L’Italia è malata se non già morta

L’Italia è malata, cantavano gli anarchici all’inizio del secolo scorso proponendo come cura la ghigliottina per i “signori”.  A distanza di più di un secolo quell’Italia sembra sana, anzi sanissima pure nelle sue contraddizioni e nelle sue tensioni interne, segno di spinte ideali contrastanti ma proprio per questo di vitalità.

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Oggi di vitalità non c’è traccia: l’Italia non è malata è semplicemente morta. Una morte annunciata con l’epidemia, che servì per testare la reattività del popolo italiano. Segregazione in casa, vaccinazione obbligatoria, il malato trattato come un untore, il terrorismo mediatico e la presenza ossessiva e impudica di veri o presunti esperti, la scienza ridotta a foglia di fico degli affari miliardari delle case farmaceutiche: tanti buoni motivi di malessere nell’opinione pubblica che la politica ha ignorato scommettendo sulla rassegnazione e l’acquiescenza. Una scommessa vinta due volte perché alla feroce repressione della prima e ultima manifestazione di piazza è seguito un silenzio tombale. Lo steso silenzio ha consentito al governo Draghi di mentire spudoratamente sulla questione del Donbass e di far passare per un’aggressione russa le provocazioni ucraine.  La circostanza che  la menzogna fosse imposta dai vertici dell’alleanza atlantica  non la rende meno grave;  ma ancora più grave è aver fatto passare per inevitabile il sostegno al Paese “invaso”, come se si fosse costretti da un patto di reciproco sostegno.

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Né l’Italia né la Nato di cui, purtroppo, l’Italia è parte avevano alcun obbligo nei confronti dell’Ucraina; semmai, per motivi umanitari, avrebbero avuto il dovere morale di intervenire per far cessare gli attacchi di Kiev alle regioni separatiste. Inoltre anche nella remota eventualità che un Paese  membro della Nato o dell’Unione europea fosse aggredito da una potenza esterna non sarebbe per nulla automatico che  l’Italia si schierasse militarmente al suo fianco: non lo fece nel 1914 nonostante la Triplice Alleanza, non lo fece il Duce un quarto di secolo dopo nonostante il Patto d’acciaio. Tanto più che se formalmente l’Italia è ancora uno Stato sovrano la sua Costituzione continua ad esserne la legge fondamentale, superiore a qualsiasi vincolo o norma sovranazionale e governo e parlamento non possono legittimamente coinvolgere il Paese in un conflitto armato:  la repubblica, si legge all’art. 11 ““ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Il fatto che sia già avvenuto, o  con la maschera della missione di pace o di soppiatto o spudoratamente con D’Alema – e l’avallo di Scalfaro – nel 1999, quando l’Italia fu protagonista dell’attacco Nato alla Serbia, dimostra solo che l’Italia è una democrazia diciamo sui generis, fondata più che sul lavoro, come millanta di essere, sull’ipocrisia.

