò con attenzione: non stava forse tremando? O era soltanto una sua illusione? I loro sguardi s’incrociarono per un momento. Era angoscia o concentrazione quella che gli leggeva negli occhi? Non lo capiva.
All’improvviso gli parve di percepire qualcosa. Il cuore prese a correre tanto all’impazzata da fargli supporre un infarto imminente: non riusciva a capire da quale parte stesse sopraggiungendo la vettura. Rimase un attimo stranito, finché non comprese il motivo della propria confusione: le auto erano due, in avvicinamento dalle opposte direzioni e destinate forse ad incontrarsi proprio lì dove si trovava. La scoperta, unita al progressivo convergere dei fari, gli provocò un’ondata di panico, che da quell’angolo del cervello governante gli istinti si irradiò all’istante verso gambe e piedi, spingendolo ad alzarsi di scatto e a schizzare via alla cieca, ancor prima che la mente razionale realizzasse quanto il corpo stava effettivamente compiendo. E quando, poco dopo, tornò a connettere, osservando i volti identicamente ilari di Leonardo, di Giuliano e degli altri comprese di aver perso un’altra volta.
Intanto uno degli automobilisti si era fermato, arrabbiato nero e intenzionato a scambiare quattro paroline con quella manica di mentecatti che a momenti o uccideva o lo faceva ammazzare. Ma i ragazzi stavano già scappando via a rotta di collo oltre il guardrail, felici e appagati, verso il luogo dove avevano nascosto gli scooter, uno spiazzo sterrato dietro a un boschetto.
“Anche oggi sei di penitenza, marmocchio fifone.” – Esclamò, beffardo, Leonardo quando furono al sicuro. – “Sei stato tu il primo a cedere.”
“E stavolta troveremo qualcosa di speciale per te.” Aggiunse Giuliano.
“Oh sì, qualcosa di speciale per davvero.” Ribadì Leonardo.
“Ti tocca, ti tocca, cagasotto.” Sbraitò il tozzo, nasuto e caustico Samuele, al settimo cielo per aver evitato grazie a lui l’onta della sconfitta.
Come li odiava in quei momenti. Erasmo non rispose e abbassò la testa, sopportando sconfitto le ulteriori battute mordaci di Leonardo e Samuele, ben decisi ad infierire, e di nuovo giurò a se stesso che era stata la sua ultima brutta figura e che la volta prossima gliela avrebbe fatta vedere a tutti loro, chi era vigliacco.
Intanto alle sue spalle Giuliano e Carlo, il più anziano della compagnia, come dimostrava anche la presenza di uno scuro filo di barba, discutevano animatamente, sostenendo entrambi di essere sfuggiti alle auto per ultimi. La personalità prevaricante di Giuliano finì per imporsi e il perdente della tenzone strinse le mani a pugno, con un’espressione di rancore dipinta sul volto. Per un attimo parve voler saltare addosso a Giuliano e pestarlo, infine, umiliato, cedette definitivamente.
I ragazzi giunsero infine dinanzi alle mura cittadine.

I due operatori guidavano la piccola macchina compattatrice lungo il tratto conclusivo di Via Dei Bacchettoni. Era notte fonda mentre percorrevano le vie di Lucca e si sentivano stanchi e nauseati. Risiedevano in una splendida e vivibile città, caratterizzata dalla presenza di un ben conservato nucleo medioevale interamente circondato da imponenti mura cinquecentesche, e non avrebbero avuto nulla di serio di cui lamentarsi, eppure erano perennemente insoddisfatti. Seppur per motivi diversi, l’uno e altro erano pieni di acredine.
Nelson Lwanga, fuggito giovanissimo e senza prospettive da una Costa D’Avorio in preda al caos, era approdato in Toscana dopo lunghe peregrinazioni. Una volta ottenuta la cittadinanza italiana aveva optato per stabilirsi a Lucca. Faticava però a integrarsi in quella che avrebbe dovuto essere la sua nuova patria e perciò mal sopportava sia gli italiani da cui si sentiva, con eccessiva generalizzazione, disprezzato sia gli immigrati, la cui presenza gli pareva rendergli più arduo l’agognato inserimento.Bonifacio Anselmi era invece nativo di un paesino della Garfagnana. Si era trasferito nel fascinoso capoluogo provinciale otto anni prima, dopo aver compreso che il lavoro creduto transitorio si era trasformato in definitivo, nonostante la propria convinzione di meritare di meglio. Interrotto ogni rapporto con la famiglia d’origine, metteva in tutto ciò che faceva una rabbia perpetua, come se il mondo intero fosse responsabile del suo mancato successo sociale.
