Menti criminali

Il ruolo di giornali e telegiornali dovrebbe essere quello di informare e il giornalista  autentico è essenzialmente un cronista.  Quindi  trovo opportuno che nelle prime pagine il conflitto israelo-palestinese, pretesto – al pari della guerra in Ucraina che ne è stata oscurata – per influenzare  lettori e telespettatori, abbia dovuto fare spazio alla cronaca di cui i media sono avari, quando non tendono a distorcerla  o a filtrarla. La  cronaca è scomoda e non obbedisce alla political correctness: scippi, rapine, stupri non fanno notizia, soprattutto perché al 90% sono commessi da stranieri e non si deve alimentare il diffuso senso di insicurezza. Se poi l’evento criminoso è di una gravità tale che non può essere occultato e il colpevole è un extracomunitario se ne tace finché possibile la nazionalità e la notizia si esaurisce il prima possibile (chi ricorda la povera ragazza fatta a pezzi e mangiata?), ovviamente senza il complemento di dibattiti, dichiarazioni, servizi speciali o talk show. Non siamo mica razzisti, che diamine. Nel caso di Giulia l’assassino è bianco, anzi, come direbbe l’inqualificabile consigliera dem del comune di Firenze, un “indigeno bianco”  quindi niente osta che il delitto diventi un caso nazionale, che si vellichi la curiosità morbosa della gente, se ne cerchi il coinvolgimento emotivo, se ne faccia addirittura una questione politica. Insomma, bene che si torni a parlare di cronaca ma si richiederebbe più sobrietà e, mi spiace contraddire la sorella della vittima, meno vocio e meno teoremi.

Per scrivere queste note ho dovuto fare violenza su me stesso proprio per la paura di scadere nel ridicolo delle analisi di costume e nella banalità della sociologia d’accatto. Poi però, da psicologo – seppure pentito – non ho resistito al bisogno donchisciottesco di controbattere al tentativo, che sicuramente riuscirà, di spostare il focus dai fatti allo stagno dell’ideologia e della chiacchiera dove sguazzano destra e sinistra di regime, iconicamente rappresentate dalle facce della Meloni e dalla Schlein e di usare un dramma familiare per  assestare un altro colpo alla scuola.  Convergenti le dioscure della politica italiana sull’idea aberrante di attribuire alla scuola il compito di educare alla gestione dei sentimenti, al rispetto per l’altro, alla resistenza alle frustrazioni. Non entra in quelle   anguste menti – cito Leopardi – il concetto che la scuola non educa ma insegna, trasmette conoscenze e se forma lo fa indirettamente grazie all’elaborazione personale di letture e apprendimenti. Chi educa, nel senso che trasmette valori e modula atteggiamenti, è la società, a partire dal suo nucleo – la famiglia – per proseguire col gruppo dei pari, l’ambiente di lavoro e l’insieme delle reti interpersonali.

Meloni e Schlein

Detto questo mi preme rimarcare un punto fermo di cui non c’è traccia nel chiacchiericcio di politici, giornalisti, opinionisti ed “esperti” (!?):  lo psicopatico non è come tale educabile ma non è nemmeno un malato, non è uno psicotico, non ha un’ideazione delirante, è lucido e organizzato e assolutamente responsabile delle sue azioni. Chiarito questo punto va ricordato che il patto sociale che è alla base dello Stato non sopprime  il diritto naturale alla vendetta ma la delega ad un organo impersonale, il Minosse “che giudica e manda secondo che avvinghia”. L’idea della pena come strumento di rieducazione, come quella della funzione assolutoria del pentimento, è una sciocchezza che rimane tale anche se ripetuta milioni di volte, una sciocchezza  incompatibile con i principi della civiltà giuridica. E se, come ogni persona dotata di raziocinio, trovo giusta l’abolizione della pena di morte,  un’arma micidiale nelle mani di un giudice umanamente soggetto a sbagliare, sono però convinto che  vada   sostituita con l’unica pena proporzionata al crimine, la morte civile dell’ergastolo, perché l’assassino non merita un’altra possibilità, la sua vita nella società termina nel momento del crimine: una vita per una vita. Pertanto nel caso di Giulia, appurato che il delitto è stato compiuto con piena consapevolezza, che l’assassino  ne ha sopportato il peso e si è adoperato per nascondere il corpo sul quale aveva infierito, ha cercato per sé una via di fuga,  non ci sono sfumature, sottigliezze, cavilli che tengano: una vita per una vita ed esclusa la pena di morte – per sfiducia nei giudici, per il rischio che venga usata per eliminare legalmente avversari politici, non per altre ragioni, morali o religiose – non vedo alcuna alternativa all’ergastolo.  L’assassino, ripeto, non deve avere un’altra possibilità come non l’ha avuta la vittima. Poi ciascuno è libero di considerarlo un mostro, un imbecille o un ragazzo sfortunato.

