Matapan (séguito) e gli strani casi occorsi alla nave “Gradisca”

In una sorta di continuazione del discorso brevemente svolto nel mio articolo precedente, si vuole questa volta porre attenzione a ciò che accadde a strascico della disfatta di Capo Matapan.
La motivazione è che una volta tanto si vuole guardare oltreché al fatto, anche a ciò che da esso, direttamente o indirettamente, consegue; infatti spesso è dalle conseguenze che si riesce davvero ad assegnare un peso a ciò di cui sono conseguenza.
La modalità è che lo si vuol fare non in generale, perché si tratterebbe di un discorso troppo vasto e complesso, ma restringendo il campo a una vicenda che ha la caratteristica di essere punteggiata da casi piuttosto strani, i quali, se non si trattasse di fatti documentati, per come si presentano potrebbero di primo acchito far scambiare la realtà con l’aneddoto.

La nave ospedale Gradisca

Che cosa c’entra la Gradisca con la battaglia di Capo Matapan?
Essa è chiamata in causa il 29 marzo 1941, sùbito dopo che l’ammiraglio della “Mediterranean fleet” Andrew Cunningham, non riuscendo a recuperare tutti i naufraghi italiani a causa del sopraggiungere di aerei ricognitori tedeschi e perciò per il timore di un prevedibile attacco successivo da parte di unità nemiche, deve allontanarsi.
Nel farlo si preoccupa con grande correttezza di avvisare lo Stato Maggiore della Marina Italiana affinché si attivi per continuare il salvataggio.
E’ così che Supermarina incarica la nave-ospedale Gradisca di recarsi sul luogo indicato da Cunningham.
Il primo intoppo è che la Gradisca era appena attraccata al porto di Taranto con un carico di circa 700 feriti provenienti dall’Albania, dove l’Italia era impegnata a contrastare la controffensiva greca.
In poche ore dunque si devono in fretta e furia sbarcare i feriti e subito ripartire.
Per lasciare il porto la Gradisca deve seguire una pilotina che la guida nello slalom per evitare indenne le mine posizionate dalla stessa Marina Italiana a difesa del porto

La Gradisca in soccorso ai naufraghi della battaglia di   Capo Matapan

Guadagnato il mare aperto e messe le macchine a tutta, la sera del 30 marzo giunge sul luogo indicato dagli Inglesi, ma solo la mattina del 31 avvista i primi due morti e finalmente, la sera, i primi naufraghi aggrappati ai rottami delle navi e alle zattere.
Le loro situazioni sono terribili; alcuni danno segni di pazzia, altri sono allo stremo per la fame e la sete, e soprattutto presentano segni di congelamento.
Qualcuno è svuotato ed apatico, e affonda nella depressione per essere stato costretto a guardare quella che poteva pensare la sua prossima morte negli occhi ormai vitrei dei compagni di zattera che non ce l’hanno fatta.
La ricerca a tratti è resa difficile dalle condizioni del mare, dal fatto che nel frattempo le correnti hanno disperso le zattere a chilometri di distanza le une dalle altre e anche dalla insufficienza della luce prodotta dai fari nella ricerca notturna.
Ricerca che comunque continua fino alla sera del 5 aprile, incrociando in lungo e in largo lo specchio d’acqua interessato, cercando di non perdere neanche un attimo, tanto che viene presa la tristissima decisione di non recuperare più i corpi dei marinai morti, in nome della possibilità di fare in tempo a salvare ancora qualche sopravvissuto. Ma nessuno è più avvistato.
La stessa sera Supermarina dà l’ordine di abbandonare le ricerche e di fare rientro al porto di Taranto.
Durante le ricerche la Gradisca viene sorvolata da aerei inglesi, tedeschi e italiani che, stranamente, pur da una posizione ovviamente più favorevole, non segnalano nulla

Questa è la missione più conosciuta della Gradisca (alla fine sono riportati in patria 161 superstiti e recuperate le salme di 8 marinai, mentre uno muore per assideramento e ferite dopo che è issato a bordo), ma non certo la più avventurosa se per avventura si intende una particolare invadenza dell’imprevedibile e dell’improbabile.E’ sufficiente per rendere l’idea delle (dis)avventure cui durante la sua attività la Gradisca va costantemente incontro, riportare anche solo quelle dell’estate del ’41, dopo che il 27 maggio riceve l’ordine di lasciare il porto greco del Pireo per raggiungere Salonicco:

La Gradisca in bacino di carenaggio

– Transitando quel giorno stesso in un canale del porto, impatta in un relitto sommerso che la danneggia pericolosamente rischiando di trasformarla a sua volta in un relitto.

– Mentre la si sta riparando, il 30 maggio viene investita da due esplosioni a distanza di un’ora una dall’altra. Le esplosioni sono dovute a una serie di scoppi su due piroscafi che le sono ancorati vicini, a causa del loro carico di munizioni.

– Un mese dopo, quando è in procinto di riprendere il mare, si sviluppa un incendio
in un silos in cui è stipato tabacco, e il gran fumo che sprigiona scompagina i piani della nostra nave bianca (bianco era il colore imposto alle navi con funzione di ospedale dalla Convenzione di Ginevra) che deve rimandare la partenza.