Ma nella questione ucraina c’è qualcosa di surreale: se in Alto Adige la popolazione si stufasse di essere forzosamente italiana  o Roma revocasse l’autonomia, il bilinguismo e tutte le agevolazioni che il suo statuto speciale comporta e dopo che un referendum ne  avesse sancito il ritorno all’Austria, l’Italia sarebbe legittimata a intervenire militarmente? Nemmeno per sogno. Se lo facesse c’è da credere che l’Austria, spalleggiata dalla Germania, darebbero vita ad una “operazione militare speciale” di sostegno ai sui fratelli di lingua storia e cultura, esattamente come ha fatto la Russia. Non solo. Immaginiamo che in piena guerra fredda il Pci e il suoi alleati avessero vinto le elezioni e dopo essersi installati a Palazzo Chigi fossero usciti dall’alleanza atlantica, avessero aderito al Patto di Varsavia e sfrattato le basi americane per sostituirle con quelle sovietiche. Un’ora dopo si sarebbero sentite le sirene e nel golfo di Genova si sarebbe stagliata la sagoma minacciosa dell’’Enterprise. Non è fantapolitica ma una certezza assoluta. Bene: se un torto Putin l’ha avuto è quello di avere aspettato otto anni prima di intervenire in difesa di quelli che in Occidente vengono chiamati secessionisti. Queste sono evidenze incontrovertibili. Ma l’amore, si sa, è cieco e un opinionista innamorato dell’America è probabile che guardi a queste vicende con occhi velati dagli interessi politici economici e militari della Casa bianca; quello che sorprende è che nessuno, dico nessuno, fra i nostri giornalisti, politici di tutti i colori, intellettuali che hanno accesso ai media riconoscano queste evidenze quando, anche nel caso che non fossero tali ma opinioni, almeno qualcuno dovrebbe condividerle. Insomma c’è qualcosa che non torna; o, meglio, torna perfettamente se si introducono le variabili ricatto, paura, denaro. Variabili che però non toccano la pubblica opinione, che, se esistesse , dovrebbe quantomeno dividersi e come è accaduto nel passato si dovrebbero vedere alle finestre bandiere della pace e per le strade manifestazioni   contro i provocatori ucraini e l’Europa, governo italiano in testa,  che li spalleggia. Ma c’è in Italia una pubblica opinione?

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Ora è vero che la maggioranza degli italiani sono disinformati e forse,  specialmente i giovani,  poco intelligenti – lo dico con profondo rammarico -,  è vero che pur frequentando assiduamente i social non sentono la necessità di documentarsi, è vero che hanno attraversato indenni tutti gli ordini di scuola – e in questo c’è anche una precisa responsabilità da parte dell’esercito di cavallette  entrato nella scuola dalla porta di servizio che ne ha distrutto le basi  –   ma è anche vero che c’è un gran numero di persone che legge, che  ha tutti gli strumenti per orientarsi,  che conosce la storia e la geografia e sa bene cosa è successo nell’est dell’Europa dopo il crollo del muro di Berlino. Persone che sapevano quali accordi erano stati presi a Minsk e come i governi ucraini filonazisti li avessero violati e sapevano anche chi e perché li avesse incoraggiati a disconoscere l’autonomia delle regioni russofone e a distruggerne l’identità con le cannonate e gli attentati. Non sto parlando di politici o di giornalisti ma della parte più consapevole della società civile, quella che dovrebbe mettere un freno alla bulimia di potere e di privilegi dei primi e al servilismo dei secondi. Bene, quando stampa e televisioni hanno cominciato a diffondere la narrazione – come si usa dire – di una Russia imperialista e di un Putin fuori di testa tesi non solo a riprendersi gli Stati vassalli dello zar o del bolscevismo ma intenzionati addirittura a impadronirsi dell’Europa tutta  (parole di Draghi: “sono in pericolo la nostra libertà e la nostra democrazia”) non solo i disinformati, i giovani apatici e indifferenti ma anche quella significativa minoranza di persone colte e ben informate non hanno fatto una piega: nessuna pressione sui partiti di riferimento, nessun ricorso alle associazioni, ai sindacati, a qualsiasi forma associativa in grado di dare voce ai singoli e ai gruppi. Muta, quella minoranza, anche sulla rete che pure è il luogo in cui il privato, o meglio l’intimo, diventa impudicamente pubblico, il luogo delle velleità letterarie, delle rivendicazioni e degli sfoghi più strampalati. Viene a mente la scritta “qui non si parla di politica” che giustamente rende odioso il Ventennio. Durante il quale però  non si impediva affatto di occuparsi di politica – non si confonda la politica con la sovversione – perché nel fascismo convivevano tante anime anche in forte contrasto fra loro. E a dirla tutta gli italiani che vedevano cadere uno dopo l’altro privilegi di classe, che dopo una storia secolare di miseria, marginalizzazione, oppressione clericale scoprivano il divertimento, il gossip, il cinema, la moda, la  libertà sessuale, il protagonismo delle donne e il riconoscimento della dignità del lavoro non avevano tanti motivi per rimpiangere i vecchi partiti o lo sventolio delle bandiere rosse.
E agli smemorati voglio ricordare che la dialettica politica a cavallo fra diciannovesimo e ventesimo secolo era essenzialmente fra l’ordine e l’anarchia, fra lo Stato borghese e l’antistato, e chi si professava socialista guardava più a Prudhon che a Marx. E figuriamoci se all’italiano medio che stava assaporando un certo benessere e agognava alle mille lire al mese cantate da Carlo Buti passava per la testa l’idea folle dell’abolizione della proprietà privata. Insomma sarebbe ora che politici giornalisti e accademici la piantassero di parlare di cose che non conoscono  e qualcuno si rivoltasse contro le parole del Capo dello Stato che si è spinto fino a  imputare alle leggi sulla razza del 38 l’origine della Shoah. 