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Quello che trovo insopportabile  è l’universale tendenza a sussumere il delitto all’interno di una categoria. Frutto della cultura dello stupro, è stato detto. Mi riesce difficile immaginare un’affermazione più stupida e fuorviante:  una cultura dello stupro ci sarà nel Bangladesh o nell’Africa sub sahariana, chi sostiene che ci appartenga o parla a vanvera o è fuori di testa. Poi altre meno stravaganti ma ugualmente improbabili tesi:  conseguenza del maschilismo, dell’iato fra generazioni, della violenza endemica: tutte cose  buone per la chiacchiera, per svaccare intorno a questioni serie per porsi nella dimensione dell’interpretazione, della comprensione, del voler capire per poter prevenire. Ma qui non c’è nulla da capire e non c’è modo di prevenire. Perché capire significa spostare il caso singolo dentro un contenitore, farne l’espressione   concreta   di una condizione generale come si fa col malato compreso all’interno della malattia; un approccio che consente di “capire” il malato per poterlo curare. Non funziona così: l’assassino va considerato nella prospettiva del principium individuationis, come un caso che si risolve in se stesso, suscettibile di descrizione ma non di comprensione o spiegazione; il delitto è assolutamente imprevedibile perché l’assassino rivela la sua natura di assassino solo nel momento in cui lo compie.  Aggiungo che se anche fosse possibile, e non lo è, vedere i fantasmi che si agitano nella mente non servirebbe a nulla perché  non dico nell’inconscio – un concetto di cui faccio volentieri a meno – ma nel segreto della propria intimità, nel proprio inconfessabile  fantasticare non c’è niente di tanto sconveniente, turpe, riprovevole che non possa essere vagheggiato o non alimenti le proprie rêveries e non per questo si è potenziali delinquenti,  maniaci o psicopatici. Non lo si è perché quando ci si apre verso l’esterno e  all’inconsistenza dell’io privato si sostituisce la concretezza dell’io sociale filtrato, per usare un termine freudiano, dal principio di realtà, quei fantasmi si dissolvono così come i sogni svaniscono nel momento del risveglio. Ci sono, eccome, episodi in cui il controllo sociale viene meno, crisi di paura, di pianto, di aggressività ma salvo casi eccezionali sono smorzati dal feedback, dalla capacità di oggettivarsi e di autoregolarsi.  Paradossalmente è più probabile che siano le persone mentalmente sane, “normali”, ad avere un’interiorità bizzarra, stravagante, irrazionale, incoerente come irrazionali e incoerenti sono i sogni, mentre  un individuo suscettibile di “passare all’atto” ha spesso una struttura interiore coerente lucida e razionale; ed è proprio questo trasferimento della razionalità dal piano delle relazioni sociali a quello della individualità  chiusa in se stessa che determina l’acting out. Questa condizione, che definisce la personalità psicopatica si può riconoscere solo quando è troppo tardi.  Non basta nemmeno la rilevazione della mancanza di empatia, della asocialità, della malvagità, della crudeltà verso gli animali perché sono proprio le manifestazioni quotidiane  di una sociopatia o di una caratteropatia a fungere da valvola di scarico e, non sempre ma di norma, mettono al riparo da comportamenti di rilevanza criminale. Il pericolo maggiore  è  infatti rappresentato dal “bravo ragazzo”, magari un po’ fragile, mite, disponibile, bisognoso di affetto (uso per comodità il maschile ma la personalità psicopatica non conosce preferenze di genere).  Tutto il contrario del macho, dell’esibizionista e anche, mi si consenta, del violento. E come capire, soprattutto quando l’interazione con lui avviene nell’ambito di un rapporto di coppia, che il bravo ragazzo è in realtà privo di coscienza morale, incapace di rispecchiarsi nell’altro e di accettarne l’alterità?  Praticamente impossibile: lo stesso rifiuto ad accettare la fine della relazione può manifestarsi in forme subdole, lamentose, apparentemente innocue come richieste di aiuto. È   quello che è capitato alla povera Giulia spinta dalla recita del suo carnefice  a proseguirne la frequentazione per dargli il tempo di elaborare la fine del rapporto e ad accettare senza sospetto l’ultimo incontro “chiarificatore” in una zona isolata dove il delitto, che non è in questo caso un passaggio all’atto per improvvisa rottura delle barriere ma un evento già consumato nel chiuso della mente, poteva ripetersi nell’esteriorità del mondo reale. Quindi quali difese, quali  precauzioni,  quali segnali che mettano in guardia? Temo che non ce ne siano; semmai all’interno della famiglia dell’assassino psicopatico si possono cogliere  quei segni che  il consumato attore  non mostrerebbe mai all’esterno. Semmai poteva insospettire la pervicacia nel ritenere “sua” la ragazza che aveva rotto la relazione. Ma è improbabile che i genitori siano nella condizione  di distacco emotivo che rende possibile cogliere e valutare quei segni. Non  riesco a immaginare altro strumento di tutela sociale che non sia la deterrenza della pena, la paura del controllore esterno che sostituisce la mancanza di quello interno; e non è tanto il giudice quanto il giustiziere che può tenere  a freno lo psicopatico, che è per natura falso, un attore  che recita una parte, ma è anche un codardo incapace di autentiche interazioni e di un confronto paritario. In questo quadro, dinanzi all’abisso  di una mente  chiusa in un egotismo assoluto, la cultura, la pressione sociale, gli atteggiamenti prevalenti  non hanno rilevanza alcuna. Ed è una vergogna che si usi una privata tragedia per imporre le proprie convinzioni etiche, la propria concezione della famiglia, delle relazioni di coppia, dell’identità di genere e i propri sistemi valoriali.

