L’inganno dei peisithanatos, i persuasori di morte. La filosofia aiuta a vivere non a morire e a invecchiare bene
“Filosofare è imparare a morire”. Questa affermazione, suffragata dall’autorità di Platone, di Cicerone, di stoici ed epicurei e in tempi moderni di Montaigne è suscettibile di interpretazioni diverse e contrastanti. Per alcuni significa integrare la morte nel proprio percorso di vita, per altri, al contrario, escludere dal proprio percorso di vita la prospettiva della morte, per altri ancora accettare la morte dell’altro. Non ho alcuna difficoltà nel ritenere il primo caso quanto di più distante dalla filosofia, che è curiosità, ricerca, consapevolezza, investimento di senso, ironia e salute mentale. Pensare anche per un solo momento che siccome la vita è a termine la morte non sia la fine ma il fine della vita non è solo una suprema sciocchezza ma il segno di una malattia dell’anima, clinicamente una patologia con risvolti anche gravi. La morte è e deve rimanere un non-sense, un’assurdità, proprio perché estranea alla vita e non integrabile nella vita. Finché si vive si è proiettati verso il mondo, si è risolti nel compito, quale che esso sia, nella scoperta o nella ricognizione. Se la morte si intrufola nella vita niente ha più valore e significato. Insomma, prepararsi alla morte è un’assurdità concettuale. Se la vita è insopportabile niente e nessuno può imporre di protrarne la sofferenza ma la filosofia non c’entra nulla: la filosofia è vita e bussola per il viandante e non si può attribuire senso o direzione quando non c’è più cammino. Ma se per noi stessi la morte è un non-evento, la morte degli altri è un evento, qualcosa che accade e anche in questo caso non c’è filosofia che possa elaborarla. La filosofia non ha una funzione consolatoria, può solo registrare l’evento e considerarlo inevitabile e constatare che intorno a noi tutto muore continuamente e niente rimane com’è, che siano grandi o piccoli mutamenti: la persona che hai amato non esiste più: tu sei ancora lo stesso ma quella è morta e non rivive nell’immagine che ti si para davanti, è solo un ricordo che stride con la persona attuale e reale. Però la nostra stabilità, la nostra sicurezza emotiva dipende dagli altri: i genitori, i figli, la compagna o il compagno, gli amici.
E se vengono meno la nostra esistenza traballa, come per un amore tradito. Se, infatti, l’accettazione della morte – la propria – è un falso problema e la sua anticipazione un oltraggio alla vita, la perdita di una relazione d’appoggio è un problema e può diventare un problema terapeutico delicato e complesso anche perché rimuoverlo, sopprimere il lutto, non è liberatorio ma alienante. Se muore un amico rimane la gratitudine per quello che è sono stati la consuetudine e la condivisione di esperienze e interessi ma se il legame non è di semplice consuetudine ma investe tutta la nostra sfera affettiva e l’intero nostro progetto di vita dimenticare, pensare ad altro, la via continua, cercare compensazioni è segno di aridità, mancanza di empatia, povertà emotiva. Il dolore rimane, si addolcisce, diventa rimpianto ma resta, e restando dà senso alla vita.
Insomma una filosofia della morte è un ossimoro, e non c’è autorità che ne elimini l’interna contraddizione.
Diverso è il caso della vecchiaia, il più drammatico e inevitabile cambiamento di ruolo e di status per affrontare il quale occorre essere filosoficamente attrezzati. Se la morte e un non-evento, qualcosa che non si esperisce ma segna la fine dell’esperire, non capita a te ma intorno a te, come un negozio che chiude o un vicino che cambia casa, qualcosa che riguarda gli altri ma non te, la vecchiaia, al contrario, ti riguarda, eccome! La vecchiaia è un tappa obbligata della tua esistenza, è una parte decisiva del tuo ciclo di vita, il suo coronamento e insieme l’occasione che ti si offre per liberare appieno la tua spiritualità. Da vecchio la tua capacità di vedere e di intendere non è più ostacolata dalle convenzioni, dalle pressioni interne e dalle richieste esterne, non hai più motivo di avere paura di essere sopraffatto né sei oppresso dall’ansia di doverti affermare. Nella vecchiaia godi la pienezza della tua vita, appartieni solo a te stesso, non hai più bisogno di dimostrare niente, la piramide sociale non ti riguarda più e sopra di te non c’è autorità che tenga. Ma è anche una condizione che non ci spetta automaticamente, non è dovuta ma va meritata e preparata.
Nella vecchiaia l’amore e il sesso si liberano dai conflitti, dalle paure, dal’insicurezza e dal retaggio infantile si esprimono in un modo placido, sereno, autenticamente appagante, come ha mirabilmente testimoniato su questi Trucioli savonesi l’ottimo Marco Giacinto. C’è tempo e disponibilità per la fruizione della bellezza, per il godimento dell’armonia, per l’investimento erotico delle belle forme. E al giovane e sentimentalmente acerbo Leopardi che “impetrava” di evitare di vecchiezza la detestata soglia (ed è stato accontentato) contrappongo il sentimentalmente risolto Goethe e la sua prolifica, gioiosa e pienamente vissuta vecchiaia.
Ma la vecchiaia va preparata e conquistata, non è un dono che ci viene offerto gratuitamente e come e più di ogni tappa dell’esistenza richiede disponibilità, flessibilità, apertura mentale e una buona dose di determinazione perché comporta dei rischi ed espone a pericoli che si deve essere in grado di evitare: è così per l’adolescenza come per la maturità, che per molti non arriva mai ed è così per la vecchiaia. Un po’ perché il sangue non scorre fluidamente nelle arterie, un po’ per limiti personali, un po’ per non voler integrare i cambiamenti fisici o la perdita di ruoli sociali per tanti la vecchiaia è un’opportunità perduta. Il vecchio rancoroso, ostile, chiuso nelle sue convinzioni indurite, incapace di aprirsi verso l’altro, rafforza lo stereotipo della senescenza come imputridimento, rinsecchimento dell’anima oltre che del corpo, aridità affettiva. Ma questa è la vecchiaia non vissuta, è solo decadimento fisico, mentale e spirituale Il vecchio che vive la sua condizione come un privilegio ha coscienza della fine ma non se ne cura e si guarda bene dal mettersi in attesa: non cessa di appassionarsi alle cose del mondo ma lo fa con una riflessività e un’intelligenza sconosciuta al giovane, non battibecca con chi professa idee diverse dalle sue ma lo guarda con ironia e, se è il caso, lo compatisce e ne prova pena.
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Giuro che io e Lisorini non ci siamo messi d’accordo sull’argomento da trattare questa settimana: è come se un filo comune ci unisse, una sorta di telepatia dovuta alla comune età. Naturalmente sottoscrivo appieno la sua lucida visione della senectus. In un’intera vita, lo scampolo in cui si gode della maggior libertà è proprio l’ultimo, in cui puoi davvero espletare disposizioni filosofiche che la frenesia della competizione, che oggi più che mai affligge chi lavora, aveva sino allora impedito. L’unica pervadente tristezza è la visione di un mondo che marcia verso la sua morte a tappe forzate. Il motto che trovo più odioso è “dopo di me il diluvio”, che pure sembra albergare nella mente di chi arraffa a piene mani il patrimonio delle generazioni che -forse- verranno.
Pellifroni e Lisorini complimenti, due articoli fantastici, li ho sentiti miei e anche il commento di Pellifroni all’articolo di Lisorini avrei voluto scriverlo io, descrive perfettamente come mi sento io quasi settantenne. Complimenti davvero alla rivista e ai due collaboratori