L’enigma Eichmann e i doveri di un cittadino ligio alla legge
La dialettica del mistero del bene e del male è antica quanto il mondo, ed è stata affrontata miriadi di volte in miriadi di modi. Assurdo dunque riprenderla pur sommariamente per un articolo di rivista quando anche lo spazio di un intero saggio sarebbe una goccia nell’oceano.
C’è da dire però che non ho intenzione di generalizzare, di formulare o esprimere giudizi su una tale tematica.
Vorrei solo evidenziare alcune questioni, stimolato dalla lettura del tanto discusso testo “La banalità del male” della politologa (non amava essere chiamata filosofa) Hannah Arendt, che a sua volta sono stato spinto a leggere per vedere se il caso limite ed emblematico che tratta (quello del tenente colonnello Adolf Eichmann, maggior responsabile della logistica per la deportazione nei campi di concentramento nazisti, fuggito in Argentina sotto il falso nome di Ricardo Klement grazie a un passaporto fornitogli da un frate francescano, rapito dal Mossad nel 1960 e portato in Israele, processato nel 1961, e impiccato a Gerusalemme il 31 maggio del 1962), poteva indirettamente in qualche misura illuminarci sull’atteggiamento da assumere rispetto a tanti fatti di cronaca che ultimamente paiono (ma non è detto che non si tratti di un’impressione favorita da mezzi di comunicazione di massa onnipresenti, che oggigiorno arrivano dove alcuni decenni fa non arrivavano) moltiplicarsi esponenzialmente, e che mettono a dura prova l’idea di come vi possa e/o vi debba essere un solco sicuro come riferimento da seguire nell’attuazione dei nostri comportamenti sociali e nel giudizio di quelli altrui.
Tuttavia anche un approccio simile, comporta una trattazione che per essere minimamente seria dovrebbe diffondersi ben al di là delle poche righe che mi sono prefisso.
Pertanto mi limiterò a riflettere solo su un paio di passaggi dell’ottavo capitolo del libro in questione, quello intitolato “I doveri di un cittadino ligio alla legge”, che più degli altri solleva questioni relative alla filosofia morale, ovvero a ciò da cui tra l’altro ci potrebbe giungere qualche lume per vedere se questa “banalità del male”, quando realmente esistesse, sia specifica dell’individuo Eichmann e di personaggi a lui equiparabili per caratteristiche psicologiche e fattori situazionali, o se possa anche appartenere alla struttura dell’animo umano, e come tale sia potenzialmente estensibile a tutti.
E allora rilevo, prendendo spunto proprio da queste poche (18) pagine, come durante l’istruttoria del processo in cui fu imputato, Eichmann affermò di aver sempre vissuto secondo i principi dell’etica kantiana; e quando gli furono chiesti chiarimenti al riguardo, oltre ad affermare di aver letto “La critica della ragion pratica”, seppe riferire, in modo sostanzialmente accettabile, che cosa il filosofo di Konigsberg intendesse per imperativo categorico.
Orbene, è possibile essere d’accordo con l’autrice nel catalogare come una persona di scarsa intelligenza uno che di propria iniziativa affronta un testo così difficile e così noioso per chi non abbia uno spiccato interesse e una almeno discreta capacità riflessiva?
Per quale motivo avrebbe dovuto leggere Kant?
Era davvero solo un grigio burocrate appena in grado di rendere perfettamente operative idee altrui?
E ancora: è in possesso di scarsa intelligenza uno che riesce ad evitare o quantomeno a procrastinare la condanna che gli avrebbe comminato la sua coscienza, mettendo in moto dei meccanismi psicologici i quali gli consentono di sostituire all’imperativo categorico mutuato da Kant (che egli stesso in un primo tempo formula in questo dettato:”Il principio della mia volontà deve essere sempre tale da poter divenire il principio di leggi generali”) quell’altro: “Agisci in una maniera che il Fuhrer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe”, cosa che ai suoi occhi riteneva lecita dacché si era ritrovato a far parte di una catena di comando in cui non era “padrone delle proprie e azioni” e in cui non poteva far nulla per “cambiare le cose”?
La Arendt scrive:”Eichmann aveva sempre bisogno di un’autorità; qualunque ne fosse l’origine” e “la triste e spiacevolissima verità era probabilmente che non il fanatismo, ma proprio la coscienza aveva spinto Eichmann a adottare quell’inflessibile atteggiamento [di voler continuare nello sterminio ad Auschwitz nonostante Himmler, suo superiore, gli avesse ordinato (per suo tornaconto personale, beninteso, non certo per buon cuore) di sospenderlo, perché sapeva che Hitler, la guida suprema a cui aveva giurato fedeltà, non sarebbe stato d’accordo con quegli ordini].
A tal proposito è opportuno riportare la testimonianza di Wilhelm Hottl, collaboratore di Eichmann, nell’intervista rilasciata alla trasmissione televisiva “Adolf Eichmann, il contabile dello sterminio”: “Si lamentava con me per il fatto che Kaltenbrunner [il superiore del suo superiore; più “in alto” c’erano solo Himmler e Hitler] non lo avesse ricevuto, e che avesse incaricato il suo aiutante di dargli un rotolo di sovrani e di sterline d’oro inglesi. E lui: -Me ne infischio, non voglio denaro; ce l’ho già. Voglio ordini. Voglio sapere cosa devo fare!-.