Di carattere introverso e non troppo dissimile nonostante le differenze di razza, religione e costumi, i due colleghi avevano finito per stringere una solida amicizia.
Il camion si fermò dinanzi all’ennesimo cassonetto stracolmo di spazzatura. Nelson Lwanga dovette scendere a raccogliere l’immondizia lasciata fuori dal bidone. Era bastato trascurare per un paio di sere la raccolta in quella strada per provocare un enorme esubero di rifiuti.
“Tu guarda che schifo. Come cazzo faranno i nostri merdosi concittadini ad accumulare tutta questa spazzatura. Dio come li odio.” Brontolò ad alta voce da bordo camion Bonifacio.
Finalmente il cassonetto fu svuotato e i due proseguirono per Via Del Fosso, strada conclusiva del quotidiano percorso notturno. Lì avevano già svuotato la sera precedente e normalmente avrebbero saltato l’intervento, tanto più che in quella zona venivano riversati meno rifiuti, ma erano in anticipo, tanto valeva risparmiarsi il lavoro dell’indomani. Mentre il collega guidava e azionava i macchinari, Nelson poté distrarsi a osservare il cosiddetto fosso, cioè l’antico fossato, ultima vestigia delle scomparse mura duecentesche, che dava il nome alla via da esso suddivisa in due carreggiate. Quel luogo lo affascinava da sempre. L’acqua vi scorreva cheta sotto il livello stradale, attraversando la città da nord a sud, trasformata in tranquillo rigagnolo. Benché non vi fosse in realtà alcuna somiglianza, lo spettacolo lo portava a ripensare al fangoso fiumiciattolo natio.
Giunsero finalmente all’ultimo cassonetto, subito prima di sbucare dinanzi al bastione di San Regolo. E c’era più disordine. Bonifacio notò lo sportello mal serrato e richiamò l’attenzione del collega. Quest’ultimo scese e andò a controllare. Una sbarra sistemata di traverso ne impediva la chiusura completa in modo sospetto. I due si scambiarono un’occhiata.
Nelson aggirò il bidone per aprirlo con la pedaliera, spostando la spazzatura sistemata fuori in maniera sorprendentemente ordinata. Aprì lo sportello e gettò uno sguardo al suo interno, dove si vedeva solo uno strato superficiale di cartoni a nascondere il fondo. Il contenitore era pieno per non più di tre quarti. Perché allora quei rifiuti all’esterno? Gli pareva strano.
Terminato il lavoro ebbe l’impressione che i cartoni ondeggiassero e rimase qualche istante soprappensiero.
“Che fai lì impalato, muoviti!” Esclamò allora Bonifacio.
L’ivoriano fece spallucce. Estrasse la sbarra per evitare danni al compattatore e richiuse con delicatezza lo sportello. Infine l’italiano avviò le operazioni meccanizzate di svuotamento.
Mentre il cassonetto veniva sollevato e rivoltato e il suo contenuto si rovesciava all’interno del camion, udirono chiaramente l’esclamazione di sorpresa, seguita da soffocate grida di disperazione.
I due si guardarono di nuovo negli occhi, poi Bonifacio sorrise trionfante.
“Centro! Finalmente.” Esclamò quindi di buon umore.
“Tu sapevi, vero? Tu eri sicuro.”
“Certo, ho pensato subito che qualcuno aveva tolto l’immondizia per dormirci dentro. Non è certo il primo barbone a trovare riparo così, per la notte.”
Dall’interno si alzavano intanto urla spaventose benché appena udibili.
“È brutta morte, fermiamo il macchinario.” Disse Nelson.
“Nemmeno per sogno. Una merda di meno tra le palle.”