Tanto per chiarire

  • La comica della società patriarcale responsabile dei femminicidi, una tesi inizialmente avanzata cautamente dagli stessi che fino a ieri consideravano un dogma la società senza padre, come tutte le sciocchezze ha subito attecchito e si è progressivamente gonfiata  con l’attiva partecipazione dell’esercito di tromboni insipienti  che rappresentano l’intellighenzia di questo sfortunato Paese. Il concetto di società patriarcale, benché vago, ha un’indubbia utilità interpretativa in sociologia e nella storiografia ma è ridicolo volerlo applicare alla società italiana e in generale alle società occidentali contemporanee. In primo luogo perché la famiglia, ridotta al suo nucleo, è instabile se non addirittura in crisi; in secondo luogo perché la fine della rigidità dei ruoli seguita all’emancipazione sociale e culturale della donna ha segnato la fine irreversibile della centralità del maschio e ha comportato in termini psicologici una distribuzione della mascolinità e della femminilità indipendente dai generi. Quelle che erano eccezioni, la donna virile e il maschio femmineo non sono certo la regola ma non suscitano più alcuna meraviglia. Gli uomini non reprimono più la femminilità che è in loro e le donne danno libero sfogo alla loro virilità.
  • L’onorevole Bonino si è fatta promotrice di una campagna contro i maschi, seguita entusiasticamente dalla lobby LGBTQ+. Sarebbe l’ora di piantarla con la confusione fra genere – e caratteristiche fisiche, fisiologiche e psicologiche di genere – e attitudini e gusti sessuali, o meglio erotiche.

Emma Bonino

La ricerca del piacere sessuale è un espediente della natura per garantire la continuità della specie ma in sé non ha niente a che fare con la procreazione e nemmeno con la distinzione di genere. L’autoerotismo è generalizzato nell’adolescenza, può accompagnare per necessità o per scelta tutta l’esistenza, spinte istintuali e pressione sociale spingono per le pratiche erotiche eterosessuali ma in ogni epoca e in ogni cultura molte persone preferiscono il sesso fra congeneri e last but not least uomini e donne possono tranquillamente vivere la propria esistenza senza avvertire la necessità di indulgere a pratiche sessuali. La morale cristiana, soprattutto alle origini, considera la castità una suprema virtù di cui la vergine Maria è il paradigma. Il maschio non è meno virile, se è virile, in un’etàanagrafica in cui la carica ormonale è indebolita né se, quale che sia il motivo, prova ripugnanza per il sesso. Insomma – fatti salvi i comportamenti patologici come l’esibizionismo – quel che succede in camera da letto non ha alcuna rilevanza sociale o politica: è cosa squisitamente privata che solo una società malata come la nostra vuole far diventare pubblica. Maschile e femminile sono altra cosa e vanno considerati su un altro piano.