Quelle leggi, firmate senza difficoltà dal re, non trovarono alcuna significativa opposizione neppure fra i fuorusciti antifascisti, erano gradite alla stragrande maggioranza del popolo, a cominciare dagli insegnanti che aspiravano a occupare le cattedre dei docenti di religione ebraica estromessi dalle scuole statali, e ottennero il plauso della Chiesa cattolica da sempre  impegnata alla criminalizzazione dei “deicidi”. Perché un’opinione pubblica durante il regime c’era eccome  e si esprimeva con un consenso plebiscitario e una ridicola idolatria del Duce, tanto più ridicola perché non imposta come accade oggi nella Corea del nord. Io, che sono allergico anche al tifo sportivo, provo ripugnanza per la folla e le adunate oceaniche ma riconosco che la partecipazione emotiva  è comunque un segno di vitalità   e non di servilismo. La stessa vitalità, chiamiamola pure passione politica, che si respirava alle vecchie feste dell’Unità: anche quella era partecipazione, spostata sul piano emozionale ma pur sempre partecipazione, senso di appartenenza e di identità. Non era identità nazionale, non era sentimento patrio ma esprimeva comunque un ideale,  utopico e discutibile quanto si vuole ma pur sempre un ideale.  In questa Italia malata, in questa nazione senz’anima non c’è più né  utopia né progettualità. Non è un caso che abbiamo un governo e un’opposizione asserviti entrambi all’Ue che è la negazione dell’Europa autentica, alla Nato che ci dovrebbe difendere chissà da chi perché se c’è una minaccia per la nostra storia e la nostra cultura viene dall’Islam, e agli Stati uniti in nome dei quali le lobby  industriali finanziare  e militari esercitano il loro potere. E in questa piattitudine l’unica voce che a volte si leva è il latrato di qualche cane rabbioso.

Post scriptum 

Quelli che commemorano la difesa di Budapest dall’armata rossa sono  come tali nazisti ed è giusto che vengano contestati, che   gli si impedisca di manifestare   e che vengano  presi a bastonate dai compagni nostrani e tedeschi, fra i quali la nostra maestrina armata di manganello. Gli eredi ucraini di Bandera che si definiscono da sé nazisti sono patrioti che vanno sostenuti. Qualcosa non torna, compagni.

Pierfranco Lisorini

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One thought on “L’Italia è malata se non già morta”

  1. Molto pertinente il parallelo tra l’interventismo “cieco, pronto e assoluto” dell’Italia in un conflitto che non la riguarda in Ucraina e i suoi tardivi interventi nelle 2 guerre del ‘900, nonché l’ipotetica secessione del sud Tirolo (e, aggiungo, del reale tentativo di farla da parte della Catalogna), senza interventi esterni.
    Certo, è tanto più “rilassante” seguire l’onda prevalente e accodarsi ad ogni mossa voluta dagli USA, di cui siamo colonia…
    E’ molto più rilassante, come citato nel mio articolo odierno, condannare il signoraggio altrui e tacere quello che ci riguarda e condiziona ogni nostro provvedimento economico.
    Il coraggio non è di casa in Italia

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