Sul volto di Bonifacio era apparsa un’espressione estatica. Nelson la contemplò per qualche istante. Il suo amico era pazzo, già lo sapeva. Gli parve di sentire ancora fracasso, ma resistette alla tentazione di montare a bordo e arrestare lui stesso il meccanismo: ormai doveva essere già troppo tardi. Scrollò quindi la testa, sopprimendo le residue parvenze di rimorso.
“Solo uno deficiente dorme dentro cassonetti, doveva pur sapere che noi forse passavamo. Era proprio stupido, peggio per lui.” Sentenziò infine.
“Hai sentito gli strepiti? Peccato non aver visto lo spettacolo delle pale mentre lo facevano a pezzi.”
Nelson risalì a bordo, ridendo per il commento dell’amico.
“In questo momento le pale staranno finiscendo di stritolarlo.” Disse poi.
“Finendo, si dice; io finisco, tu finisci, ma loro stanno finendo di stritolare.”
“Ehi Bon, e se trovano i resti? Passeremo guai.”
“Perché, non è stata colpa nostra, no? Mica potevamo accorgerci, noi non abbiamo sentito niente.”
“Ma qualcuno intorno ha forse sentito, rumore, grida.”
“Figurati, nemmeno noi distinguevano bene le urla, erano soffocate e poi in inverno tengono tutti le finestre chiuse. Forza, torniamo in sede, oramai abbiamo terminato.”
“E siamo ancora un pochino in anticipo.”
“Scommetto che sfrutterai il tempo guadagnato per farti qualche puttana delle tue parti, eh Nelson? T’invidio, cazzo, niente moglie tra i piedi a piantar grane, niente figli, la vita te la godi davvero.”
“Mm, tua moglie non te la dà ancora?”
“Mi tiene il muso da una settimana, quella stronza. Uno di questi giorni la butto nel cassonetto e poi passo a raccogliere pure lei.”

CAP. 2

Come ogni venerdì i gemelli, esentati dall’ora di religione, uscirono dal liceo artistico Passaglia a mezzogiorno. Attraversarono l’antica e stretta via Fillungo, in pieno centro storico, in compagnia di Carlo e proseguirono lungo via San Giorgio e via Tassi, diretti verso casa, subito fuori le mura. Era una giornata tardo primaverile sorprendente calda, quasi a preannunciare una torrida estate, il clima ideale per realizzare il loro solito progettino serale. Tutt’intorno la gente si aggirava in bicicletta. I tre avevano invece approfittato del maggior tempo a disposizione, offerto dall’uscita anticipata fine settimanale, per recarsi a scuola a piedi, così ora lo sfruttavano per fare quattro chiacchiere. Giunti sotto casa del compagno, ancora entro le mura, davanti a un negozio di pasta fresca, s’accomiatarono:
“Allora stasera alle nove e mezza in piazza, ok Carlo?”
“Ecco, veramente stasera non so se potrò venire, il mio babbo ha ospiti a cena.”
“Chi se ne frega, inventa qualche scusa per uscire.” Sbottò subito Giuliano.
“Ma siederemo a tavola solo verso le otto e mezza e…”
“Niente ma e niente e! Son già due settimane che rimandiamo e ora mi son rotto. T’aspetto al massimo fino alle dieci meno dieci. Non un minuto di più, poi m’incazzo, sei avvisato.”
“Eh, se non trovassimo noi il modo di vivacizzare le serate. Non c’è mai nulla da fare qua a Lucca, i soliti locali, le sale giochi… che palle!” Commentò Leonardo.
A lui sarebbe piaciuto vivere altrove, magari a Milano, magari a Monaco di Baviera patria della October fest, città che giudicava mille volte più vive, invece tanti turisti lombardi o tedeschi, una volta giunti, parevano dispiaciuti di dover tornare a casa. La gente non la capiva proprio.
“Il mondo è pieno di sfigati.” Spiegò Giuliano, che doveva avergli letto nel pensiero.“Fabri usciva a mezzogiorno pure lui, lo chiamiamo già?” Chiese Leonardo mettendo mano al telefonino.
“Perché no? E pure Samu che oggi non è venuto a scuola. Prima gli diamo la conferma e meglio è, altrimenti son capaci di dire che credevano saltata la serata e non possono più.”