  • Il concetto di femminicidio non a caso è una novità, un neologismo, mentre non sono una novità i crimini all’interno della famiglia o della coppia – non escluse le coppie omosessuali -; è una novità in buona sostanza inutile e fuorviante, L’omicidio è tale sia che la vittima sia un maschio sia che sia una femmina.
  • Emergenza machista nelle scuole. Una colossale balla avallata dall’improbabile ministro dell’istruzione, sdraiato sulle trovate dell’opposizione ma soprattutto disinformato. A memoria mia problemi di sopraffazione sulle ragazze nelle scuole italiane non ce ne sono mai stati; ci sono altre emergenze, che sfuggono al ministro, come il consumo e lo spaccio di sostanze stupefacenti all’interno dei locali scolastici, la persecuzione ai danni di soggetti marginalizzati – il cosiddetto bullismo , di cui per altro si è esagerata l’incidenza -, e c’è soprattutto, e non da ora, un’endemica mancanza di rispetto nei confronti dei docenti che sfocia in episodi di scoperta violenza. E c’è l’esposizione del personale scolastico, presidi, insegnanti e collaboratori all’ingerenza dei genitori, sempre più restii ad accettare giudizi negativi o sanzioni per i propri figli. Ma il machismo c’è solo nella testa del ministro.

Amadori e Valditara

  • Non mi risulta che il sottosegretario Amadori, un sondaggista e divulgatore scientifico, sia intervenuto sula vicenda ma le comari  della sinistra perennemente a caccia di un eretico da mandare al rogo ne hanno scovato un’operetta pomposamente intitolata La guerra dei sessi, in cui l’autore  semplifica fino alla banalizzazione  ovvietà incontrovertibili. Per il fatto di averla scritta e pubblicata a dar retta al partito della Schlein  lui sarebbe incompatibile col ruolo che occupa e dovrebbe dimettersi,  con le stesse motivazioni per cui Vannacci avrebbe dovuto essere cacciato dall’esercito.  La libertà di opinione è evidentemente finita nel cesso.
  • Tutti d’accordo sull’educazione sentimentale nelle scuole. Credevo che con quella espressione si dovesse intendere il percorso di un giovane che diventa adulto  attraverso le proprie esperienze erotiche come rappresentato nei due mediocri romanzi  di Flaubert. Scopro ora che riguarda come si impara ad amarsi in modo corretto, a fare sesso senza mancare di rispetto, a non attaccarsi al polpaccio dell’altro come una zecca. Educazione sessuale sublimata poi in sentimentale; la vogliono le due facce della stessa medaglia di metallo vile, Meloni e Schlein, lo vuole la sinistra salottiera e la destra stracciona, lo vogliono le menadi ansiose di bruciare tutto col fuoco che le divora dentro. Un’educazione sessuale,dicono, che Paesi più progrediti hanno da decenni nei loro programmi scolastici, e si porta come esempio la Svezia. Ma non sanno le due facce della stessa medaglia, non sa il nostro evanescente ministro, non sanno le menadi urlatrici che in Svezia, nel Regno unito, in Francia o un Germania non c’è nessuna educazione sessuale o sentimentale. Education è un termine inglese che non significa educazione ma istruzione e l’istruzione si risolve in informazione. I ragazzi svedesi imparano come si usa il preservativo, le ragazze le precauzioni per evitare gravidanze indesiderate, gli uni e le altre come ci si difende dalle malattie trasmesse sessualmente e la necessità di non trascurare l’igiene personale. Tutto qui. Perché queste informazioni non sono la causa o il motore di una società più libera da pregiudizi ma ne sono l’effetto. Non è difficile da capire.

Pierfranco Lisorini

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