IL MALE SECONDO HANNAH ARENDT
Che cos’è il male? Non occorre essere filosofi per porsi, almeno una volta nella vita, questa domanda. In altri termini, tutti gli esseri umani, proprio in quanto si distinguono dalle bestie, prima o poi si trovano di fronte alla “questione del male”; si pensi solo alle epidemie che hanno periodicamente decimato la popolazione europea anche nel Novecento, ai mali “incurabili” (almeno fino ad oggi), alle guerre che hanno insanguinato la storia (dis)umana passata e presente, e tutto lascia credere che così avverrà anche in futuro, con il loro corteggio di lutti, di morti, di feriti, di violenze d’ogni genere e conseguenti carestie, devastazioni ed epidemie, ancora nella nostra cara (?) Europa (per tacere dei massacri che avvengono continuamente nel Terzo e Quarto mondo, lontano dall’occhio delle telecamere!) in barba alla pace perpetua teorizzata da Immanuel Kant. Ma la questione del male propriamente detta è quella che riguarda il comportamento umano individuale, la facoltà di scegliere, quindi la libertà o la necessità, il libero arbitrio e la volontà, buona se è orientata verso il bene, cattiva se, invece, decide di volgersi al male. Ma la questione non è così semplice: come attesta Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani. “Sappiate infatti che la Legge è spirito, ed io sono carne, venduto e soggetto al peccato. Ciò che compio non lo comprendo, non ciò che voglio, ma ciò che detesto, questo faccio, e nel fare ciò che non voglio riconosco la bontà della Legge. Allora non sono più io a compiere il mio atto, ma il peccato che abita in me. So infatti che non abita in me, ossia nella mia carne, il bene, poiché mi è vicina la volontà ma non il compimento del bene. Io non faccio il bene che voglio, ma ciò che non voglio, il male, ecco che cosa faccio. E se faccio ciò che non voglio, non sono più io a compierlo, ma il peccato che risiede in me. Trovo dunque questa Legge, che a me, desideroso di fare il bene, vicino è il male. Mi compiaccio infatti della Legge divina nell’intimo del mio essere uomo, ma vedo nelle mie membra un’altra legge, che fa la guerra alla Legge del mio intelletto e mi rende prigioniero della legge del peccato esistente nelle mie membra. Uomo sventurato son io. Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (7 14 -25).
Queste parole di san Paolo sono quanto mai chiare: è possibile volere il bene e, al tempo stesso, fare il male, come se nella mente, o nella coscienza, degli esseri umani si verificasse una scissione inconscia che blocca la loro volontà di obbedire alla Legge divina del bene. Ma allora che senso ha parlare di colpa e di responsabilità da parte degli uomini (e delle donne) se non sono loro a compiere il male ma è la “legge del peccato”? Nella Bibbia la risposta è chiara: la colpa non è nella legge del male ma nell’obbedire a questa legge anziché a quella del bene, cioè alla Legge di Dio. E’ dall’aver disobbedito alla Legge del Signore preferendo obbedire a quella di Satana che derivano tutti i mali e le disgrazie che hanno flagellato l’umanità, fin dai tempi della prima trasgressione di Adamo ed Eva, ingannati dal Serpente. Come spiegare o giustificare il potere esercitato di questa legge del male, senza che la Legge del bene intervenga? E’ forse impotente di fronte al male? Non per niente il passo di san Paolo sopra citato ha messo in crisi e tenuto con il fiato sospeso teologi e filosofi come Origene, Agostino d’Ippona (sul quale la Arendt ha elaborato la sua tesi di laurea sotto la guida di Karl Jaspers), Erasmo, Lutero, Calvino, Pascal, Schelling, Schleiermacher, Kierkegaard, Barth e Rahner, per citare i primi che mi vengono in mente. Riguardo alla concezione del male della Arendt, bisogna distinguere due tempi, come lei stessa afferma in una sua lettera in risposta alle obiezioni mossele dal collega ebreo e amico Gershom Scholem in seguito al suo celebre e controverso reportage sul processo Eichmann a Gerusalemme, e al sottotitolo che ha