Intanto, dopo aver richiuso il portone, Carlo non seppe evitare di rivolgere uno sguardo ai dispotici fratelli. Uno stava indolentemente appoggiato al palo di un segnale stradale con aria più arrogante che mai e l’altro era impegnato a telefonare. Sentiva di esserne succube e non se ne capacitava. Quando, in seconda, era stato bocciato, aveva creduto di arrivare nella nuova classe ammantato del prestigio del piccolo boss, grazie alla sua maggiore età e al vantaggio di essere ripetente, invece si era fatto soggiogare dai due al punto da accettare quell’assurda follia. Passò in rassegna ogni possibile giustificazione per sottrarsi all’impegno all’ultimo momento, ma era inutile e lo sapeva, non ne sarebbe mai stato capace.
>Da parte sua Giuliano, osservando il dinoccolato e barbuto amico dirigersi mesto verso le scale e il fratello impegnato, al telefono, ad alzare la voce col primo dei due interlocutori mentre si grattava nervosamente i cortissimi capelli castani, dipinse sul volto un’espressione beffarda. Sapeva benissimo che Carlo aveva una paura matta, anche se piuttosto che ammetterlo si sarebbe lasciato pestare a sangue. E di certo Fabrizio e Samuele stavano accampando scuse.
Stupidi fifoni buoni a nulla. Avrebbero tutti rinunciato alle scorribande notturne da un pezzo, se io non gli incutessi ancor più paura del rischio di restare uccisi sotto un’auto. Meditò.
Perfino Leonardo, sì, persino lui, intuiva Giuliano, era assai meno convinto di quanto mostrasse. Ma se li avesse lasciati andare prima o poi avrebbero tradito. E comunque tutto ciò non rivestiva soverchia importanza, perché quando si giungeva al dunque, sdraiati in attesa degli eventi lì sul freddo asfalto, ognuno veniva preso dall’orgasmo e dallo spirito competitivo e non si tirava più indietro.

Intorno alle venti Nelson Lwanga guardava la tv stravaccato su un vecchio divano sfondato, nel suo appartamentino di fronte a un piccolo spiazzo di Via San Leonardo. Aveva svolto il turno mattutino e siccome quei sabato e domenica avrebbe fatto pausa era libero dall’una del venerdì fino alle diciannove di lunedì, allorquando sarebbe tornato al più abituale turno di notte.
Nel frigo semivuoto era avanzato un po’ di pesto alla genovese. Avrebbe potuto preparare due spaghetti, se solo avesse trovato la forza di volontà di schiodarsi dal divano. Volse un momento lo sguardo verso la cucina, poi si arrese e riportò l’attenzione sullo schermo. Stufo di uno stupido balletto mise mano al telecomando e cambiò canale, sintonizzandosi su un poliziesco. Seguì la storia senza interesse.
Durante il tempo libero Nelson si annoiava di tutto e nemmeno le donne lo attizzavano più di tanto. Ben presto ne ebbe abbastanza e riprese a far zapping. Prima un quiz, le cui domande lo portarono ad appisolarsi per risvegliarsi solo al frastuono della pubblicità; poi un barboso vecchio western in bianco e nero, che seguì fino all’entrata in scena dei soliti indiani cattivi; infine le televendite:
“…Un magnifico trumeau olandese, signori. Guardate i raffinati intarsi floreali, che eleganza. Bello, bello, bello. Appena 6500 euro da scontare, signori. Quasi mi vergogno a dirlo, i 6500 diventano…”
In quel momento sentì suonare e come d’abitudine, anziché rispondere al citofono, uscì sul balconcino del soggiorno per vedere chi lo cercava.
“Ciao Bon, sei tu!”
Bonifacio Anselmi alzò lo sguardo in direzione della voce e sorrise.
“Ciao Nelson, tutto bene?”
“Insomma, comsì comsà amico Bon e tu?”
“Meglio non chiedermelo. Dai, scendi, ci mangiamo una pizza da qualche parte e poi facciamo il solito giro col mio furgone.”