Il che parrebbe proprio essere in linea con il giudizio che di lui dà la Arendt, di uno che aveva bisogno di essere eterodiretto.
Questo significa che non solo la coscienza perde quella facoltà di ergersi ad ultimo incontestabile baluardo contro il male e di bussola che è in grado di indicare la strada del bene dopo il venir meno di ogni altro criterio, ma addirittura che la coscienza (e questo è forse, filosoficamente parlando, lo snodo più allarmante e sconvolgente), è il pericolo più subdolo perché inattaccabile da qualsiasi accusa, cui si può sempre rispondere:”l’ho fatto perché me lo ha dettato la coscienza!”?
O non ci riporta tutto questo allo strano caso del dottor Jeckill di stevensoniana memoria, il quale nel momento in cui sceglieva di abdicare al suo libero arbitrio per consegnarsi alla chimica di una pozione, nel tentativo di deresponsabilizzarsi in realtà finiva per assumersi preventivamente la colpa di ciò che di criminale avrebbe fatto?
La colpa di Eichmann, se così fosse, più ancora dell’ essere rimasto fedele alla inumana legge incarnata dalla volontà di Hitler, non è stata piuttosto quella di avergli giurato fedeltà?
Dopodiché è proprio inammissibile sospettare, se si pone mente, per esempio, a quei tanti tedeschi che non avevano giurato fedeltà ad Hitler ma condividevano le sue scelte, che “ripiegare sulla inequivocabile voce della coscienza o, secondo la terminologia ancor più vaga dei giuristi, su un generale sentimento di umanità, significhi non soltanto aggirare la questione, ma rifiutarsi deliberatamente di prender nota dei principali fenomeni morali, giuridici e politici del nostro secolo”?
La domanda che viene da porsi è: Eichmann se non fosse venuto a conoscenza negli ultimi giorni di guerra della morte di Hitler, e perciò della scomparsa della Legge (in senso statuale ma anche morale, visto che egli l’aveva sostituita con la persona del dittatore, innalzandolo a incarnazione del “Tu devi” kantiano), lo avrebbe ripudiato nascondendosi sotto falso nome e fuggendo?
Restando a Kant: quanto la formulazione di un’etica formalistica come quella che si basa sul dovere per il dovere può, non diciamo giustificare, ma offrire il destro per giustificarsi? Eppure Kant era un uomo di pace.
E se poi pensiamo che anche Socrate era un uomo di pace, di tolleranza, di dialogo, e che tuttavia l’idea socratica per cui se si commette il male lo si fa per ignoranza sovente ha fatto da paravento ai più efferati delitti, non solo ci sentiamo caricati del peso di decifrare cosa sia il male, ma addirittura di come sia un rischio reale che coloro i quali cercano di combatterlo a volte possano in un certo senso sdoganarlo, permettendo al quadro di avere una sua cornice che lo renda in qualche misura presentabile.
Viene persino da chiedersi se la frase che avrebbe pronunciato Cristo sulla croce:”Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34) non si scontri con il concetto, per la Chiesa fondamentale, del peccato commesso “per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa”.
E tanto basti a mostrare come la tematica, da qualsiasi punto la si affronti, se non la si canalizza su un aspetto molto specifico (cosa che anche i giudici del processo ad Adolf Eichmann a Gerusalemme hanno faticato a fare) tenda ad allargarsi a macchia d’olio in modo spropositato.
Dunque nessuna risposta è possibile?
Sia da un punto di vista generale e filosofico, sia da un punto di vista storico e psicologico in cui appunto si circoscrive il campo al personaggio Eichmann, finora sembrerebbe di no.
Egli, emblema della supposta banalità del male, mai si pentì (prima di essere catturato ebbe a dire: “Riderò quando salterò dentro la tomba al pensiero che ho ucciso cinque milioni di ebrei. Mi dà molta soddisfazione e molto piacere”), e tuttavia negò sempre di aver odiato gli ebrei.
Ma una cosa possiamo dirla: che la vita di Otto Adolf Eichmann (Solingen, 19 marzo 1906 – Ramla, 31 maggio 1962), salito sul patibolo con la stessa calma con la quale faceva caricare sui carri-bestiame i prigionieri (soprattutto ebrei, ma anche sinti, rom, comunisti, socialisti, disabili, omosessuali, prigionieri di guerra, testimoni di Geova, avversari politici…) perché andassero a morire di lavoro, o di acido cianidrico nelle camere a gas, continua ad essere un enigma su cui neanche la scienza, esemplarmente con i controversi esperimenti psico-sociali di Stanley Milgram e di Philip Zimbardo degli anni ’60 e ’70 del ‘900, è riuscita a fare luce.
Oppure sì, una risposta è possibile se si concede che lo sia quella che si sentì dare Primo Levi quando chiese a un guardiano del lager il perché di un sopruso gratuito: “Qui non c’è perché”.