urtato molti suoi amici e corrispondenti, compreso lo stesso Jaspers, cioè La banalità del male. Può considerarsi una banalità lo sterminio di milioni di esseri umani solo per il fatto che erano ebrei, sterminio a cui ha collaborato con zelo e scrupolo impiegatizio il funzionario nazista Adolf Eichmann? Scrive Scholem: “La lettura del tuo libro mi lascia perplesso sulla tua tesi della ‘banalità del male’ – la quale è alla base di tutta la tua argomentazione, se dobbiamo prestare fede al sottotitolo del tuo libro. Questa nuova tesi mi colpisce come uno slogan: non ho certo l’impressione che si tratti del risultato di un’analisi approfondita – un’analisi convincente come quella che ci hai offerto nel tuo libro sul totalitarismo, al servizio di una tesi completamente differente e persino contradditoria. Allora non sembrava che tu avessi già scoperto che il male è banale. Di quel ‘male radicale’, la cui esistenza hai dimostrato con tanta eloquenza ed erudizione nella tua precedente analisi, non resta che questo slogan; per essere qualcosa di più, dovrebbe essere studiato seriamente come un concetto di filosofia morale o di etica politica. Mi dispiace – e te lo dico in tutta franchezza e senza nessuna ostilità- di non essere capace di prendere più seriamente la tesi del tuo libro. Dopo il tuo libro precedente, mi sarei aspettato qualcosa di diverso”. Il libro precedente è Le origini del totalitarismo in cui la Arendt analizza la struttura dei regimi totalitari con i suoi apparati, la sua ideologia, la sua propaganda, la sua organizzazione, la sua polizia segreta e i suoi campo di concentramento e di sterminio. Il male radicale a cui fanno riferimento sia Scholem che la stessa Arendt, prima di scoprirne la banalità, è quello di cui parla Kant nell’opera La religione nei limiti della semplice ragione pubblicata nel 1793, nella quale il filosofo affronta per la prima volta la questione del male radicale nella natura umana senza risalire al peccato originale, e sottraendosi così alla controversia tra cristianesimo e illuminismo. Secondo Kant esiste nell’essere umano, accanto a una predisposizione al bene anche un’inclinazione o propensione al male che lo spinge ad agire per soddisfare i propri impulsi e desideri egoistici. Si tratta di una tendenza che è, dice Kant “intrecciata con la natura umana”, ma non risiede nelle inclinazioni, nelle inclinazioni ma nella volontà, senza tuttavia identificarsi in essa, altrimenti sarebbe quella volontà di potenza (Nietzsche doveva ancora nascere) che porta gli uomini a schiantarsi contro i propri limiti. Nella sua lettera in risposta a quella di Scholem, la Arendt, dopo aver respinto le obiezioni del collega, scrive: “Per concludere, permettimi di affrontare la sola questione in cui tu non mi abbia frainteso: sono contenta che tu ne abbia colto il punto essenziale. Hai completamente ragione: ho cambiato idea e non parlo più di ‘male radicale’. E’ passato molto tempo dal nostro ultimo incontro, altrimenti, altrimenti avremmo potuto già parlare di questo argomento. (Tra parentesi, non capisco perché chiami la mia espressione ‘banalità del male’ una frase fatta o uno slogan. Per quanto ne so, nessuno ha usato questo termine prima di me, ma questo non è importante). Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso ‘sfida’, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità , di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale…”. Qui la Arendt ritorna al suo sant’Agostino, e alla concezione del male come mancanza di bene. A questa conclusone era arrivata anche Simon Weil, non per niente anche lei formatasi, oltre che su Platone, sulle opere di sant’Agostino. Purtroppo Hanna Arendt è morta anzitempo sessantanovenne e non ha potuto portare a compimento la sua opera sulla vita contemplativa, a coronamento di quella sulla vita attiva. Quella che ha scritto è comunque fondamentale per indicarci la via da seguire, se non vogliamo (in) seguire la banalità del male presente e ancor più futuro.