Cinque minuti dopo Nelson Lwanga ascoltava il collega lamentarsi della moglie. Avendoci di nuovo litigato aveva pensato di chiamare l’amico per sfogarsi e divertirsi un poco insieme a lui. In questo l’africano proprio non lo capiva: una donna del genere andava o battuta o ripudiata, certamente lui non si sarebbe lasciato calpestare a quella maniera.

CAP. 3

 Di nuovo ad affrontare impavidi la morte, sempre con quella tremenda, magica mescolanza di tensione ed ebbrezza. Se la prima volta erano stati appena in tre, stavolta gli avventurieri son saliti a otto, troppi. Benché i gemelli abbiano imposto a tutti il silenzio, la voce ha iniziato a diffondersi e sempre più ragazzi chiedono di partecipare. Si vedono così costretti ad accettarne le richieste, consci che il giocattolo è prossimo a rompersi e prima o poi gli adulti, inevitabilmente avvisati, li fermeranno e li puniranno. Nonostante il suo divieto qualcuno ha perfino inserito nel web immagini dell’ultima impresa! Erano buie e confuse e non si riconosceva nessuno, per fortuna, ma Giuliano è scontento e si chiede se non sarebbe opportuno giocare d’anticipo e interrompere di propria iniziativa. Non ancora, però, non ancora.
Fedeli all’impegno di non tornare mai due volte di fila nel medesimo luogo, stavolta Giuliano e Leonardo hanno invertito la direzione puntando le moto verso le vie che scendono al mare. Per la quinta sfida al destino hanno optato per la stessa località della prima volta, inedita per metà gruppo. Malgrado il tempo trascorso, ripercorrendo la strada ricordano le sensazioni provate come se risalissero al giorno prima e già avvertono l’adrenalina montargli dentro. Intanto Giuliano sente Erasmo tremare dalla paura stretto a lui, mentre Fabrizio, in sella dietro a Leonardo, “sbruffoneggia” senza dargliela a bere: i gemelli sanno che se la sta facendo sotto pure lui.
Subito alle loro spalle Carlo maschera la tensione muovendo la lingua quasi indipendentemente dalla propria volontà. Parla in continuazione, alzando la voce per farsi sentire al di sopra dei motori. Al contrario Samuele, a bordo insieme a lui, non ha ancora aperto bocca, incapace di spiccicare parola. Si guarda intorno di continuo ma tutto gli scivola via senza imprimersi. Infine i neofiti Laurent e Alessio, compagni di classe di Fabrizio, seguono da lontano, imperscrutabili, ciascuno sul proprio scooter.
Venti a mezzanotte: giunti a destinazione, i gemelli guidano la banda a nascondere i mezzi. Anche se priva di lampioni, la strada è ben illuminata dalla luna piena, ma sotto quella luce spettrale le ombre si allungano pallide ed evanescenti. Le curve, constata Erasmo, sono più ampie di quelle delle sue esperienze precedenti e se ciò consente alle auto di impegnarle a velocità più sostenuta, in compenso dovrebbe anche permettere ai piloti di notare con qualche attimo d’anticipo la presenza di intralci, avendo più tempo a disposizione per frenare. A quell’ora ormai tarda l’arteria secondaria è quasi totalmente priva di movimento. Nell’arco dei dieci minuti trascorsi a studiare la situazione vedono passare non più di tre automobili.
>Erasmo osserva gli amici ammiccare compiaciuti senza condividerne il piacere. Il ragazzino sperava che con l’arrivo della bella stagione il traffico si fosse intensificato a sufficienza da dissuaderli. Inutile negare, non si abituerà mai e, anzi, ogni volta la fifa aumenta. Forse presto non avrà nemmeno più la forza di unirsi al gruppo, ma prima, giura a se stesso, fuggendo per ultimo dimostrerà a tutti di non essere un vigliacco. Solo chiudendo in bellezza senza che nessuno possa rivolgergli l’infamante accusa potrà annunciare il proprio abbandono.
È ormai tempo di passare all’azione e nessuno ha più voglia di parlare. Si sdraiano sull’asfalto in ordine sparso, con i cuori che battono all’impazzata.