– Quando finalmente riesce a lasciare il porto con 161 feriti (un numero identico a quello dei naufraghi che aveva salvato a Matapan) fa rotta verso Salamina dove imbarca 129 feriti tedeschi. Anche chi la pilota in quel caso è tedesco.
Egli insiste per non seguire la rotta prevista e il risultato è che finisce per arenare la nave in un banco di sabbia.
Dopo circa una settimana, grazie all’ausilio prestatole da due unità, la Hercules e la Sirio, e soprattutto grazie alle pompe aspiranti che liberano la parte prodiera dalla sabbia, la Gradisca riprende a galleggiare normalmente, va a Rodi e poi si dirige al porto di Bari, dove consegna il suo carico umano.

Ma la Gradisca compie anche  missioni che si discostano parecchio da quelle usuali delle navi bianche. Viene per esempio impiegata per lo scambio di migliaia di prigionieri.
Si tratta di missioni rischiose, perché se in teoria i trattati internazionali garantivano la navigazione delle navi-ospedale, in realtà sappiamo  che le cose non stavano esattamente così. Lo si vede chiaramente andando a controllare la loro storia. Limitandoci ad alcune tra le italiane, scopriamo che gran parte di esse i trattati internazionali non riuscirono a salvarle:

– “Città di Trapani”,  “Sicilia”, “Arno”, “California”, “Po” , vengono silurate e affondate.

– “Principessa Giovanna” viene mitragliata.

– “San Giusto”, “Orlando”, “Tevere”, vengono messe fuori uso dalle mine o dalle bombe.

– “Capri”, “Aquileia”, “Toscana” “Virgilio”, vengono attaccate e danneggiate.

La giustificazione data dal nemico per il mancato rispetto dei Trattati era (allora come ora…) che sotto la copertura della Croce Rossa Internazionale, le navi bianche trasportavano materiale bellico e o soldati. Non si è mai saputo se una tale giustificazione fosse in qualche misura fondata.
Con l’ 8 settembre 1943 diventano nemici gli alleati di prima, per cui sono proprio aerei tedeschi che attaccano la Gradisca mentre naviga verso l’Italia. Lo fanno dopo che ha invertito la rotta per non essere stata in grado di attraversare il canale di Patrasso. Per condurla attraverso di esso si aspettava infatti un pilota che semplicemente, banalità disarmante, non si presenta!!
La conseguenza è che essa è costretta sotto la minaccia delle armi ad attraccare a Prevesa e che l’equipaggio viene sequestrato e deportato in Austria.
Poi, a febbraio del ’45 la ritroviamo a Venezia in fase  di disarmo  per la spoliazione di quei materiali ancora altrimenti utilizzabili; senonché alla fine di aprile, in concomitanza con la fine della guerra, il Lloyd Triestino la adatta a nave cargo.
Il suo ultimo viaggio è di nuovo un concentrato di strane coincidenze.
La Gradisca lo fa trasportando uomini, non materiali: si tratta di un un gruppo di militari e di civili inglesi da trasferire da Porto Said a Malta. Dove non arriverà mai, perché nello specchio di mare immediatamente antistante l’isola di Gaudo (ancora Gaudo…!) cozza contro il fondale e resta immobilizzata.
Ma è 5 giorni dopo, tra il 28 e il 29 (ancora il 28 e 29…!) gennaio 1946, che con lo scoppio di una tempesta, lo scafo non regge e si devono salvare tutte le persone ospitate sulla nave trasbordandole su un incrociatore inglese del tipo Orion sopraggiunto per l’occasione, uno di quelli appartenenti alla divisione, Orion appunto, che nella battaglia di Gaudo avevano rappresentato, ironia della sorte, il massimo pericolo per la nostra nave ammiraglia Vittorio Veneto.
Rimorchiata fino a Venezia, la Gradisca subirà in toto quello che prima, sempre a Venezia, aveva subìto solo in parte: la demolizione.
E’ cosi’ che nel 1950, dopo 37 anni di avventure e soprattutto disavventure, ha termine la vicenda di quella nave che per il suo compito votato al soccorso, inevitabilmente lasciava i porti sempre carica, in egual misura, di ansie e di speranze.

FULVIO BALDOINO

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One thought on “Matapan (séguito) e gli strani casi occorsi alla nave “Gradisca””

  1. Amara constatazione: la vicenda della nave ospedale “Gradisca” , ricordata con encomiabile precisione dal prof Fulvio Baldoino, assume oggi anche il senso di una testimonianza contro la guerra e le sue tragedie dentro la tragedia rappresentata dalla guerra medesima. Dalla ricostruzione storica del prof Baldoino si evince che, pur nell’infuriare del conflitto nel corso della seconda guerra mondiale, alcune regole venivano rispettate e l’umanità non si era del tutto abbrutita. Cosa che, invece, non sembra che avvenga nella feroce guerra senza regole che oggi sta insanguinando l’Ucraina, e, di riflesso, la Russia e, facciamo gli scongiuri, se andiamo avanti di questo passo, presto insanguinerà anche la nostra cara (?) Europa. Quindi, complimenti sinceri a al prof Fulvio Baldoino.

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