Tum… tum… tum. Non ne posso più, non voglio più farlo, no, non voglio, pensa Erasmo, sconvolto, mentre sopra la sua testa la luna e le stelle risplendono indifferenti. E gli pare ancor peggio del solito. Una volta di più si domanda se sia l’unico a provare tanta paura. Possibile che solo lui debba sempre sentirsi come se il cuore dovesse fermarsi da un momento all’altro? Ma non importa, ripete di nuovo a se stesso, giuro che stavolta da qui non mi schiodo finché non avrò visto scappare tutti, io non farò più la figura del bimbetto fifone!
Gli inseparabili Giuliano e Leonardo si sono sdraiati come al solito uno di fianco all’altro e si guardano negli occhi. Giuliano ha sempre sconfitto tutti, stanotte ha però un conto in sospeso con Carlo, che la volta precedente lo ha costretto a far la voce grossa per veder confermato il proprio primato e anche un po’ col fratello, che non ha preso come al solito le sue parti. È perciò deciso a surclassare entrambi, ne va del suo onore di leader. Mantiene stampato sul volto il solito sorrisino beffardo, ma non è meno teso degli altri ragazzi, è soltanto troppo orgoglioso per darlo a vedere. D’altronde l’acme di piacere che gli procura l’agghiacciante, fascinoso momento in cui l’auto gli arriva addosso, ignara dell’ostacolo, è talmente violento da superare qualunque remora. Crede che neppure scopare miss universo gli procurerebbe un orgasmo altrettanto intenso.
Leonardo per parte sua è stufo di sentirsi a rimorchio del fratello e vuol fare un figurone. Per essere certo di non fallire, non tenderà né l’udito al ringhio delle macchine né lo sguardo all’apparire dei fari, ma concentrerà tutta l’attenzione su di lui. Lo fisserà negli occhi per tutto il tempo e si muoverà solo quando lo vedrà cedere e scappare via. Non gli importa di primeggiare ma solo di sconfiggere Giuliano, altrimenti non avrà più il coraggio di guardarlo in faccia.
In quel momento Carlo è talmente risentito per ciò che giudica un sopruso subìto da lasciare la fifa in secondo piano. L’altra volta avevo vinto io, cazzo, si ripete continuamente, quel bastardo mi ha fottuto, mi ha defraudato, ma stanotte la vedremo chi ha i coglioni, qui.
Samuele intanto si sente quasi svenire. Strano come non ci si abitua mai, medita battendo i denti come se avesse freddo, partecipo dall’inizio ed è davvero emozionante, eppure...
Anche il nero di pelle Laurent ha paura, ma ne è contento, perché ritiene che se non provasse quel sentimento prima, il piacere e l’emozione risulterebbero assai meno intensi poi. Quanto al risultato finale, arrivare primo o ultimo gli è indifferente, basterà essersela goduta.
Il pallido e biondissimo Alessio, suo amico del cuore, è invece assai meno convinto e si sta chiedendo cosa stia facendo lì. Sul momento gli era parsa una buona idea, una vera figata, ma giunto al dunque è amaramente pentito e vorrebbe trovarsi altrove. Magari tranquillo e beato nella sua dolce e bella cameretta a giocare al play-station, a navigare su internet o sdraiato nel letto a leggersi i fumetti preferiti. Qualunque cosa pur di non trovarsi disteso in quella gelida strada ad attendere la signora con la falce, mascherata da ignaro automobilista. Ma, giura a se stesso, appena mi sembra di udire l’arrivo di qualcuno scappo subito via e poi non ci riproverò mai più.
Infine Fabrizio si defilerebbe volentieri, ma non ha il coraggio di ammetterlo davanti agli altri e preferisce affrontare la morte piuttosto che il disprezzo di Giuliano e Leonardo. Si consola al pensiero che gli basterà alzarsi istantaneamente al sopraggiungere dell’auto, scaraventarsi fuori portata e tutto andrà bene e se poi dovrà sorbirsi qualche sfottò, pazienza. Trova giusto che a turno tocchi un po’ a tutti, gli spiacerebbe vedere il ragazzino di nuovo sbeffeggiato.
Gli adolescenti, distesi immobili sul terreno, tornano a provare quella strana sensazione di dilatazione del tempo, i secondi che paiono minuti e i minuti ore finché, al termine di un imprecisato periodo d’attesa, un ronfare attenuato spezza il silenzio.
Giuliano resta qualche attimo frastornato, poi comprende all’improvviso. “Ma che cazzo?” “Mamma mia.” “Noo.” Sente sovrapporsi le voci degli amici.
Un furgone irrompe a motore e luci spente in mezzo al mucchio, travolgendoli.
D’istinto Giuliano si lancia alla disperata verso il bordo della strada, senza vedere o pensare a nulla, evitando la vettura per un pelo. Solo dopo essersi messo al sicuro ed essersi ripreso un poco dallo shock si volta a controllare la situazione. Scorge tre corpi immobili e gli si avvicina, attonito e stordito. Oddio, chi ci sarà rimasto? Aveva sempre saputo di giocare con la morte, ma non aveva mai creduto davvero che sarebbe successo l’irreparabile, mai.
Per primo vede Leonardo, orrendamente mutilato. Il sangue scorre come un fiume in piena dal tronco schiacciato e le interiora gli spuntano fuori. Solamente il volto appare intatto. Per qualche istante resta imbambolato a guardarlo. Riconosce nel gemello un’inconcepibile espressione di trionfo, ancora più sconvolgente del corpo straziato. Lo fissa a lungo senza osar muovere un muscolo per toccarlo. Infine solleva lo sguardo e a parecchi metri di distanza riconosce Carlo, giacente a pancia ingiù, le membra angolate in maniera anomala, così come è atterrato dopo essere stato scagliato via dalla violenza dell’urto. Giuliano si sente male e si piega in due, colto da conati di vomito.
Tra i cespugli alle sue spalle qualcuno piange a dirotto. Avrebbe una gran voglia di piangere anche lui, ma non ci riesce. Infine si sente chiamare. La parola proviene proprio dal centro della strada. Si gira e scorge un movimento.
“Giuliano.” Ripete, sommessa, la familiare voce.
Allora si fa forza e si avvicina alla terza vittima. Volta la testa nella sua direzione, Erasmo sussurra qualcosa. Giuliano avvicina l’orecchio per sentire e gli prende una mano, mentre il cuginetto trova la forza di rivolgergli un sorriso, prima di riprendere a parlare.
“Hai visto? Non sono… un vigliacco, no… sono stato io… l’ultimo a…”
S’interrompe. Due lacrime scorrono lente dai suoi occhi ormai vitrei. Tenta con un ansito di aggiungere qualcosa ma non ci riesce e, spossato e sofferente, stringe convulsamente la mano del cugino. Angosciato, Giuliano si libera della presa, intuendo come anche Erasmo stia per morire. Infine si siede sul ciglio della strada, annientato dalla colpa.

Il furgone si allontana nella notte a tutta birra. Bonifacio riaccende i fari. Poco prima ha anche rimesso in moto, dopo essere sfrecciato lungo la discesa a motore spento. Gli brillano gli occhi, finalmente libero da tutte le rabbie e le tensioni accumulate. Seduto al suo fianco Nelson ride a squarciagola, i denti candidi risplendenti nelle tenebre, e continua a darsi pacche soddisfatte sulle cosce.
“Lo sapevo che prima o poi li beccavamo, gli stronzetti.” – commenta giulivo Bonifacio – “sentivo parlare dei loro stupidi giochi da mesi. Sai quanta gente l’aveva raccontato in giro, cazzo? Quella curva era ideale per i loro scopi. C’erano già stati l’estate scorsa, immaginavo che prima o poi ci sarebbero tornati.”
“Peccato che oggi guidavi tu, Bon. È la tua solita dannata fortuna, ma è stato bello lo stesso. L’hai visto quel coglione volare per una dozzina di metri?”
“È stato molto meglio dell’altra volta con quel pezzente di merda nel cassonetto, cazzo. E poi sai, amico, per qualche istante mi sono sentito come Dio, in grado di dare o togliere la vita. Inebriante. Peccato che un’occasione del genere difficilmente si ripeterà più.”

Fine.

N.B.: questa è fiction, certo. Purtroppo, però, so che in passato in almeno un’occasione alcuni adolescenti provarono davvero a compiere analoghe follie. Ignoro l’esito autentico.

Testo e foto di Massimo Bianco

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